CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2021, n. 23816

Sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Vincolo di soggezione personale al potere direttivo del datore di lavoro – Onere probatorio

Rilevato che

1. la Corte d’appello di Cagliari – Sez. distaccata di Sassari -, con sentenza del 9.3.2016, respingeva il gravame proposto da B. D. avverso la decisione del Tribunale di Sassari che aveva rigettato la domanda proposta dalla predetta, intesa alla declaratoria della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la s.r.l. L.V., con la qualifica di dirigente, ed alla condanna della società al pagamento delle differenze retributive, quantificate in € 469.470,42, oltre che alla declaratoria dello svolgimento delle mansioni di preposto anche per il periodo successivo al gennaio 2001, con condanna al pagamento di ulteriori € 41.962,12;

2. la Corte distrettuale, escluso che la transazione intervenuta in data 23 maggio 2007 tra i germani D. comprendesse anche la domanda di cui alla presente controversia, rilevava che l’appellante svolgeva le mansioni di preposto, secondo il contratto del 1989, senza vincolo di subordinazione e con ampia libertà organizzativa, e che tale attività era perdurata sino al 2001, data di assunzione quale dirigente. Peraltro, all’atto dell’assunzione quale dirigente la D. aveva informato l’ente previdenziale della cessazione dell’attività autonoma prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato;

3. di tale decisione domanda la cassazione la D., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società;

4. entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.

Considerato che

1. con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2094 e 2095 c.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 111, comma 6, Cost. ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione, rilevando che non siano state considerate le risultanze istruttorie che avevano confermato che era solo essa istante ad impartire le direttive, sottoscrivendo i contratti di gestione ordinaria, effettuando i controlli sugli approvvigionamenti e provvedendo agli acquisti, con attività quotidiana estesa al controllo di cassa in via preventiva e sistematica rispetto a quella del deposito degli incassi in banca e predisposizione delle lettere di licenziamento e di assunzione; aggiunge di avere esercitato il potere direttivo e disciplinare con una continuità giornaliera senza limiti di orario e comunque con adibizione alle varie mansioni descritte di almeno quattro, cinque ore;

1.1. la ricorrente osserva che la Corte non ha considerato che i testi avevano confermato la circostanza che ella doveva rispondere del proprio operato al padre, amministratore della società, e che pertanto dovevano ritenersi sussistenti gli indici della subordinazione, dovendo tale subordinazione essere necessariamente di natura attenuata, in presenza di funzioni direttive quali quelle espletate;

2. con il secondo motivo, la D. lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., in relazione al contratto stipulato tra con la L.V. s.r.l. in data 2.1.1989 e, comunque, in relazione all’interpretazione delle delibere societarie del 29.12.1989 e del 28 dicembre 1996, dovendo aversi riguardo, oltre che al nomen iuris, anche alla valutazione globale degli elementi caratterizzanti lo svolgimento del rapporto (collaborazione, continuità delle prestazioni, osservanza di un orario predeterminato, versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo data dal datore di lavoro, assenza in capo al lavoratore di un sia pur minima struttura imprenditoriale);

3. il ricorso va dichiarato inammissibile;

4. elemento indefettibile del rapporto di lavoro subordinato – e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo – è la subordinazione intesa come vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato, mentre hanno carattere sussidiario e funzione meramente indiziaria altri elementi del rapporto di lavoro (quali, ad esempio, la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della prestazione medesima nell’organizzazione aziendale e il coordinamento con l’attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione), i quali – lungi dal surrogare la subordinazione o, comunque, dall’assumere valore decisivo ai fini della prospettata qualificazione del rapporto – possono, tuttavia, essere valutati globalmente, appunto, come indizi della subordinazione stessa, tutte le volte che non ne sia agevole l’apprezzamento diretto a causa di peculiarità delle mansioni, che incidano sull’atteggiarsi del rapporto;

4.1. in sede di legittimità “è censurabile solo la determinazione dei criteri generali e astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce accertamento di fatto – incensurabile in tale sede, se sorretto da motivazione adeguata e immune da vizi logici e giuridici – la valutazione delle risultanze processuali che hanno indotto il giudice ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale” (v. fra le altre Cass. 21-11-2001 n. 14664, Cass. 12-9- 2003 n. 13448, Cass. 6-6-2002 n. 8254, Cass. 4-4-2001 n. 5036, Cass.3-4-2000 n. 4036, Cass.16-1-1996 n. 326, Cass.4-5-2011 n. 9808 e , da ultimo Cass. Cass. 23.6.2014 n. 14160);

4.2. va, infatti, evidenziato che la violazione delle norme di diritto viene in rilievo non già in relazione alla ricostruzione del fatto materiale, ma rispetto al giudizio di sussunzione, compiuto, secondo l’ordine logico, in un momento successivo dal giudice del merito, consistente nella qualificazione dei fatti accertati e nella individuazione della disciplina giuridica applicabile;

4.3. la Corte di merito ha accertato, con giudizio di fatto, che le prestazioni lavorative dedotte in giudizio dalla ricorrente erano state rese con margini di autonomia, secondo quanto già esposto in narrativa e, soprattutto, senza ingerenze da parte di alcuno in sede di controllo della prestazione o disciplinare, essendosi anche evidenziato come una cesura rispetto alla diversa configurazione del rapporto in epoca successiva sia stata rappresentata dalla comunicazione, inoltrata all’INPS dalla stessa interessata, della cessazione dell’attività lavorativa autonoma a far data dal 14.3.2001, epoca dell’assunzione quale dirigente, in virtù di contratto sottoscritto in pari data dalla D. con il padre, amministratore della società;

4.4. il giudizio di sussunzione così operato non è affetto, dunque, dal vizio di falsa applicazione della norma dell’articolo 2094 c.c.

Anche nella materia de qua va, infatti, ribadito l’indirizzo generale consolidato in base al quale “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del  merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (v. Cass. 9- 4-2001 n. 5231, Cass. 15-4-2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933, Cass. 5-10-2006 n. 21412);

4.5. il percorso argomentativo si è sviluppato proprio nella direzione conforme ai parametri indicati dalla ricorrente, secondo un corretto approccio nella valutazione della subordinazione e della valorizzazione del principio secondo cui, qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non sia stato assolto e non già propendere per la natura subordinata del rapporto (cfr. Cass. 28.9.2006 n. 21028);

5. il secondo motivo va disatteso in considerazione della evidente connessione della questione dallo stesso posta con quella esaminata in relazione al primo motivo, rilevandosi come, sia con riguardo alle delibere societarie, che con riguardo al primo contratto, non si trascrive il contenuto dei documenti, oltre a non indicarsene la sede di deposito nei fascicoli di parte dei precedenti gradi di giudizio, e come la critica esuli dallo schema di una corretta prospettazione del relativo vizio di violazione delle norme, in quanto le violazioni dei canoni ermeneutici prospettate con tale motivo non sono censurate in maniera tale da rispondere all’esigenza sottolineata di necessità di indicazione delle ragioni della asserita violazione e come tali sono inammissibili;

5.1. il principio espresso al riguardo da questa Corte è quello secondo il quale “la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., avendo invece  l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (cfr. Cass. 27.6.2018 n. 16987, Cass. 28.11.2017 n. 28319, Cass. 15.11.2013 n. 25728);

6. alla stregua delle svolte considerazioni, si perviene alla indicata declaratoria di inammissibilità del ricorso;

7. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

8. essendo stato il ricorso proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, presupposti che ricorrono anche in ipotesi di declaratoria di inammissibilità del ricorso (cfr. Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la D. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 7500,00 per compensi professionali, oltre  accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto..