CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 maggio 2019, n. 11640
Tributi – IVA – Importazioni – Irregolare utilizzo del deposito IVA – Barche ormeggiate nell’area portuale e non immesse materialmente nel deposito – Applicazione sanzioni per illegittimo utilizzo della sospensione dell’IVA – Imposta assolta con reverse charge mediante autofattura all’estrazione – Legittimità
Fatti di causa
Sulla base di un P.V.C. del 6.6.2008, l’Ufficio delle Dogane della Spezia emise tre avvisi di rettifica dell’accertamento nei confronti di C.L.P. s.r.l. (poi incorporata da S. s.p.a.), contestandole irregolarità nella importazione di alcune imbarcazioni (circa 30), ed in particolare l’irregolare utilizzo del proprio deposito IVA: era infatti emerso che dette imbarcazioni, anziché essere materialmente immesse all’interno del deposito, venivano ormeggiate alle bitte collocate sulla banchine dell’area portuale, nello spazio antistante il magazzino della società. In tal guisa, secondo l’Ufficio, la società non avrebbe potuto servirsi della sospensione dell’IVA ai sensi dell’art. 50-bis, comma 4, del d.l. n. 331/1993, conv. in legge n. 427/1993, né tantomeno assolvere l’imposta con il meccanismo del c.d. reverse charge, mediante emissione di autofattura all’atto dell’estrazione dei beni dal deposito, come invece aveva fatto. L’Ufficio chiamò quindi in via solidale l’importatore (CAD La Spezia) e la stessa società, quale titolare del deposito IVA, all’esborso di complessivi € 4.906.360,67 a titolo di IVA non assolta in Dogana, preannunciando anche la sanzione di cui all’art. 13, d.lgs. n. 471/1997. La società propose tre distinti ricorsi dinanzi alla C.T.P. della Spezia, che li accolse integralmente con altrettante sentenze del 27.10.2009. La C.T.R. della Liguria, previa riunione dei relativi appelli proposti dall’Ufficio, li respinse con sentenza del 10.4.2012, confermando la prima decisione, seppur con diversa motivazione.
L’Agenzia delle Dogane ricorre ora per cassazione, sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale affidato a tre motivi, S. s.p.a., che ha pure depositato memoria.
Ragioni della decisione
Ricorso principale
1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione degli artt. 1 e 70 del d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Si censura l’affermazione della C.T.R. secondo cui l’IVA all’importazione costituirebbe una sanzione doganale, e ciò ai fini della ritenuta applicabilità dell’art. 220 del Regolamento CEE n. 2913/1992 (c.d. Codice Doganale Comunitario, di seguito CDC). Osserva la ricorrente che l’IVA all’importazione non è affatto una sanzione ma, al contrario e con evidenza, un’imposta.
1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220 del Regolamento CEE n. 2913/1992 (CDC), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Secondo la ricorrente, avrebbe errato la C.T.R. nell’applicare la norma in rubrica – che al comma 2, lett. b), fa divieto di contabilizzare a posteriori i dazi doganali allorquando ciò sia dipeso da un errore dell’autorità doganale ed inoltre il debitore sia in buona fede e abbia rispettato tutte le disposizioni doganali – perché l’esimente riguarda appunto l’obbligazione doganale, non già le sanzioni. Inoltre, rileva l’Agenzia che erroneamente la C.T.R. ha fatto comunque applicazione dell’esimente in parola, senza però tener conto del fatto che da un lato occorre la compresenza dei tre presupposti già citati, accertamento nella sostanza non effettuato dal giudice d’appello, e che comunque la società non aveva rispettato la normativa doganale, come pure accertato dall’Ufficio stesso.
Ricorso incidentale
1.3 – Con il primo motivo, S. s.p.a. denuncia violazione degli artt. 67-70 del d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Si censura la decisione impugnata nella parte in cui ha respinto l’eccezione di carenza di legittimazione attiva dell’Agenzia delle Dogane, per appartenere questa all’Agenzia delle Entrate, trattandosi di IVA interna.
1.4 – Con il secondo motivo, si denuncia “violazione del principio comunitario e nazionale del divieto di doppia imposizione”, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. S. s.p.a. si duole dell’affermazione della C.T.R. secondo cui, nella specie, non vi sarebbe doppia imposizione, giacché con la ripresa per cui è causa l’Ufficio non ha tenuto conto del regolare assolvimento dell’imposta, da parte di essa società, mediante il meccanismo del c.d. reverse charge. Pretendere nuovamente il pagamento dell’IVA all’importazione, quindi, determina una doppia imposizione, giacché anche dal punto concettuale IVA all’importazione ed IVA interna costituiscono la medesima imposta. Infine la società chiede sul punto, eventualmente, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE.
1.5 – Con il terzo motivo, infine, S. s.p.a. denuncia violazione e/o falsa applicazione “della normativa in materia di depositi IVA”, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Si nega in particolare – contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.R. – che nella specie sia stata data prova del fatto che le
imbarcazioni non siano state introdotte nel proprio deposito, non potendo ciò desumersi dalla generica dichiarazione rilasciata dalla propria dipendente Del Santo ai verificatori dell’Ufficio. Si rileva, in ogni caso, che per effetto del succedersi di norme di interpretazione autentica dell’art. 50-bis, comma 4, del d.l. n. 331/1993, conv. in legge n. 427/1993 (norme interpretative dettate dall’art. 16, comma 5-bis, del d.l. n. 185/2008, conv. in legge n. 2/2009, dall’art. 8, comma 21-bis, del d.l. n. 16/2012, conv. in legge n. 44/2012, nonché dall’art. 44, comma 34, del d.l. n. 179/2012, conv. in legge n. 222/2012), deve escludersi che, ai fini della regolarità di esercizio del deposito IVA costituisca requisito indispensabile quello della materiale introduzione della merce nel deposito, ben potendo la custodia da parte del depositario essere espletata anche in locali limitrofi al deposito, non occorrendo neanche che la merce, transitata in detto deposito a bordo del mezzo che la trasporta, sia scaricata dal mezzo stesso. Nella specie, quindi, la contestata modalità di deposito non integra affatto quella del “deposito virtuale”, ma si tratta certamente di modalità consentita dalla legge, solo occorrendo che la merce in questione rientri nello spazio di custodia del depositario, contrariamente a quanto affermato dalla C.T.R. Infine, anche in tal caso la società chiede sul punto, ove occorra, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE.
2.1 – Preliminarmente, si osserva che la C.T.R., con la decisione impugnata, ha confermato la prima decisione, con cui la C.T.P. aveva integralmente annullato gli atti impugnati. E’ vero che il giudice d’appello ha modificato il tenore della motivazione (se si vuole, in senso deteriore per la società contribuente), ma – ciononostante – S. non può dirsi soccombente in senso proprio.
In relazione al ricorso incidentale da essa proposto, deve quindi trovare applicazione il principio per cui “Alla stregua del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, il cui fine primario è la realizzazione del diritto delle parti ad ottenere risposta nel merito, il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d’ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita da parte del giudice di merito. Qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione solo in presenza dell’attualità dell’interesse, sussistente unicamente nell’ipotesi della fondatezza del ricorso principale” (da ultimo, Cass. n. 6138/2018).
Pertanto, i motivi del ricorso incidentale verranno esaminati, ove occorra, solo in caso di accoglimento del ricorso principale, come meglio si dirà tra breve.
3.1 – Ciò posto, il primo motivo del ricorso principale è inammissibile per difetto d’interesse, ex art. 100 c.p.c.
E’ senz’altro vero che la terminologia usata dalla C.T.R. non è impeccabile laddove essa testualmente afferma (p. 3) che “… il giudice tributario, per escludere l’applicazione delle sanzioni in materia doganale, tra cui rientra l’iva all’importazione, e che (in dispositivo) “… rigetta l’appello … ed esclude l’applicazione delle sanzioni doganali, ossia riva all’importazione …”) tuttavia, come risulta evidente dalla lettura complessiva del decisum, detti passaggi non esprimono una autonoma ratio decidendi si tratta di una affermazione errata, ma sostanzialmente innocua, perché da essa la C.T.R. non ha fatto discendere alcuna conseguenza, sicché il mezzo in esame è inammissibile, difettando uno specifico interesse a ricorrere in capo all’Agenzia.
4.1 – Il secondo motivo è invece fondato.
Sgombrato il campo dalla prima censura articolata dall’Agenzia con il mezzo in esame, concernente l’inapplicabilità dell’esimente di cui all’art. 220 CDC alle sanzioni, posto che – come già in parte anticipato al par. che precede – detta esimente non è stata applicata, in concreto, ad alcuna sanzione, ma esattamente all’obbligazione tributaria (ossia, all’IVA all’importazione), con la seconda censura del mezzo stesso l’Agenzia lamenta la violazione del citato art. 220, che al comma 2, lett. b), prescrive la compresenza di tre presupposti ai fini dell’applicazione dell’esimente: a) l’errore dell’autorità doganale, b) la conseguente buona fede dell’importatore e c) il rispetto da parte di quest’ultimo di tutte le disposizioni doganali. Osserva l’Agenzia come nella specie difettino senz’altro i requisiti sub a) e c) (e, di conseguenza, quello della buona fede), perché, rispettivamente, alcun errore dell’autorità è ravvisabile nella specie, ed inoltre perché la società ha violato la normativa in tema di depositi IVA.
Ritiene la Corte che l’assunto, in relazione alla insussistenza dell’errore da parte dell’autorità doganale, sia fondato, con conseguente assorbimento dell’ulteriore profilo sub c).
Infatti, la C.T.R. ha ritenuto che, essendo state effettuate diverse verifiche fiscali negli anni dal 2005 al 2007 presso il deposito IVA della società controricorrente, senza che siano state riscontrate irregolarità o discordanze tra la documentazione contabile e doganale conservata dalla parte, s’è ingenerato un legittimo affidamento in capo alla contribuente circa la regolarità del proprio operato, con conseguente applicabilità dell’esimente di cui all’art. 220 CDC.
Ora, secondo consolidato insegnamento (v. Cass. n. 7702/2013), l’applicazione del citato art. 220, comma 2, lett. b), “richiede un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede, che va dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova di tutti i presupposti necessari perché resti impedito il recupero daziario: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c) l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente“.
Ha dunque errato la C.T.R. nel ritenere che la società importatrice avesse fornito la prova della buona fede sulla base degli elementi dalla stessa invocati (ossia, il fatto che l’Agenzia aveva effettuato diverse verifiche fiscali presso il proprio deposito, senza nulla rilevare), perché, quanto all’errore dell’autorità doganale, ciò che la norma comunitaria richiede è non solo la sua sussistenza, ma che esso stesso sia stato la causa del comportamento illegittimo dell’importatore, questione che ovviamente non è configurabile nella specie, avuto riguardo al fatto che – come allegato dalla ricorrente – le operazioni in contestazione sono precedenti alle verifiche in discorso e che il contegno dell’Ufficio deve necessariamente connotarsi (diversamente da come appare nel caso in esame) in senso “attivo”.
5.1 – Pur imponendosi dunque l’esame del ricorso incidentale, ci si può limitare ad esaminare direttamente il secondo motivo, concernente la pretesa violazione del divieto di doppia imposizione, per il principio della “ragione più liquida”. Esso è fondato.
Sulla scorta di Cass. n. 15980/2015 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE, questa Corte ha più volte affermato il principio per cui “L’Amministrazione finanziaria non può pretendere il pagamento dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione dal soggetto passivo che, non avendo materialmente immesso i beni nel deposito fiscale, si è illegittimamente avvalso del regime di sospensione di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. b), del d.l. n. 331 del 1993, conv., con modif., dalla l. n. 427 del 1993, qualora costui abbia già provveduto all’adempimento, sebbene tardivo, dell’obbligazione tributaria nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile mediante un’autofatturazione ed una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite, atteso che la violazione del sistema del versamento dell’ IVA, realizzata dall’importatore per effetto dell’immissione solo virtuale della merce nel deposito, ha natura formale e non può mettere, pertanto, in discussione il suo diritto alla detrazione, come chiarito dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, in C-272/13, a tenore della quale detta violazione può essere punita, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l’autofatturazione, con una specifica sanzione per il ritardo – non fissa e che può consistere anche nel computo degli interessi di mora, purché sia rispettato il principio di proporzionalità – la cui adeguata determinazione, implicando un accertamento di fatto, compete al giudice di merito” (così, Cass. n. 12231/2017; nello stesso senso, Cass. n. 17815/2015, Cass. n. 18928/2018, nonché, sostanzialmente, Cass. n. 24447/2018).
E’ quindi evidente che, stante la legittimità, per l’ordinamento nazionale, del meccanismo dell’inversione contabile, ai fini dell’assolvimento dell’IVA (v. Cass. n. 19098/2016), ha errato la C.T.R. nel non riscontrare una illegittima duplicazione dell’imposta nel recupero dell’IVA non versata direttamente in Dogana da S., come invece preteso dall’Ufficio, atteso che non può revocarsi in dubbio che, ontologicamente, l’IVA all’importazione e UVA interna (nella specie, assolta con l’autofatturazione, come è pacifico) siano la medesima imposta.
6.1 – In definitiva, è inammissibile il primo motivo del ricorso principale, mentre sono accolti il secondo motivo del ricorso principale e il secondo motivo del ricorso incidentale, assorbiti i restanti. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione e, non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto, può procedersi alla decisione della causa nel merito, ex art. 384, comma 3, c.p.c., con l’annullamento degli atti impugnati, illegittimi perché adottati in violazione del divieto di doppia imposizione.
L’obiettiva incertezza della materia, sulla quale la giurisprudenza è intervenuta a più riprese specialmente dopo la proposizione del ricorso, la reciproca soccombenza in questa sede di legittimità e la circostanza ulteriore che la materia dei depositi IVA e della tassazione all’atto dell’estrazione dei beni è stata oggetto di un ulteriore intervento normativo (non applicabile, ovviamente alla fattispecie), disposto dal d.l. n. 193/2016, giustificano ampiamente la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo motivo del ricorso principale e il secondo motivo del ricorso incidentale, assorbiti i restanti. Cassa in relazione e, decidendo nel merito, annulla gli atti impugnati. Compensa le spese dell’intero giudizio.
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