CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24393
Svolgimento di mansioni superiori – Differenze retributive – Trattamento di fine rapporto – Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato
Rilevato che
con sentenza del 21/09/2016, la Corte d’appello di Salerno, in parziale riforma della decisione di primo grado ed in parziale accoglimento dell’appello, revocando il decreto ingiuntivo n. 61/08, ha condannato A.C. al pagamento, in favore di L.C., della complessiva somma di euro 3.940,69 oltre accessori di legge a titolo di trattamento di fine rapporto;
in particolare, la Corte territoriale ha ritenuto non sufficientemente fornita di prova la circostanza dello svolgimento di mansioni superiori da parte della lavoratrice e, al contempo, non adeguatamente dimostrata l’intervenuta corresponsione del trattamento di fine rapporto;
per la cassazione della sentenza propone ricorso L.C., affidandolo ad un motivo,
resiste, con controricorso, A.C..
Considerato che
con l’unico motivo proposto, la difesa di parte ricorrente deduce l’omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ. e, conseguentemente, la nullità della sentenza sotto il profilo dell’ error in procedendo di cui all’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.;
il motivo è infondato;
va preliminarmente rilevato che, perché possa parlarsi di omessa pronuncia, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cfr., ex plurimis, fra le più recenti, Cass. n. 5730 del 03/03/2020) occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti;
il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti integra un vizio di natura diversa, relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio;
d’altro canto, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità (fra le altre, Cass. n. 513 dell’11/01/2019) in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del “tantum devolutum quantum appellatum”, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero, anche, in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante, né incorre nella violazione di tale principio il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del “petitum” e della “causa petendi”, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice;
invero, la differenza fra l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. e l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. consiste nel fatto che, nel primo caso, l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente ed inequivocabilmente formulata, mentre, nel secondo, l’omessa trattazione riguarda una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione (Cass. n. 20961 del 08/09/2017; Cass. n. 25714 del 04/12/2014; Cass. n. 25761 de105/12/2014);
nel caso di specie, la Corte territoriale si è congruamente pronunciata su tutte le domande avanzate in sede di appello non incorrendo nella lamentata omessa pronuncia;
il giudice di secondo grado, infatti, ha statuito in primo luogo sul primo motivo di appello, mediante il quale si censurava la decisione impugnata per aver ritenuto che le mansioni svolte dalla lavoratrice fossero riconducibili nell’ambito del II livello del C.c.n.l. Studi Professionali (CIPA) del 24/10/2001 e che, di conseguenza, la stessa avesse diritto a percepire le relative differenze retributive, comprensive delle retribuzioni relative ai mesi di maggio, giugno e luglio 2007 ed alla tredicesima mensilità per gli anni 2001, 2006, 2007;
al riguardo, infatti, la Corte d’appello ha escluso che le dichiarazioni testimoniali assunte in giudizio consentissero di reputare provate entrambe le circostanze sia dell’avvenuto espletamento di mansioni riconducibili ad un superiore livello di inquadramento, sia dell’osservanza di un orario di lavoro maggiore di quello riportato sulla base delle buste paga;
ha poi ritenuto non adeguatamente contestato da parte del datore di lavoro il dedotto mancato pagamento delle retribuzioni di maggio e giugno 2007 nonché della 13.a mensilità per gli anni 2001, 2006, 2007 ma ha reputato decisamente satisfattiva rispetto alle pretese di parte appellata la somma di euro 7000,00, offerta banco judicis;
ha, infine, parzialmente accolto il secondo motivo di gravame ritenendo di dover rideterminare la somma dovuta da parte appellante a titolo di TFR (in ragione della mancata prova circa lo svolgimento di mansioni superiori) e, tuttavia, reputato non dimostrato il dedotto pagamento del TFR in occasione del battesimo della figlia della appellata;
appare evidente, alla luce delle suesposte argomentazioni, che, nel caso di specie, il giudice di secondo grado, cosi pronunziando, in parziale accoglimento dell’appello, respingendo la domanda formulata da L.C. con il ricorso di primo grado depositato in data 11/06/2008 e, al contempo, revocando il decreto ingiuntivo n. 61/08 con conseguente condanna del C. al pagamento, in favore della lavoratrice, della somma di euro 3.940,69 a titolo di TFR, ha reputato assorbita ogni altra somma dovuta (a titolo di retribuzioni non corrisposte) nella somma offerta banco judicis per le retribuzioni di maggio e giugno 2007 nonché della 13″ mensilità per gli anni 2001, 2006, 2007, così implicitamente respingendo l’originaria domanda afferente anche a voci diverse quali, quattordicesima, ROL e permessi e indennità sostitutiva del preavviso;
ogni questione inerente la motivazione avrebbe dovuto, dunque, essere sottoposta a questa Corte, eventualmente, sotto il profilo dell’art. 360, n. 5 cod. proc. civ., sottoposto, come noto, ad angusti limiti atteso che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., disposto dall’art. 54 col, lett. b), del DL 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 2012 n. 134 che ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità ( fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017);
– alla luce delle suesposte argomentazioni, quindi, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo;
– sussistono i presupposti processuali per il versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 2.500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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