CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 novembre 2020, n. 24224
Tributi – IRPEF – Accertamento – Plusvalenza – Cessione quote – Componente passivo fittizio – Azzeramento artificioso della plusvalenza – Onere di prova contraria
Rilevato che
1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato a M.G.G. un avviso d’accertamento, in materia di Irpef, relativo all’anno d’imposta 2006, con il quale ha recuperato a tassazione il maggior reddito imponibile derivante dalla quota, di spettanza dello stesso contribuente, della plusvalenza realizzata dalla H. s.s., della quale egli era socio di maggioranza, per effetto della cessione a società del gruppo M. delle quote della A.I. s.p.a., della quale la medesima H. s.s. era socio di maggioranza.
Infatti, il valore della cessione, e la correlata plusvalenza, erano rideterminati dall’Ufficio, in misura superiore rispetto al corrispettivo dichiarato dalle parti, sul presupposto che la differenza tra il valore reale delle quote (determinato con riferimento ai valori del ramo d’azienda, dichiarato nell’atto di conferimento dalla A.I. s.p.a. alla A.I. s.r.l., e del marchio A., dichiarato nella fattura emessa dalla A.I. s.p.a. nei confronti della L. s.p.a.) ed il prezzo della cessione corrispondesse all’importo, che sarebbe stato pagato dalla cedente ad una società dello stesso gruppo M., a titolo di compenso per la “gestione plusvalenze marchio” e per la “gestione altre riserve di patrimonio”. Tale componente negativo del valore di cessione delle quote, secondo l’Amministrazione, andava disconosciuto, costituendo il “pacchetto di risparmio fiscale” procurato dal gruppo M., che aveva consentito di azzerare artificiosamente la plusvalenza dichiarata dalla predetta H. s.s. a seguito della cessione delle quote della A.I. s.p.a. a società dello stesso gruppo.
2. Il contribuente ha proposto ricorso avverso l’accertamento dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Lecco, che lo ha respinto.
3. Il contribuente ha impugnato quindi la sentenza di primo grado dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Lombardia che, con la sentenza n. 59/42/2013, depositata in data 16 aprile 2013, ha rigettato l’appello.
4. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della predetta sentenza d’appello, affidato a sei motivi.
5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.
6. Il ricorrente ha prodotto memoria.
Considerato che
1. E’ opportuno trattare preliminarmente, per la sua potenziale capacità assorbente degli altri, il sesto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., con il quale il contribuente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 60 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 3 legge 20 novembre 1982, n. 89.
Lamenta il ricorrente che il giudice a quo avrebbe erroneamente affermato che la proposizione del ricorso introduttivo avrebbe sanato i vizi della notifica dell’avviso d’accertamento, consistenti nella mancata indicazione del soggetto notificatore e nell’omessa compilazione della relata di notifica.
Il motivo è infondato, avendo questa Corte (Cass. 15/01/2014, n. 654, ex plurimis) già avuto modo di chiarire che la notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto, amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo, per essere stato impugnato dal destinatario in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo (non risultando, nel caso di specie, eccepita tale eventuale decadenza).
2. Va trattato preliminarmente, sempre per la sua potenziale capacità assorbente degli altri, anche il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., con il quale il contribuente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 27 d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito senza modifica dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2.
Assume il ricorrente che il giudice a quo avrebbe errato nel non ritenere l’accertamento nullo, poiché esso derivava da una verifica fiscale condotta dalla Direzione regionale del Veneto dell’Agenzia delle Entrate, oltre che dalle risposte ad un questionario che era stato sottoposto da quest’ultima allo stesso G., che non apparteneva alla categoria dei “grandi contribuenti”, rispetto ai quali soltanto sarebbe stata competente, ai sensi delle norme richiamate, la predetta ripartizione territoriale dell’Amministrazione finanziaria.
Il motivo è inammissibile, atteso che, come eccepito dalla controricorrente e come risulta dallo stesso ricorso (punto 10 di pag. 7), l’eccezione proposta con il ricorso introduttivo atteneva l’incompetenza territoriale dell’Amministrazione, non quella funzionale, c.d. verticale.
Comunque, il motivo è altresì infondato, atteso che, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, in tema di accertamenti tributari, il predetto art. 27 non ha attribuito alle Direzioni regionali delle entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesistente, ma ha inteso fondare su una norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi (Cass. 03/10/2014, n. 20915; Cass. 14/10/2016, n. 20856; Cass. 21/12/2018, n. 33289).
3. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., il contribuente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 67 e 68, sesto comma, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. Assume il ricorrente che il giudice a quo avrebbe errato nel ritenere legittima la contestazione di una maggior plusvalenza, in difetto della sussistenza di un corrispettivo della cessione superiore rispetto a quello contrattualmente pattuito e dichiarato.
4. Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., il contribuente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, che sarebbe costituito dal «mancato rispetto da parte dell’ufficio del principio del corrispettivo ex art. 68, comma 6, d.P.R. 600/1973» (rectius: d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917).
4.1. Il primo ed il secondo motivo sono connessi, se non proprio coincidenti, vanno trattati congiuntamente e sono inammissibili.
Infatti, essi non attingono – né in fatto, né in diritto – la ratio decidendi esplicitamente manifestata nella motivazione della sentenza impugnata, nella quale il divario tra il prezzo di cessione dichiarato ed il valore delle partecipazioni cedute, assunto a base della contestata plusvalenza, viene accertato non a seguito di una mera contrapposizione tra valore normale delle quote trasferite e corrispettivo contrattualmente convenuto e dichiarato, ma per effetto del disconoscimento del compenso (per la “gestione” delle” plusvalenze marchio” e delle ” altre riserve di patrimonio”) che sarebbe stato pagato dalla cedente a società dello stesso gruppo M., quali fiduciarie.
E’ quindi, secondo la motivazione adottata dalla CTR, il disconoscimento di tale componente negativo del valore di cessione delle quote, che aveva consentito di azzerare artificiosamente la plusvalenza dichiarata dalla predetta H. s.s., che ha giustificato l’imputazione della maggior plusvalenza di cui all’accertamento impugnato.
5. Con il terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., il contribuente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 «e quindi conseguentemente» dell’art. 2697 cod. civ.
Assume il ricorrente che il giudice a quo avrebbe errato nell’attribuire a lui, come ad altri soci della A.I. s.p.a., l’interposizione fittizia della H. s.s., della quale si erano assicurati il totale controllo, quale cessionaria delle loro quote di partecipazione nella predetta A.I. s.p.a., al fine di farle poi trasferire dalla stessa H. s.s. alle società cessionarie del gruppo M., e di azzerare la plusvalenza derivante da tale ultima operazione a mezzo di un componente passivo fittizio, rappresentato dal già descritto compenso per prestazioni di servizi (la ridetta “gestione”).
Infatti, secondo il ricorrente, vi sarebbe «totale assenza di interposizioni fittizie» e sarebbe stato violato il principio dell’onere della prova.
6. Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., il contribuente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti, che sarebbe costituito da « l’assenza di interposizioni fittizie ed il mancato assolvimento dell’onere probatorio»
6.1. Il terzo ed il quarto motivo sono connessi, se non proprio coincidenti, vanno trattati congiuntamente e sono inammissibili e comunque infondati.
Infatti, la sentenza impugnata prende in considerazione una serie di elementi indiziari, che valuta in coordinazione tra loro, come il valore attribuito dai soci al ramo d’azienda ed al marchio della A.I. s.p.a., superiore al corrispettivo di cessione controverso; la corrispondenza della differenza de qua con i compensi corrisposti, quali fiduciarie per la gestione delle partecipazioni, a società del gruppo M.; la dichiarazione integrativa del contribuente, relativa alla plusvalenza realizzata con la cessione; la circostanza che, in un contesto temporale ristretto, il duplice passaggio delle quote A.I. s.p.a., dai soci che ne erano titolari alla H. s.s. e da questa alle società cessionarie del gruppo M., e la stessa acquisizione, da parte dei medesimi soci, delle quote della predetta H. s.s., non trovavano una giustificazione razionale, sotto il profilo economico e funzionale.
A fronte di tali valutazioni, il ricorrente lamenta che mancherebbe, nella sentenza impugnata, il riferimento al pactum sceleris sul quale dovrebbe fondarsi l’interposizione fittizia contestata.
Non è chiaro quale sia il senso effettivo della censura, in palese contrasto con il contenuto della sentenza impugnata, che invece, in diversi passaggi (pagg. 3 e 4) della motivazione, fonda il meccanismo elusivo descritto proprio sulla condotta reciprocamente coordinata del contribuente, degli altri soci della A.I. s.p.a. e delle società del Gruppo M..
Inoltre, va comunque ricordato che, come questa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. 05/12/2018, n. 31452, anche in motivazione) l’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, n. 600, nel prescrivere che l’imputazione diretta al contribuente «dei redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona», ha evidenti finalità antielusive – nel senso che mira impedire che, attraverso operazioni commerciali compiute mediante negozi giuridici conformi all’ordinamento giuridico, si realizzi lo scopo di sottrarre alla corretta tassazione, in tutto od in parte, il reddito prodotto ed imputabile al medesimo soggetto giuridico – e non presuppone un comportamento fraudolento (diretto ad aggirare il divieto imposto da una norma imperativa: art. 1344 c.c.), essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante (perché non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale) di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale proprio dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta (cfr. Cass. nn. 17128/2018, 25671/2013, 449/2013, 8487/2009). Pertanto, il fenomeno della simulazione relativa (nell’ambito del quale può ricomprendersi l’interposizione personale fittizia) non esaurisce il campo di applicazione della norma, ben potendo attuarsi lo scopo elusivo mediante operazioni effettive e reali, nelle quali difetta del tutto l’elemento caratteristico dei negozi simulati costituito dalla divergenza tra la dichiarazione esterna e l’effettiva volontà dei contraenti o meglio dalla relazione funzionale, integrante la causa unitaria, che intercorre tra il negozio apparentemente stipulato (simulato) e quello effettivamente concluso dalle parti (dissimulato). Dunque, in tema di accertamento dei redditi, l’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 imputa al contribuente i redditi formalmente intestati ad un altro soggetto quando, in base a presunzioni gravi, precise e concordanti, egli ne risulti l’effettivo titolare, senza distinguere tra interposizione fittizia e reale, sicché la sua applicazione non è limitata alle sole operazioni simulate (cfr. Cass. 30/10/2018, n. 27625; Cass. n. 15830/2016).
Tanto meno è chiaro quale sia il senso effettivo dell’ulteriore censura, secondo la quale «Si è basiti che i Giudici di seconde cure, nella loro decisione, omettano qualsivoglia considerazione sulla presentata dichiarazione integrativa», anch’essa in palese contrasto con la motivazione della sentenza impugnata, che invece (nel terzultimo capoverso di pag. 4), in diversi passaggi (pagg. 3 e 4) dedica un’apposita argomentazione a tale circostanza (come del resto, contraddicendosi, il ricorrente riconosce nella prosecuzione dello stesso motivo).
Assolutamente generica, poi, è la censura al ragionamento inferenziale seguito dalla CTR, sostenuta con argomentazioni astratte sui presupposti delle presunzioni semplici, ma non ancorata all’effettivo contenuto della sentenza sul punto e della fattispecie sub iudice, se non tramite la riproposizione della questione del pactum sceleris, sulla quale si è già detto.
Anche il terzo ed il quarto motivo di ricorso, in realtà, come eccepito dalla controricorrente, appaiono piuttosto finalizzati ad ottenere un’inammissibile rivisitazione, in fatto, delle valutazioni di merito effettuate dal giudice a quo sulla questione. Inammissibilità che è particolarmente evidente nel quarto motivo, nel quale il “fatto” del quale la CTR avrebbe omesso l’esame consisterebbe proprio nella violazione di legge imputata all’Amministrazione con il terzo motivo, cosicché il vizio di cui all’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ. anche in questo caso si ridurrebbe, in pratica, al mancato accoglimento della tesi dell’appellante, ciò che non è ammissibile in questa sede.
7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito .
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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