CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 giugno 2020, n. 10536
Patto di non concorrenza post-contrattuale – Indennità rimessa all’arbitrio del datore di lavoro – Clausola nulla per contrasto con norme imperative – Recesso dal patto di non concorrenza avvenuto in costanza di rapporto di lavoro – Non rileva – Rispettivi obblighi cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto
Rilevato
che la Corte territoriale di Bologna, con sentenza depositata in data 3.2.2015, respingeva l’appello interposto da A. Italia S.p.A., nei confronti di M.M., avverso la pronunzia del Tribunale di Reggio Emilia n. 455/2009, con cui la datrice di lavoro era stata condannata a corrispondere alla ricorrente la somma di Euro 32.373,09, quale indennità per il patto di non concorrenza post-contrattuale nei due anni successivi alla cessazione del rapporto intercorso con la predetta società, oltre alla somma di Euro 1.079,86 a titolo di differenze retributive;
che la Corte di merito, per quanto ancora di rilievo in questa sede, ha osservato che <<la questione è stata già risolta dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che la risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative (cfr. Cass. n. 9491/2003; Cass. n. 15952/2004), con ciò superando un contrario risalente orientamento (cfr. Cass. n. 1968/1980; Cass. n. 3625/1983)>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre la A. Italia S.p.A., articolando sei motivi;
che M.M. resiste con controricorso;
che sono state comunicate memorie nell’interesse di entrambe le parti;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si censura:
1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., <<la violazione o falsa applicazione dell’art. 2125 c.c. nonché dell’art. 1373 c.c. sulla nullità della clausola dì recesso. Validità della clausola e del recesso intimato da A. alla M.>>, e si deduce l’erroneità della sentenza <<in punto di nullità della clausola che prevede la facoltà di recesso unilaterale dal patto di non concorrenza e la validità del recesso operato dall’appellante in corso di rapporto>>, assumendosi che <<la giurisprudenza della Suprema Corte>>, citata nella pronunzia impugnata, <<si riferisce a casi di recesso dal patto di non concorrenza comunicato successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro>>;
2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 1419, primo comma, c.c., e si denunzia il mancato riconoscimento, da parte dei giudici di seconda istanza, della nullità dell’intero patto di non concorrenza per supposta essenzialità, da parte della società ricorrente, della clausola di recesso unilaterale rispetto al patto complessivamente inteso;
3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1363, secondo comma, c.c., nonché, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’erronea interpretazione di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per <<erroneità della sentenza in punto di insufficiente considerazione dell’acquiescenza prestata dalla odierna appellata rispetto al recesso dal patto operato da A.>>, poiché, secondo quest’ultima, <<la mancata impugnazione dell’atto di recesso dal patto>> avrebbe <<comportato l’accettazione dello stesso per facta concludentia>>;
4) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., per <<erroneità della statuizione in punto di interpretazione della clausola che prevede l’obbligo di presentazione della documentazione attestante il rispetto del patto>>;
5) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., per erronea interpretazione della clausola del patto di non concorrenza sottoscritto, avendo la Corte di Appello sostenuto che, <<dal tenore letterale, appare evidente che la indennità viene identificata in un corrispettivo mensile, il cui importo è ricavato dalla media degli importi percepiti negli ultimi due anni, mentre è trimestrale soltanto il sistema di pagamento del suddetto compenso>>;
6) in riferimento all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1463 c.c., in relazione alla risoluzione del patto di non concorrenza, <<per non avere i giudici di seconda istanza ritenuto che non fosse applicabile la risoluzione di diritto del patto per sopravvenuta impossibilità dell’oggetto>>;
che il primo motivo non è fondato; va, innanzitutto, premesso che, come anche correttamente sottolineato dalla Corte distrettuale, le doglianze della società attengono al tema della legittimità del patto di non concorrenza post-contrattuale, del diritto dell’ex dipendente di ottenere il corrispettivo indennizzo previsto nel patto di non concorrenza sottoscritto e della nullità della clausola che prevede la facoltà del datore di lavoro di recedere unilateralmente dal predetto patto. Al riguardo, si evidenzia che i giudici di merito sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio uniformandosi agli ormai consolidati arresti giurisprudenziali della Suprema Corte nella materia, del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene – ed ai quali, ai sensi dell’art. 118 Disp. att. c.p.c., fa espresso richiamo (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 3/2018; 8715/2017; 213/2013; 212/2013; 15952/2004; 9491/2003) -, secondo cui <<la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative>>; inoltre, sempre in linea con la giurisprudenza di legittimità, i giudici di seconda istanza hanno osservato che il fatto che, nella fattispecie, il recesso dal patto di non concorrenza sia avvenuto in costanza di rapporto di lavoro non rileva, poiché i rispettivi obblighi si sono cristallizzati al momento della sottoscrizione del patto, <<il che>>, secondo quanto affermato dall’ormai consolidato orientamento della Corte di Cassazione, <<impediva al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprimeva la sua libertà; ma detta compressione, appunto ai sensi dell’art. 2125 c.c., non poteva avvenire senza l’obbligo di un corrispettivo da parte del datore; corrispettivo che, nella specie, finirebbe con l’essere escluso ove al datore stesso venisse concesso di liberarsi ex post dal vincolo > (cfr., per tutte, Cass. n. 3/2018, cit.); pertanto, premesso che <<l’obbligazione di non concorrenza a carico del lavoratore per il periodo successivo alla cessazione del rapporto sorge, nella fattispecie, sin dall’inizio del rapporto di lavoro>> (Cass. n. 8715/2017, cit.), <<tamquam non esset va considerata la successiva rinuncia al patto stesso… appunto perché, mediante questa, si finisce per esercitare la clausola, nulla, tramite cui la parte datoriale unilateralmente riteneva di potersi sciogliere dal patto, facendo cessare ex post gli effetti, invero già operativi, del patto stesso, condizione risolutiva affidata in effetti a mera discrezionalità di una sola parte contrattuale>> (Cass. n. 3/2018, cit.);
che neppure il secondo motivo è fondato, in quanto i giudici di merito hanno escluso – facendo corretta applicazione del disposto dell’art. 1419, secondo comma, c.c. – che la nullità della sola clausola di recesso dovesse comportare la nullità dell’intero patto di non concorrenza, in ossequio al principio di conservazione del contratto, che costituisce la regola nel sistema del codice civile (cfr, ex multis, Cass. nn 23950/2014; 15214/2011; 27732/2005; 6756/2003), alla stregua del quale, perché l’intero atto negoziale venga travolto da nullità, è necessario accertare che la clausola nulla sia stata determinante per la conclusione dello stesso: circostanza, questa, rimasta priva di delibazione, non avendo la società fornito alcun elemento di prova da cui trarre i requisiti di eccezionalità ed essenzialità della clausola dichiarata nulla;
che neppure il terzo, il quarto ed il quinto motivo – da trattare congiuntamente per ragioni di connessione – sono meritevoli di accoglimento; al proposito, deve premettersi, con particolare riferimento al terzo mezzo di impugnazione, che la Corte di legittimità ha, in più occasioni, precisato, anche se con riferimento ai contratti a termine, che, <<affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sé insufficiente per potere ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro>> (così, testualmente, Cass. n. 20605/2014; cfr., pure, nella materia, ex plurimis, Cass. nn. 11262/2013; 5887/2011, 23319/2010, 26935/2008, 20390/2007, 23554/2004); orbene, la Corte distrettuale si è attenuta a tale consolidato orientamento e, con una motivazione puntuale relativamente alla non configurabilità, nella fattispecie, del mutuo consenso, ha reputato che la complessiva valutazione di tutti gli elementi del caso concreto non potesse indurre a ritenere la chiara ed inequivoca volontà della M. di prestare acquiescenza, dovendosi considerare insufficiente, a tal fine, il lasso temporale di pochi mesi lasciati decorrere dalla stessa, prima di inviare la lettera al proprio legale per denunziare profili di nullità della clausola di cui si tratta; che, quanto all’obbligo di produzione della documentazione comprovante il rispetto del patto da parte della lavoratrice, i giudici di seconda istanza hanno condivisibilmente osservato che, premesso che dagli atti si evince che la M. abbia rispettato il patto in oggetto, non si è verificata alcuna <<precisione in danno della predetta, perché non risulta essere stato stabilito alcun termine si decadenza>>; pertanto, <<la produzione della documentazione quale condizione indispensabile per percepire il corrispettivo> costituisce un onere (al quale, nel caso di specie, la M. ha regolarmente assolto) a carico del lavoratore per poter esigere il corrispettivo medesimo, il cui versamento è, appunto, condizionato alla produzione di documentazione idonea a dimostrare di non avere lavorato per la concorrenza (cfr., tra le molte, Cass. nn. 951/2013; 440/2009);
che, infine, per quanto più specificamente attiene al quinto motivo, si rileva che la Corte di Appello, dopo una attenta esegesi del contratto, ha condivisibilmente affermato che, <<dal tenore letterale dello stesso, appare evidente che la indennità viene identificata in un corrispettivo mensile degli importi percepiti negli ultimi due anni, mentre è trimestrale unicamente il sistema di pagamento del suddetto compenso>>: la qual cosa è altresì suffragata dal fatto che sussisteva un obbligo a carico della M. di versare, a titolo di penale, un corrispettivo pari allo stipendio mensile per ogni mese di violazione del patto di cui si tratta, nel caso di mancato rispetto di quest’ultimo da parte della stessa; ed è, inoltre, da rilevare che la società ricorrente non ha prodotto, né indicato tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso, alcun elemento per contrastare quanto affermato dai giudici di seconda istanza in merito al fatto che, a fronte dei conteggi analitici e correttamente sviluppati dalla lavoratrice sulla base delle buste paga versate in atti, la datrice di lavoro <<ha formulato contestazioni del tutto generiche>>; e ciò, in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex multis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 1435/2013; Cass. n. 23675/2013; Cass. n. 10551/2016);
che il sesto motivo è inammissibile, perché riguarda una questione nuova, prospettata per la prima volta in questa sede e mai dedotta nei gradi di merito, come si evince dalla elencazione, nella sentenza impugnata, dei motivi di gravame (al riguardo, cfr., di recente, e per tutte, Cass. ord. n. 28060/2018); che, per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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