CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 dicembre 2018, n. 31156
Licenziamento per giusta causa – Direttore generale – Strategia ostruzionistica nei confronti dei vertici societari
Rilevato
che, con la sentenza n. 5613/2017, la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia del 22.3.2017 emessa dal Tribunale di Avellino con cui era stata respinta, conformemente all’esito della fase sommaria espletata ai sensi dell’art. 1 c. 47 e ss. della legge n. 92 del 2012, la domanda diretta ad ottenere la declaratoria di nullità e/o inefficacia del licenziamento per giusta causa intimato a P. P. in data 29.7.2015 dalla N. spa, di cui era direttore generale, per avere, in occasione di una riunione da lui promossa e tenuta in azienda il 22.5.2015, con i più stretti suoi collaboratori (tutti dipendenti della Società), comunicato di avere deciso l’adozione di una strategia ostruzionistica nei confronti dei vertici societari e delle politiche adottate a livello di “gruppi”, fingendo, peraltro, di apparire collaborativi e invitando tutti i presenti ad operare nei suddetti termini; che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione P. P. affidato a sei motivi; che la N. spa ha resistito con controricorso; che le parti hanno depositato memorie; che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., per essersi la sentenza impugnata discostata dal consolidato orientamento secondo cui il datore di lavoro, nella contestazione disciplinare al lavoratore, deve compiutamente illustrare i fatti oggetto di contestazione, onde consentire al medesimo lavoratore di potere compiutamente azionare il proprio diritto di difesa;
2) la nullità della sentenza, in riferimento all’art. 360 n. 4 c.p.c., per avere la gravata sentenza affermato la legittimità del licenziamento, sostenendo che tale decisione si fondava sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso della prima fase di giudizio e sull’asserita verifica delle stesse da parte della medesima Corte di merito, senza però che vi fosse la disponibilità del pregresso fascicolo di ufficio, né avendo onerato i procuratori delle parti al deposito di copia dei verbali di causa contenenti le dichiarazioni testimoniali;
3) la nullità della sentenza e del procedimento, in riferimento all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., perché la Corte territoriale, in violazione dell’art. 2697 cc, non aveva ammesso la prova testimoniale diretta e contraria richiesta dal P., volta alla dimostrazione dell’insussistenza sia materiale che giuridica del fatto posto alla base del licenziamento, reiteratamente richiesta sia nella prima fase che nella seguente opposizione ed ancora nel giudizio di reclamo;
4) la violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 comma 1 legge n. 300 del 1970 e dell’art. 1345 cc, anche in relazione all’art. 2697 cc, in riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c., per erroneo assunto, da parte dei giudici di secondo grado, di residualità, rispetto all’accertata sussistenza di una giusta causa di licenziamento, della sua natura ritorsiva con esclusione delle prove dedotte sulla presenza del motivo illecito determinate ex art. 1345 cc, configurabile non solo nelle ipotesi di discriminazione, ma in ogni intendimento datoriale di scopi riprovevoli e antisociali, risultante dalla contestazione assolutamente generica e dall’’immediato allontanamento dall’azienda e sostituzione con altro dirigente, prima ancora dell’intimazione del licenziamento;
5) l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c., perché la gravata sentenza aveva deliberato la tempestività della contestazione disciplinare, intervenuta circa due mesi dopo il fatto come contestato, senza però che fosse ammessa la prova richiesta dal ricorrente in ordine al momento dell’effettiva conoscenza da parte della società del preteso addebito poi genericamente contestato, in assenza pertanto di una valutazione complessiva di tutte le circostanze;
6) la violazione e falsa applicazione dell’art. 22 del CCNL “Dirigenti Aziende Industriali”, per non avere rilevato la Corte di merito che il licenziamento era stato intimato in violazione del disposto di cui al citato articolo che stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di specificare contestualmente la motivazione che lo aveva indotto al recesso;
che il primo ed il sesto motivo, da trattarsi congiuntamente per la loro connessione logico-giuridica, sono infondati.
In primo luogo, va sottolineato che, secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità rispetto ai contratti, ma che possono trovare applicazione anche con riguardo agli atti unilaterali, la censura proposta in sede di legittimità non può limitarsi a prospettare una interpretazione alternativa della dichiarazione unilaterale, fondata sulla valorizzazione di talune espressioni ivi contenute piuttosto che di altre, ma deve rappresentare elementi idonei a far ritenere erronea la valutazione ermeneutica operata dal giudice di merito, cui l’attività di interpretazione dell’atto è riservata (cfr. Cass n. 15471/2017; Cass. 23.8.2006 n. 18375). In tema di ermeneutica contrattuale, poi, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del singolo negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cc, sicché la censura in cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e ai principi in esse contenuti, ma deve precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (Cass. n. 27136/2017).
In secondo luogo, deve precisarsi che, per ciò che concerne la contestazione dell’addebito, essa ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cc; per ritenere integrata la violazione del principio di specificità è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore e la difesa esercitata in sede di giustificazioni è un elemento concretamente valutabile o per ritenere provata la non genericità della contestazione (Cass. 18.4.2018 n. 9540; Cass. 14.6.2013 n. 15006).
In ordine alla comunicazione del recesso, è stato, poi, affermato che essa ben può limitarsi a fare riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto il datore di lavoro, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l’indicazione dei motivi, ad una motivazione “penetrante”, analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali (cfr. Cass. 9.2.2006 n. 2851) posto che l’elemento essenziale di garanzia in favore del lavoratore è costituito dalla contestazione dell’addebito (cfr. in motivazione Cass. 21.1.2015 n. 1026);
che i suindicati principi hanno trovato applicazione, nel caso in esame, ove l’interpretazione della contestazione disciplinare e della lettera di recesso è stata censurata solo nel senso di offrire una lettura alternativa degli atti rispetto a quella svolta argomentatamente dalla Corte di appello la quale ha individuato, in modo corretto, la condotta contestata non in specifici episodi ostruzionistici, ma nell’avere il direttore generale della società maturato un dissenso tale nei confronti dei vertici aziendali da volerne boicottare le decisioni, a fronte di un apparente atteggiamento collaborativo, e nell’avere incitato i suoi collaboratori a comportarsi allo stesso modo. E in relazione a tale contestato atteggiamento eversivo la Corte territoriale ha rilevato che il P. era stato messo in grado di riconoscerlo, comprenderlo e di potersi adeguatamente difendere (cfr. PEC 23.7.2015 trascritta nel controricorso). I giudici di secondo grado hanno poi, conseguentemente, ritenuto esaurientemente motivato il provvedimento di recesso proprio con riferimento ai fatti oggetto di contestazione. Ne deriva, pertanto, che alcuna violazione di legge o del contratto collettivo è ravvisabile nei termini di cui ai citati motivi di ricorso;
che il secondo motivo è inammissibile: invero, a parte la formulazione perplessa della doglianza («non si comprende come la Corte di appello di Napoli…. senza avere la disponibilità delle pregresse fasi di giudizio e dei relativi verbali di udienza contenenti le deposizioni testimoniali»), va rilevato che il ricorrente non ha dedotto né indicato specificamente gli elementi decisivi su uno o più punti controversi della causa, non ricavabili “aliunde”, che il giudice avrebbe dovuto prendere in considerazione e che non ha preso per la mancata acquisizione del fascicolo di ufficio di primo grado (cfr. Cass. 14.2.2006 n. 3181; Cass. 29.1.2016 n. 1678; Cass. 7.8.2018 n. 20631);
che il terzo motivo è infondato: la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cc si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma (cfr. Cass. 5.9.2006 n. 19064; Cass. 17.6.2013 n. 15107) e non quando vi sia stato un apprezzamento sulla rilevanza della prova, che appartiene alla valutazione discrezionale del giudice di merito, se congruamente motivato; nella fattispecie, la Corte territoriale, con argomentazioni esaustive relativamente all’esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, ha condiviso le decisioni del primo giudice di non ammettere la prova testimoniale richiesta dal P., sia perché vertente su circostanze irrilevanti, sia perché relative alla riunione del 22.5.2015 e, quindi, già oggetto della prova articolata dalla società su cui incombeva l’onere di fornire la giusta causa del licenziamento; che il quarto motivo è anche esso infondato: correttamente la Corte di merito si è attenuta al principio di legittimità, cui si intende dare seguito, secondo il quale, poiché il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, una giusta causa a norma dell’art. 2119 cc (cfr. Cass. 22.8.2003 n. 12349; Cass. 6.5.1999 n. 4543). Lo stesso principio è stato affermato in relazione al licenziamento ritorsivo (Cass. 9.3.2011 n. 5555).
In ordine, invece, al licenziamento discriminatorio, che non esige la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 cc e non è escluso dalla concorrenza con altre finalità pur legittime (cfr. Cass. 5.4.2016 n. 6575), deve rilevarsi che la Corte di merito, con una valutazione operante su di un piano pregiudiziale a quello della verifica sulla sussistenza, ha sottolineato che, in ordine ad esso, non era stato precisato il parametro (età, sesso, razza, religione ecc) rispetto al quale avrebbe potuto ipotizzarsi la natura discriminatoria e neppure in questa sede, in presenza di una accertata giusta causa di licenziamento, il ricorrente ha specificato in che cosa sia consistito il perseguimento, da parte della società, di asseriti scopi riprovevoli ed antisociali, così incorrendo in un evidente vizio di carente allegazione.
La Corte territoriale, ha dato, infine, anche ragionevole spiegazione della circostanza della immediata sostituzione del P., con altro dirigente, necessitato dal fatto di evitare la scopertura di una posizione lavorativa di estrema rilevanza, ribadendo, in tal modo, la insussistenza sia della natura discriminatoria che della esistenza di un motivo illecito;
che il quinto motivo è inammissibile perché l’omesso esame di cui all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c. nuova formulazione, applicabile nel caso di specie ratione temporis, deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica (e quindi non un punto o un profilo giuridico), un fatto principale e primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè un fatto dedotto in funzione probatoria). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. 22.9.2014 n. 19881): nel caso concreto, la Corte territoriale, sulla base delle risultanze istruttorie ritenute rilevanti, ha esaminato il profilo della tempestività della contestazione disciplinare, sicché la doglianza deve considerarsi, nei termini in cui è stata formulata, inammissibilmente proposta in quanto riguardante un mero apprezzamento di natura istruttoria; che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna del ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;
che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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