CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 ottobre 2018, n. 23881
Licenziamento per motivi disciplinari – Alterazione fraudolenta del peso della merce venduta – Intenzionalità e reiterazione delle condotta – Asserita assenza di un movente – Difetto di prova del dolo del lavoratore – Irrilevanza – Condotta riconducibile a specifica previsione collettiva oltre che alla fattispecie legale della giusta causa – Presunzioni semplici costituiscono una prova completa cui il giudice di merito può attribuire rilevanza
Rilevato
1. che con sentenza n. 658/2016 la Corte di appello di Roma, pronunziando in sede di reclamo ha confermato la legittimità del licenziamento per motivi disciplinari intimato a G.A. da GS s.p.a. con lettera del 30.4.2013;
1.1. che, in particolare, la Corte territoriale, in dichiarata adesione alla motivazione del giudice di prime cure, integralmente richiamata, ha ritenuto che gli elementi istruttori acquisiti confermavano la intenzionalità delle condotte contestate all’A., caporeparto del reparto pescheria del supermercato GS s.p.a., condotte consistenti, in sintesi, nell’alterazione fraudolenta del peso della merce venduta; ha puntualizzato che il carattere intenzionale dei comportamenti addebitati non poteva dirsi eliso dalla asserita assenza di un movente il quale, peraltro, non era in concreto da escludere essendo emerso che l’andamento del reparto in termini di volume di vendita e differenze inventariali rientrava tra gli obiettivi cui era collegata l’erogazione del premio di rendimento per il caporeparto;
1.2. che il licenziamento per giusta causa risultava giustificato in ragione della reiterazione ed intenzionalità delle condotte che avevano esposto la società alle doglianze ed al discredito della clientela oltre che a conseguenze amministrative se non penali; tali condotte erano riconducibili a specifica previsione collettiva oltre che alla fattispecie legale della giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ.;
1.3. che, stante le articolate argomentazioni sul punto del giudice di primo grado, nel generico richiamo ai vizi procedurali di contestazione e sostanziali sul diritto di difesa del lavoratore formulate nel paragrafo conclusivo dell’atto di reclamo, non era ravvisabile alcun motivo di impugnazione di talché vi era stato passaggio i giudicato sui relativi capi della sentenza;
2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso G.A. sulla base di due motivi; che la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso;
Considerato
1. che con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. nonché degli artt. 2727, 2729, 2730, 2735, cod. civ.. Assume che anche a voler ritenere provati, nella loro materialità, i fatti l’assunto della loro intenzionalità non risultava suffragato da presunzioni gravi, precise e concordanti; le risultanze probatorie inducevano, infatti, a ritenere, che le minime differenze di peso della merce venduta dovessero ascriversi a mera casualità o a prassi operative che favorivano il vizio riscontrato; contesta, infine, la natura confessoria delle ammissioni fatte dal dipendente al Responsabile territoriale della sicurezza ed al Capo Area in occasione dell’episodio del 13 aprile 2013;
2. che con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2106, 2119 cod. civ., e degli artt. 220 e 225 c.c.n.I. per i dipendenti da aziende terziario di mercato distribuzione e servizi. Sul presupposto del difetto di prova del dolo del lavoratore assume la riconducibilità delle condotte ascritte alla ipotesi di cui all’art. 225 c.c.n.I. applicabile, che punisce con sanzione conservativa l’esecuzione con negligenza del lavoro affidato. Sostiene, inoltre, che, anche a voler ritenere accertati i fatti come contestati, il giudice del reclamo avrebbe dovuto, nel verificare la sussistenza della giusta causa di recesso, tenere conto delle concrete circostanze afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto di lavoro, delle specifiche mansioni espletate, del grado di affidamento richiesto ecc;
3. che il primo motivo di ricorso è inammissibile con riguardo alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.. Secondo il condivisibile orientamento di questa Corte, infatti, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. 27/12/2016 n. 27000). Nel caso di specie la censura in concreto articolata non addebita alla sentenza impugnata alcun errore di diritto riconducibile, nel senso sopra precisato, alla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc.civ., ma incentra le proprie censure sulla correttezza del ragionamento presuntivo alla base dell’affermazione della responsabilità del dipendente per le condotte ascritte;
3.1. che con riferimento a tale profilo le censure sono infondate; Occorre premettere che le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione; spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare il fatto da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto a lui riservato (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010). Si è pure rilevato che il convincimento dei giudice sulla verità di un fatto può basarsi anche su di una sola presunzione, eventualmente in contrasto con altre prove acquisite, se da lui ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli altri elementi di giudizio ad esso contrari, alla sola condizione che fornisca del convincimento così attinto una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria (cfr. Cass. n. 9245 del 2007; Cass. n. 19088 del 2007; Cass. n. 17574 del 2009; Cass. n. 18644 del 2011). E’ stato poi precisato non occorra che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza (cfr. Cass. n. 16993 del 2007; Cass. n. 4306 del 2010; Cass. n. 22656 del 2011; Cass. n. 22898 del 2013), visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 5787/2014 cit.). E’ compito istituzionalmente demandato al giudice del merito selezionare gli elementi certi da cui “risalire” al fatto ignorato (art. 2727 c.c.) che presentino una positività parziale o anche solo potenziale di efficacia probatoria e l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit sottratto al controllo di legittimità (in termini, Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017), salvo che esso non si presenti intrinsecamente implausibile tanto da risultare meramente apparente. Non è poi sufficiente contestare l’equivocità di un singolo fatto valutato dalla sentenza impugnata proprio perché il convincimento del giudice del merito deve esprimere necessariamente una valutazione sintetica e globale in relazione al complesso degli indizi, atteso che, quand’anche uno di essi sia singolarmente sfornito di valenza indiziaria, può acquisirla nella combinazione con gli altri, nel senso che, come insegna la giurisprudenza citata, ognuno può rafforzarsi e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento;
3.2. che le censure articolate, vagliate alla stregua della elaborazione giurisprudenziale in tema di controllo di legittimità del ragionamento presuntivo del giudice di merito, risultando infondate in quanto non evidenziano alcuna implausibilità dell’inferenza tratta dal giudice di merito, sulla base di fatti noti, in ordine alla volontarietà delle condotte intese a determinare l’alterazione del peso della merce venduta. Il giudice del reclamo ha fondato tale accertamento sulle univoche segnalazioni e lamentele di clienti, sul conseguente sopralluogo dei Vigili Urbani, sulla specifica dinamica dell’episodio del 16.4.2013 (tentativo, riferito dai testi di sollevare il piatto della bilancia evidentemente finalizzato a togliere le alici posizionate al di sotto dello stesso), sulla confessione stragiudiziale del dipendente il quale al rappresentante della società aveva dichiarato che la alterazione del peso della merce era destinata al fine di favorire l’azienda, sulla stessa esistenza di un possibile movente rappresentato dall’erogazione del premio di rendimento collegato al volume di vendita. Tali elementi letti complessivamente nella loro univoca significatività probatoria rendono senz’altro plausibile l’assunto della alterazione fraudolenta del peso della merce; infine, la contestazione della natura confessoria delle ammissioni fatte dal dipendente è affidata a argomentazioni generiche inidonee a
confutare l’accertamento del giudice di merito in ordine alla esistenza dell’animus confitenti;
3.3. che il secondo motivo di ricorso è infondato laddove muove dall’assunto da ritenersi indimostrato alla luce delle ragioni del rigetto del motivo precedente, della imputabilità delle condotte ascritte a mero titolo di colpa con riflessi anche sulla valutazione di proporzionalità della sanzione espulsiva;
4. che a tanto consegue il rigetto del ricorso e il regolamento, secondo soccombenza, delle spese di lite;
5. che la circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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