CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 dicembre 2018, n. 31155
Licenziamento disciplinare per giusta causa – Contestazione disciplinare per aver proferito una minaccia rivolta al proprio superiore – Minaccia di morte “a freddo”, al di fuori di un contesto di una conversazione animata – Situazione di conflittualità di rapporti lavorativi riscontrata più volte dalle autorità penali – La minaccia grave determina turbamento nel soggetto passivo e può essere pronunciata anche in modo generico – Idoneità della minaccia a limitare la sfera della libertà morale nel soggetto passivo, senza essere necessariamente prodromicaall’esecuzione del fatto prospettato
Rilevato
che, con la sentenza n. 3661/2017, la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia emessa dal Tribunale della stessa città n. 8875/2016, ha annullato il licenziamento disciplinare per giusta causa, intimato a B. A. con lettera del 14/15.2.2013 e ha condannato la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro e a corrispondergli una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto: ciò sull’assunto dell’insussistenza del fatto contestato, in quanto l’unica condotta in astratto disciplinarmente rilevante (minaccia rivolta al responsabile della sede di Pescara il 6.9.2012, consistita nell’avere proferito le seguenti parole: “Tanto prima o poi io ti crepo”) non presentava, a parere dei giudici di seconde cure, quelle condizioni minime di serietà per potere essere valutata idonea a interrompere il vincolo fiduciario tra le parti;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la RAI Radio Televisione spa affidato a cinque motivi, illustrati con memoria;
che B. A. ha resistito con controricorso; che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1 comma 42 legge n. 92 del 2012, degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106, 1175, 1375 cc, degli artt. 1, 2, 3 della legge n. 604/1966, degli artt. 5, 6 del Regolamento di disciplina aziendale, del Codice Etico aziendale, degli artt. 28 e 29 del vigente Contratto Collettivo di Lavoro per quadri, impiegati e operai della RAI, degli artt. 1362, 1371 cc, degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., con riferimento al fatto addebitato alla lettera L della contestazione disciplinare (minaccia), per avere errato la Corte territoriale nel ritenere il fatto insussistente (per la non serietà e gravita della minaccia), quando, invece, dalle risultanze istruttorie era emerso che il fatto contestato era risultato esistente, che la minaccia era stata pronunciata “a freddo” e al di fuori di un contesto di conversazione animata e che non aveva avuto seguito solo per il comportamento del dott. Trapani che non aveva a sua volta reagito, di talché la condotta si dimostrava, sotto l’aspetto fenomenologico e giuridico, violativa degli obblighi di diligenza e di obbedienza imposti dalla normativa legale e contrattuale, complessivamente considerata e in grado di giustificare il recesso datoriale ex art. 2119 cc e art. 6 del Regolamento di disciplina aziendale, quale unica misura proporzionata; 2) la violazione e falsa dell’art. 7 legge n. 300 del 1970, dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (nel testo novellato dalla legge n. 92/2012), degli artt. 2104, 2105, 2106, 1175, 1375 e 2119 cc, degli artt. 1, 2, 3 della legge n. 604/1966, degli artt. 5, 6 del Regolamento di disciplina aziendale, del Codice Etico aziendale, degli artt. 28 e 29 del vigente CCNL per quadri, impiegati e operai della RAI, degli artt. 115, 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., con riferimento ai fatti contestati alle lettere diverse dalla L (presentazione di lettere diffide ad adempiere verso i superiori gerarchici e presentazione di denunce all’AG risultate poi archiviate) della contestazione disciplinare, da valutarsi anche congiuntamente al fatto di cui alla lettera L citata, per avere la Corte territoriale ritenuto erroneamente privi di rilevanza disciplinare i suddetti comportamenti quando, invece, essi si ponevano espressamente in contrasto con la disposizione di cui all’art. 2105 cc, all’art. 6 del Regolamento di Disciplina aziendale, del CCL RAI e del Codice Etico della RAI e, se considerati unitamente all’episodio della minaccia proferita, sicuramente avrebbero dovuto condurre ad opinare integrata la giusta causa solutoria del rapporto di lavoro; 3) la violazione dell’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., per omesso esame circa il fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, costituito dal contenuto illecito della minaccia di morte proferita dal dipendente al suo superiore gerarchico (con riferimento al fatto addebitato alla lettera L) della contestazione disciplinare), per avere adottato la Corte territoriale una motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile laddove aveva ritenuto che la minaccia di morte (“Tanto prima o poi ti crepo”) avrebbe avuto un carattere non serio e
dunque avrebbe dovuto considerarsi un comportamento lecito; 4) la violazione dell’art. 132 II c n. 4 c.p.c., degli artt. 112 e 113 c.p.c., degli artt. 24 e 111 Cost, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., per nullità della sentenza o del procedimento, alla luce della motivazione apparente e perplessa fornita dalla Corte di appello in ordine al fatto illecito costituito dalla minaccia di morte proferita dal dipendente al suo superiore gerarchico (con riferimento al fatto addebitato alla lettera L) della contestazione disciplinare) per quanto sopra detto in relazione al punto 3); 5) la violazione e falsa applicazione dei commi IV e V dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, nel testo novellato dalla legge n. 92/2012, degli artt. 2119, 2104, 2105, 2106, 1175, 1375 cc, degli artt. 1, 2, 3 della legge n. 604/1966, degli artt. 5, 6 del Regolamento di disciplina aziendale, del Codice Etico aziendale, degli artt. 28 e 29 del vigente CCL RAI, degli artt. 1362, 1371 cc, degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c. (con riferimento a tutti i fatti addebitati nella lettera di contestazione) per non avere la Corte di appello, pur ritenendo illegittimo il licenziamento, applicato la tutela del comma V essendo stati i fatti di cui alla contestazione comprovati in giudizio e, quindi, di essi era stata raggiunta la prova della loro sussistenza;
che i primi quattro motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro connessione logico-giuridica, sono fondati.
Preliminarmente va dato atto che le censure sono state correttamente poste sotto il profilo della sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa (e non di contestazione dell’operazione di accertamento in fatto compiuta dal giudice di merito) secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, con riguardo al parametro della pertinenza e della non coerenza del giudizio operato, in quanto specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico di questa Corte (cfr. Cass. 26.4.2012 n. 6498; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 15.4.2016 n. 7568).
Nella specie i giudici di appello, con una motivazione assertiva e, quindi, sostanzialmente apparente della ravvisata esclusione di serietà e gravità della minaccia di morte (cfr. pag. 3 della gravata sentenza), non hanno operato un corretta valutazione del comportamento reiterato del lavoratore il quale, pur a fronte di chiarimenti e risposte già ottenute e di denunce penali, nel suo diritto -si badi- legittimo di presentarle alle autorità giudiziarie competenti (salvo i casi naturalmente che risulti il carattere calunnioso o la consapevolezza dell’insussistenza dell’illecito), ha ritenuto di profferire una minaccia di morte, “a freddo”, al di fuori di un contesto di una conversazione animata, nei confronti di un direttore responsabile suo superiore, in una situazione di conflittualità di rapporti lavorativi già riscontrati più volte dalle autorità penali in senso negativo per il lavoratore.
Al riguardo, rileva invece questa Corte che, al di fuori delle ipotesi chiaramente ioci causa, la minaccia grave determina pur sempre un turbamento nel soggetto passivo e non è necessaria che sia circostanziata potendo benissimo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre una alterazione psichica, avuto riguardo alla personalità dei soggetti coinvolti. Inoltre, l’effetto della minaccia è quella della sua idoneità ad incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale e non di essere necessariamente prodromica e connessa all’esecuzione del fatto prospettato. Pronunciata, poi, in un ambiente lavorativo, è necessario considerare, ai fini di un giudizio sulla serietà della minaccia, l’effetto gravemente destabilizzante sull’attività aziendale, allorquando l’episodio diventa pubblico nell’ambiente lavorativo, nonché di considerare che comunque essa rappresenta intrinsecamente una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il lavoratore nei confronti di un suo superiore.
Tali profili non sono stati analizzati dalla Corte di appello sicché l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 cc, compiuta nella specie dal giudice di merito, ai fini della individuazione della giusta causa, è stata compiuta -come detto- con una motivazione carente e non adeguata, che non ha fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, in tema di standards di conformità ai valori dell’ordinamento, relativamente al concetto di serietà di una minaccia di morte, ai fini di determinare l’eventuale rottura del vincolo fiduciario tra le parti e la possibilità di prosecuzione del rapporto di lavoro;
che il ricorso, pertanto, deve essere accolto, con assorbimento della trattazione del quinto motivo riguardante la tutela applicabile la cui problematica sarà valutata -se del caso- successivamente, con rinvio alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame e provvederà sulle spese anche del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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