CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 agosto 2021, n. 22135

Tributi – Contenzioso tributario – Sentenza di appello – Motivazione – Ricorso in cassazione – Sostanziale contestazione dell’accertamento operato in punto di fatto dal giudice – Inammissibilità

Ritenuto

1. – La Commissione tributaria regionale della Sicilia, con sentenza n. 1855/12/17 dell’8 maggio 2017, pubblicata il 23 maggio 2017, ha confermato la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo n. 289/2013 di rigetto del ricorso proposto dalla società contribuente E.S. s.r.l. nei confronti della Agenzia delle entrate avverso l’avviso di liquidazione della imposta di registro complementare emesso in dipendenza dell’accertamento del maggior valore di € 1.458.745,00 (contro quello dichiarato di € 2.400.00) in relazione alla cessione di un ramo di azienda (concernente la realizzazione di un impianto fotovoltaico), trasferito con rogito dell’11 maggio 2010 alla contribuente dalla cedente B. s.r.l.

2. – L’Avvocatura generale dello Stato ha proposto ricorso per cassazione mediante atto del 25 settembre 2017.

3. – La società intimata ha resistito mediante controricorso del 13 novembre 2017, col quale ha chiesto anche la condanna della ricorrente per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ.

Considerato

1. – La Commissione tributaria regionale – per quanto serba rilievo nella sede del presente scrutinio di legittimità – ha motivato la conferma della sentenza appellata, osservando quanto segue.

È palesemente errato il metodo di accertamento del maggior valore adottato della Agenzia delle entrate, la quale, traendo argomento dalla circostanza che la società B. s.r.l. aveva contestualmente proceduto a ulteriori sei cessioni di altrettanti rami di azienda, ha rideterminato il valore del trasferimento litigioso raguagliandolo a un settimo del « valore attribuito alla società cedente »; mentre l’oggetto della cessione era pertinente a una « attività da avviare […] con esclusione di mezzi tecnologici, materiali e strutture », essendo « certo » d’altra parte I « mantenimento da parte della B. della attività industriale che la aveva nel tempo contraddistinta con le proprie immobilizzazioni materiali, immobilizzazioni finanziarie e rimanenze di prodotti in corso di lavorazione ».

Né, infine, in alcun altro modo la Agenzia delle entrate ha offerto la dimostrazione dell’accertamento del maggior valore della cessione.

2. – L’Avvocatura generale dello Stato denunzia, con unico motivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 51 e 52 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.

La ricorrente premette che è pacifico l’accertamento della Agenzia delle entrate sul punto che nell’anno 2010 (della cessione) la società B. s.r.l. « non aveva dichiarato voci relative ad una impresa in attività »; sicché era legittima la presunzione che « l’Azienda (cedente) si sia dimessa nel corso del 2010 di tutte le rimanenze e immobilizzazioni, materiali e finanziarie » trasferendole alle sette società cessionarie dei rami di azienda alienati.

Deduce, quindi, l’Avvocatura generale dello Stato che correttamente, ai sensi dell’art. 51, quarto comma, del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, dovendo il valore della, cessione determinarsi « con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda » l’Agenzia delle entrate aveva assunto a base del calcolo « il valore dei beni che componevano l’azienda B. s.r.l. » e aveva diviso il ridetto valore per il numero delle società cessionarie, essendovi sostanziale identità di attività di impresa.

Soggiunge la ricorrente che l’Agenzia delle entrate non era tenuta a effettuare ulteriori accertamenti, in quanto il potere, attribuito dall’art. 51, quarto comma, d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, non comporta alcun corrispondente obbligo.

3.1 – In relazione alla denunziata (e assolutamente immotivata) violazione dell’art. 52 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, soccorre il principio di diritto secondo il quale « il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità […]. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata » (Sez. 1, sentenza n. 24298 del 29/11/2016, Rv. 642805 – 02; cui adde Sez. 1, ordinanza n. 16700 del 05/08/2020, Rv. 658610 – 01; Sez. 1, sentenza n. 5353 del 08/03/2007, Rv. 595183 – 01).

3.2 – Con la residua censura, prospettata in termini di violazione dell’art. 51 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, in realtà la ricorrente contesta, invece, l’accertamento operato in punto di fatto della Commissione tributaria regionale in ordine all’oggetto della cessione, là dove il giudice a quo ha nettamente escluso che il trasferimento concernesse prò quota (in ragione di un settimo) l’intero compendio aziendale della società cedente. La questione di merito (circa la interpretazione del contratto e il contenuto del trasferimento) proposta dalla Avvocatura generale dello Stato, esula, pertanto, dall’ambito della previsione dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., in quanto non viene, per vero, in discussione, sotto nessun profilo, la disposizione di legge (evocata dalla ricorrente) sul controllo dell’ufficio tributario « con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono la azienda [nella specie: il ramo di azienda] compreso l’avviamento ed esclusi i beni indicati nell’art. 7 della parte prima della tariffa e art. 11-bis della tabella, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie o da atti aventi data certa a norma del codice civile, tranne quelle che l’alienante si sia espressamente impegnato ad estinguere e quelle relative ai beni di cui al citato art. 7 della parte prima della tariffa ».

3.3 – Consegue la declaratoria della inammissibilità del ricorso.

4. – Deve essere rigettata la domanda della controricorrente di condanna della controparte ai sensi dell’art. 96, primo comma, cod. proc. civ.

Giova rammentare che, secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, « la domanda di risarcimento dei danni da responsabilità processuale aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., è proponibile per la prima volta in sede di legittimità ove si tratti di danni che si riconnettono esclusivamente al giudizio di Cassazione » (Sez. 2, sentenza n. 2389 del 17/03/1999, Rv. 524199 – 01; Sez. 4, sentenza n. 5087 del 02/04/2003, Rv. 561739 – 01; Sez. 5, sentenza n. 21805 del 05/12/2012, Rv. 624179 – 01; Sez. 5, sentenza n. 6355 del 01/04/2016, n.m.).

Orbene, nella specie, la responsabilità aggravata non appare configurabile, in quanto – a tacere dalla perplessa prospettazione di dolo e di colpa grave operata dalla controricorrente – lo scrutinio di legittimità, esaurendosi nel rilievo della inammissibilità della impugnazione, ha reso affatto irrilevanti tutte le questioni circa il merito dell’accertamento del maggior valore compiuto dalla Agenzia delle entrate e le correlate deduzioni della ricorrente. Sicché non è dato ritenere che, di per sé, la proposizione del ricorso, sol perché inammissibile in rito (Sez. 5, sentenza n. 6686 del 06/04/2016, cit.), abbia concretizzato « un errore grossolano del difensore nella redazione dell’atto » così da integrare la responsabilità aggravata (Sez. 5, sentenza n. 14035 del 23/05/2019, Rv. 654111 – 01).

5. – Le spese del presente giudizio, congruamente liquidate nel dispositivo, seguono la soccombenza, ai cui fini non rileva il rigetto della domanda risarcitoria proposta dalla controricorrente vittoriosa (Sez. 4, sentenza n. 14813 del 10/07/2020, Rv. 658182 – 02; cui adde Sez. 6-3, ordinanza n. 5466 del 28/02/2020, Rv. 657296 – 01; Sez. 6-3, ordinanza n. 9532 del 12/04/2017, Rv. 643825 – 01).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Rigetta la domanda della controricorrente di risarcimento danni da responsabilità processuale aggravata.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi euro 5.200,00 per compensi e per esborsi, oltre spese forfetarie e accessori di legge.