CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 gennaio 2019, n. 21
Rapporto di lavoro – Demansionamento – Risarcimento del danno biologico e alla professionalità – Valutazione delle prove orali
Rilevato
che, con la sentenza n. 54/2016, la Corte di appello di Campobasso, in riforma della pronuncia emessa il 23.9.2013 dal Tribunale della stessa città, ha condannato P.I. spa al pagamento della somma di euro 60.000,00, a titolo di risarcimento del danno biologico e alla professionalità patiti da I.D.M., dipendente della società, con qualifica di quadro di II livello dal 1990 e dal 1997 assegnata al CP/CRP con le competenze di vice direttore, la quale aveva lamentato, da un lato, un consistente peggioramento della propria posizione lavorativa a partire dal 1990 allorquando, seppure sempre conservando la qualifica di A2 (già Q2), era stata dapprima assegnata alle mansioni di AO e in seguito, dal 27.9.1999, all’UPT, con compiti ridotti al mero controllo dello smistamento dei pacchi e ai riepiloghi mensili, nonché con la responsabilità di una sola unità operativa, con mansioni dunque di fatto corrispondenti alla qualifica B o C, e, dall’altro, aveva richiesto il conseguente risarcimento dei danni quantificati come da allegati conteggi;
che avverso la decisione di II grado P.I. spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati con memoria;
che I.D.M. ha resistito con controricorso;
che il PG non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti: la mancata valutazione delle deposizioni testimoniali ai sensi dell’art. 360 n. 5 cpc, per avere la Corte di merito accertato la sussistenza del lamentato dimensionamento senza una giustificazione logica e coerente circa la valutazione delle prove orali raccolte in primo grado; 2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 116, ai sensi dell’art. 360 c. 1 n. 3 cpc, per non avere fornito la Corte territoriale alcuna argomentazione logica e coerente circa la mancata valutazione delle prove orali raccolte in primo grado; 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2103 e 2697 cc, e 432 cpc, sulla carenza di allegazioni sul danno da demansionamento, per avere i giudici di secondo grado condannato la società al risarcimento del danno professionale in favore della D.M. nonostante quest’ultima non avesse allegato specifiche circostanze fattuali dalle quali inferire l’esistenza di un concreto pregiudizio e non avesse offerto di provare (o comunque provato) la fattiva sussistenza di tale pregiudizio ovvero la riconducibilità dello stese all’illecita condotta tenuta dal datore di lavoro;
che il primo motivo è inammissibile: l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (per tutte cfr. Cass. 7.4.2014 n. 8053); nel caso di specie la questione del demansionamento è stata valutata dai giudici di secondo grado che hanno rilevato, con argomentazioni logiche e congrue, che vi era stata una chiara dequalificazione della posizione e dell’inquadramento professionale della D.M., quadro di secondo livello (a cui corrispondeva il ruolo di professional e di responsabile di struttura), che nel passato aveva svolto anche le funzioni di vice direttore e a cui erano state invece assegnate mansioni corrispondenti di fatto alla qualifica B o C e, cioè, di responsabile di una unica unità operativa nel settore “pacchi in transito” (con compiti ridotti al mero controllo della sussistenza dei pacchi e dei riepiloghi mensili);
che il secondo motivo è parimenti inammissibile: nel quadro del principio, espresso dall’art. 116 cpc, di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti;
il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito agli elementi utilizzati (cfr. Cass. Sez. Un. 14.12.1999 n. 898; Cass. 5.3.2002 n. 3125). Nel caso in esame la Corte territoriale, svolgendo un iter argomentativo esaustivo, ha dato atto che la denunciata dequalificazione, sia con riguardo al raffronto tra le mansioni rivendicate e quelle assegnate, sia con riferimento al contenuto della declaratoria contrattuale, era emersa dalla attività istruttoria, integrata anche in grado di appello e, quindi, sulla scorta delle indicazioni fornite dai testi escussi, peraltro non contestate da parte resistente. Non si verte, pertanto, in una violazione del principio di valutazione delle prove, come sostenuto da parte ricorrente, bensì in una opzione interpretativa del materiale probatorio del tutto ragionevole ed espressione di una potestà propria del giudice del merito che non può essere sindacata nel suo esercizio (Cass n. 14212/2010; Cass. n. 14911/2010);
che il terzo motivo è infondato. La gravata sentenza è conforme al principio di legittimità (ex aliis cfr. Cass. Sez. Un. n. 6572/2006; Cass. 6.12.2005 n. 26666) secondo cui, se è vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa, tuttavia la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’art. 2729 cc, anche attraverso la allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione (cfr. Cass. n. 14729/2006; Cass. n. 29832/2008). Infatti la Corte di merito, in adesione al suddetto principio, nel qualificare e liquidare i danni, ha valutato le condotte obiettivamente mortificanti patite dalla lavoratrice (estromissione dalla commissione esaminatrice per un concorso interno addirittura con sostituzione di una dipendente dell’Area Operativa, il parallelo avanzamento in carriera di dipendenti con qualifica inferiore, il silenzio datoriale in risposta alle legittime richieste di mansioni adeguate alla qualifica, le compromesse documentate condizioni di salute fisica e psichica concausalmente riconducibili al disagio prodotto alla D.M. nell’ambito lavorativo: il tutto unitamente alla minore ampiezza qualitativa e quantitativa delle nuove mansioni affidate che avevano determinato una depauperazione del bagaglio professionale già raggiunto dalla dipendente);
che la Corte territoriale, pertanto, ha osservato il principio secondo cui ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva o interiore, ma oggettivamente accertabile sul fare areddituale del soggetto, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni (cfr. Cass. 19.12.2008 n. 29832);
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere rigettato;
che al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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