CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 luglio 2019, n. 17711
Rapporto di lavoro – Riconoscimento della qualifica superiore di promotore vendita – Modifica dell’orario di lavoro
Rilevato che
1. Con sentenza n. 917 depositata il 12.6.2014 la Corte di appello di Palermo, confermando la pronuncia del Tribunale della medesima sede, respingeva la domanda proposta da S. M., dipendente di A. s.p.a. inquadrato nel V livello di cui al CCNL applicato in azienda, per il riconoscimento, con decorrenza dall’anno 1999, della qualifica superiore di “promotore vendita”, III livello di cui al CCNL applicato in azienda e per il pregiudizio subito a seguito di riduzione dell’orario di lavoro settimanale da 20 a 19 ore con decorrenza dall’anno 2001.
2. La Corte distrettuale, preso atto del giudicato interno formatosi in relazione alla domanda di riconoscimento del livello immediatamente superiore a quello assegnato (IV livello) in considerazione dello svolgimento di mansioni di cassiere dall’anno 1997, ha – per quel che interessa – osservato che gli elementi istruttori acquisiti non avevano consentito di verificare lo svolgimento della mansione di promotore vendita (bensì quella di commesso addetto alle vendite, corrispondente al IV livello) e che il motivo di appello concernente la modifica dell’orario di lavoro era inammissibilmente proposto in quanto avente ad oggetto le controdeduzioni della società e non la motivazione della pronuncia del Tribunale.
3. Avverso la detta sentenza il M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, illustrati da memoria. La società resiste con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo, ex art. 360, primo comma n. 3, cod.proc.civ., il ricorrente denunzia “violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro” avendo, la Corte distrettuale, errato nell’applicare l’accordo integrativo aziendale del 23.9.1992 che prevedeva espressamente l’inquadramento del promotore di vendita nell’ambito del III livello, essendo emerso in maniera inconfutabile lo svolgimento di tale mansione da gennaio 1999 a gennaio 2003, come riferito dai testi A. e C.
2. Con il secondo motivo, ex art. 360, primo comma n. 5, cod.proc.civ., il ricorrente deduce vizio di motivazione avendo, la Corte distrettuale, trascurato l’orientamento giurisprudenziale consolidato che richiede, per qualsiasi modifica dell’orario di lavoro, l’accordo delle parti.
3. Il ricorso è inammissibile per plurimi motivi.
4. Il primo motivo è prospettato con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto dell’accordo integrativo aziendale, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 cod.proc.civ., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (cfr. Cass. n. 29093 del 2018, Cass. n. 3224 del 2014; Cass. SU n. 5698 del 2012; Cass. SU n. 22726 del 2011).
Va, inoltre, rilevato che l’interpretazione delle disposizioni collettive di livello aziendale è riservata al giudice di merito le cui valutazioni non sono sindacabili in sede di legittimità salvo che per violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione, posto che la riforma del giudizio di cassazione introdotta dal d.lgs. n. 40 del 2006 ha esteso il sindacato diretto della Corte di Cassazione esclusivamente ai contratti collettivi nazionali.
Costituisce, inoltre, principio consolidato, quello secondo cui la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili (v., fra le altre, v. Cass. n. 11511 del 2014; Cass. n. 12988 del 2013).
5. Il secondo motivo è inammissibile perché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366, comma primo, n. 4 cod. proc. civ.. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione… ” (Cass. n. 17125 del 2007 e negli stessi termini Cass. n. 20652 del 2009).
Nel caso di specie difetta la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la Corte territoriale non ha affermato che la modifica dell’orario di lavoro unilateralmente disposta dal datore di lavoro era legittima bensì ha rilevato “l’oggettiva distonia tra la censura e lo specifico capo di sentenza, atteso che, a fronte dell’affermazione del Tribunale di non ravvisare alcun tangibile pregiudizio economico dalla scelta di rimodulazione oraria del servizio, l’appellante si è preoccupato di confutare le argomentazioni opposte dalla controparte, a proposito dell’applicabilità di un istituto contrattuale del CCNL (art. 32) che non sono state oggetto di sindacato critico da parte del primo giudice”.
Non risulta, dunque, che il lavoratore-appellante abbia impugnato specificamente la motivazione illustrata dal Tribunale a fondamento del rigetto della domanda di risarcimento del danno per modificazione datoriale dell’orario di lavoro, come richiesto ai sensi dell’art. 434 c. 2 nn. 1 e 2 cod.proc.civ. Va rilevato che, ancorché, in forza dell’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, in ragione della formulazione degli artt. 342 e 434 cod.proc.civ., nel testo di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv. con modificazioni dalla legge n. 134 del 2012, non occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, in ragione della natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello (Sez. U. n. 27199 del 16/11/2017), tuttavia la stessa norma impone al ricorrente in appello dì individuare in modo chiaro ed esauriente il “quantum appellatum”, circoscrivendo il giudizio di gravame non solo con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata ma anche ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice (Cass. n. 21336 del 2017, Cass. n. 4136 del 2019).
6. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il principio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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