CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2020, n. 24403
Tributi – IVA – Mandato senza rappresentanza – Prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza – Rapporti tra mandante e mandatario – Applicazione dell’imposta
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Brescia, che aveva accolto solo parzialmente il ricorso della contribuente contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle Entrate per l’anno 2003, per Irpeg ed Iva. In particolare, il giudice di appello rilevava che la sentenza di primo grado non dovesse pronunciarsi sulle controdeduzioni dell’Ufficio, ma solo sui motivi di impugnazione della contribuente e che vi era stata motivazione sui due recuperi; si aggiungeva che l’Ufficio non aveva dimostrato che non si fosse in presenza di un mandato senza rappresentanza e che era corretta la decisione dei primi giudici “peraltro non impugnata” di ordinare il ricalcolo della perdita 2002 riportata nel 2003, con riferimento al contenzioso in esame per il 2002 (RGA n. 6011/08), deciso in pari data dalla medesima Commissione regionale, sicché “a tale decisione occorre fare riferimento per il ricalcolo della perdita 2002”.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate.
3. Resiste con controricorso la contribuente.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate lamenta la “nullità della sentenza impugnata per inosservanza (violazione e falsa applicazione art. 112 c.p.c. 53 d.lgs. 546/1992 e 19 d.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.” in quanto l’Agenzia delle entrate ha rettificato la dichiarazione della società per l’anno 2003, avendo la stessa riportato in compensazione in tale annualità la perdita del 2002, per un importo superiore (€ 2.687.342,00) a quello effettivamente esistente (€ 2.619.934,00). Il giudice di prime cure, sul punto, ha ritenuto corretta la quantificazione delle perdite relative al 2002, oggetto di diverso ricorso avverso altro avviso di accertamento, ordinando il ricalcolo della perdita di esercizio riportata nel 2003. Nell’atto di appello l’Agenzia ha censurato tale decisione in quanto la Commissione provinciale sarebbe incorsa nel vizio di extrapetizione ai sensi dell’art. 112 c.p.c., “statuendo su questione estranea al giudizio”. Infatti, solo “una volta passata in giudicato la sentenza sull’avviso relativo all’anno di dichiarazione della perdita, questa, naturaliter…produrrà effetti….sull’avviso relativo al recupero della perdita ritenuta indebitamente compensata”.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “motivazione insufficiente su fatto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.” in quanto ove si voglia ritenere che l’esame del motivo precedente sia precluso dalla circostanza della mancata impugnazione da parte della Agenzia delle entrate della statuizione del giudice di prime cure in punto di Irpeg, la motivazione è insufficiente, in quanto nell’atto di appello, trascritto a pagina 6 del ricorso per cassazione, l’Ufficio ha contestato espressamente la statuizione del primo giudice in tema di Irpeg, deducendo che con tale pronuncia la Commissione provinciale si era occupata di una questione che “fuoriusciva dal legittimo thema decidendi del giudizio”.
2.1.Il primo motivo è fondato, con assorbimento del secondo motivo.
2.2. Invero, l’Agenzia delle entrate ha emesso due avvisi di accertamento nei confronti della società contribuente: il primo R0N03T200112/2005, relativo all’anno 2002, con il quale si riduceva l’importo della perdita per tale anno, da € 2.687.342 ad 2.619.934,00 (procedimento n. 6011/08); il secondo R0N03T100102 notificato il 19-4-2006, relativo all’anno 2003, con cui l’Ufficio contestava una minor perdita al 2002, ritenendo conseguentemente illegittima la compensazione operata dalla società nel 2003.
Entrambi gli avvisi sono stati oggetto di impugnazione da parte della contribuente, ma, in sede di appello, la Commissione regionale, in relazione all’avviso di accertamento del 2003, ha rigettato l’appello dell’Ufficio, in ordine alla illegittima compensazione delle perdite relative al 2002, facendo riferimento alla propria decisione sul procedimento 6011/2008, relativo appunto alla determinazione della perdita del 2002, sentenza che però è stata emessa in pari data e, quindi, non ancora passata in giudicato.
Il giudice di appello, infatti, con una motivazione quasi “oscura”, tanto che la stessa società controricorrente nell’incipit del controricorso afferma che “la sentenza impugnata non offre, al riguardo, alcun supporto”, ritiene “corretta la decisione dei primi giudici, peraltro non impugnata, di ordinare il ricalcolo della perdita 2002 riportata nel 2003, con riferimento al contenzioso in essere per il 2002”, aggiungendo che “tale contenzioso per il 2002, rubricato al RGA n. 6011/08, in data odierna è stato oggetto di decisione da parte di questa Commissione e a tale decisione occorre fare riferimento per il ricalcolo della perdita 2002”.
Si tratta di una motivazione che, non solo non tiene conto della precisa contestazione dell’Ufficio in sede di appello proprio sul calcolo della perdita del 2002 come riportato a pagina 6 del ricorso per cassazione (“…nullità della sentenza per extrapetizione: il giudice infatti…ha statuito in materia che non formava oggetto del giudizio. Pertanto si chiede che il giudice …annulli la statuizione relativamente all’Irpeg…”), affermando erroneamente la mancata impugnazione sul punto da parte della Agenzia delle entrate, ma si limita a far propria una diversa statuizione in ordine alla corretta determinazione della perdita del 2002, che però non era ancora passata in giudicato, essendo stata pronunciata in pari data.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “nullità della sentenza impugnata per inosservanza (violazione e falsa applicazione) art. 36 d.lgs. 546/1992 in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.” in quanto, in ordine alla ripresa a tassazione dell’Iva, non descrive in alcun modo la controversia; non indica la ripresa in ordine ai suoi presupposti di fatto ed alle ragioni giuridiche, non riporta la statuizione dei primi giudici sul punto, si limita ad accennare alla circostanza che il cardine della decisione di primo grado è incentrato sulla esistenza di un mandato senza rappresentanza, non descrive le doglianze dell’Ufficio, che aveva ritenuto fondata la ripresa a tassazione anche in presenza di mandato. La sentenza è nulla per inosservanza dell’art. 36 d.lgs. 546/1992.
3.1. Tale motivo è fondato.
3.2. La questione sottoposta al vaglio di questa Corte attiene alla ripresa Iva effettuata dall’Agenzia delle entrate, che si fonda su una asserita errata applicazione della normativa sul mandato senza rappresentanza nelle prestazioni di servizi ai fini Iva.
3.2. L’art. 3, comma 3, ultima parte, del d.p.r. 633/1972 prevede che “le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario“.
L’art. 13, comma 2, lettera b, del d.p.r. 633/1972 dispone che “agli effetti del comma 1 i corrispettivi sono costituiti:….b)….per le prestazioni di servizi resi o ricevute dei mandatari senza rappresentanza, di cui al terzo periodo del terzo comma dell’art. 3, rispettivamente dal prezzo di fornitura del servizio pattuito dal mandatario, diminuito della provvigione, e dal prezzo di acquisto del servizio ricevuto dal mandatario, aumentato della provvigione”.
3.3. Si ritiene in giurisprudenza di legittimità, in conformità con quanto stabilito dalla Agenzia delle entrate nelle varie risoluzioni sul punto, che l’art. 3, comma 3, ultima parte, del d.p.r. 633/1972, non produce solo l’effetto di qualificare come “prestazione di servizi” l’operazione posta in essere dal mandatario senza rappresentanza, che renda o riceva servizi per conto del mandante, ma realizza la più complessa finalità di dare un assetto fiscale, agli effetti Iva, ai rapporti tra mandante e mandatario imperniato su una fictio iuris che “omologa totalmente” ai servizi resi o ricevuti dal mandatario quelli da lui resi al mandante (Cass., sez. 5, 28 ottobre 2016, n. 21860; Cass., sez. 5, 23 ottobre 2013, n. 23999; Cass., sez. 5, 18 dicembre 2013, n. 28285). Tale omologazione riguarda anche la “natura” delle prestazioni rese dal mandatario senza rappresentanza al mandante, che non possono essere ricondotte, ai fini Iva, ad una semplice attività di sostituzione personale nello svolgimento di attività giuridica, ma rivestono lo stesso carattere di quelle rese o ricevute dal mandatario per conto del mandante (Cass., sez. 5, 23 ottobre 2013, n. 23999; Cass., sez. 5, 23 dicembre 2014, n. 27321; in tal senso anche risoluzione del Ministero delle finanze, 11 febbraio 1998, n. 6; circolare Agenzia delle entrate 28 gennaio 2005, n. 10/E; risoluzione del Ministero delle finanze, 27 dicembre 1999, n. 170; risoluzione del Ministero delle finanze, 27 settembre 1999, n. 146).
Si hanno, quindi, due distinti rapporti giuridici, entrambi rilevanti agli effetti dell’Iva: la prestazione di servizio tra mandatario e terzo, nel caso di specie tra la mandataria L. Grandi Magazzini e la terza MDO; la prestazione di servizio tra mandante e mandatario, nel caso di specie tra la contribuente L. s.p.a. e L. Grandi Magazzini. Pertanto, l’art. 3, comma 3, ultima parte, d.p.r. 633/1972, come detto, realizza una fictio iuris omologa totalmente ai servizi resi o ricevuti dal mandatario quelli da lui resi al mandante. Esiste, dunque, la totale equiparazione, dal punto di vista oggettivo, dei servizi resi o ricevuti dal mandatario a quelli da lui resi al mandante. Ciò significa che l’operazione effettuata dal mandatario nei confronti del terzo o del proprio mandante è considerata della stessa natura dell’operazione a monte, ossia quella ricevuta dal mandatario dal proprio mandante o dal terzo, e identico, dal punto di vista oggettivo, deve essere il trattamento Iva (con riferimento alla imponibilità, all’aliquota, all’esenzione o all’esclusione) delle due fasi applicative in cui si articola il rapporto di mandato.
Del resto, ai sensi dell’art. 6 della Sesta Direttiva Iva “qualora un soggetto passivo che agisca a proprio nome ma per conto di altri, partecipi ad una prestazione di servizi, si riterrà che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo proprio”. Pertanto, per questa Corte (Cass., sez. 5, 23 ottobre 2013, n. 23999, in tema di individuazione del luogo di imposizione per l’iva, con affermazione di insussistenza del requisito territoriale, trattandosi di prestazioni effettuate all’estero), tale norma non produceva soltanto l’effetto di qualificare come prestazione di servizi l’operazione posta in essere dal mandatario senza rappresentanza che rendeva o riceveva servizi per conto del mandante, ma realizzava la finalità di dare un assetto fiscale, agli effetti Iva, ai rapporti tra mandante e mandatario imperniato su una “fictio iuris”; in base ad essa venivano totalmente omologati ai servizi resi o ricevuti dal mandatario quelli da lui resi al mandante, realizzandosi una finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente (Cass., sez. 5, 18 dicembre 2013, n. 28285, per il caso di un procuratore sportivo, con mandato senza rappresentanza, che aveva anticipato i rimborsi ad un proprio assistito e poi aveva indebitamente dedotto dalla base imponibile ai fini Iva le somme percepite dalla società sportiva). L’omologazione riguardava anche la natura delle prestazioni rese dal mandatario senza rappresentanza al mandante, che rivestivano lo stesso carattere di quelle rese o ricevute di mandatario per conto del mandante. In sostanza, dunque, in forza di tale finzione, il soggetto che partecipava alla prestazione di servizi, ossia il commissionario o il mandatario (senza rappresentanza), si riteneva avere, in un primo tempo, ricevuto i servizi in questione dal soggetto per conto del quale agiva, ossia il committente o mandante, prima di fornire, in un secondo tempo, in nome proprio, tali servizi al cliente.
Le medesime considerazioni sono riportate dalla Corte di Giustizia UE (sentenza 14 luglio 2011, in causa C-464/10, paragrafi 34 e 35 della motivazione; cfr. anche Corte Giustizia UE, 17 gennaio 2013, n. 224, paragrafo 64), ove si afferma che “per quanto riguarda il trattamento di tale intermediazione dal punto di vista dell’Iva, l’art. 6, n. 4, della sesta direttiva dispone che, qualora un soggetto passivo che agisce in nome proprio ma per conto altrui partecipi ad una prestazione di servizi, si riterrà che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo proprio”, con la conseguenza che “tale disposizione crea la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente”. La Corte UE aggiunge che “in forza di tale finzione, l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi, cioè il commissionario, si ritiene avere, in un primo tempo, ricevuto i servizi in questione dall’operatore per conto del quale agisce, cioè il committente, prima di fornire, in un secondo tempo, personalmente, tali servizi ad un cliente“, precisando quale conseguenza che “per quanto riguarda il rapporto giuridico tra il committente e il commissionario, il loro ruolo rispettivo di prestatore di servizi e i pagatore è artificialmente invertito ai fini dell’Iva”.
Vi è, dunque, una distinzione precisa tra intermediazioni svolte “in nome proprio e per conto altrui” e quelle effettuate “in nome e per conto altrui”, rappresentando categorie non omogenee.
Del resto, anche nella disciplina civilistica, mentre nel mandato con rappresentanza gli effetti diretto della prestazione di servizi si producono nella sfera giuridica del mandante, agendo il mandatario in nome e per conto del mandante, nel mandato senza rappresentanza gli effetti giuridici ricadono direttamente sul mandatario, il quale è tenuto successivamente a rendere in proprio la stessa prestazione al mandante.
La finzione riguarda anche l’applicazione delle esenzioni Iva previste dalla sesta direttiva, sicché se la prestazione di servizi cui il commissionario partecipa è esentata dall’Iva, tale esenzione è altresì applicabile al rapporto giuridico tra il committente e il commissionario (Cass., sez. 5, 23 dicembre 2014, n. 27321; Corte Giustizia UE, 14 luglio 2011, n. 464, cit.).
Si è anche affermato che, in tema d’Iva, il principio di equivalenza dei rapporti giuridici tra imprese consorziate e società consortile e tra queste e l’ente appaltante, riconducibile allo schema del mandato senza rappresentanza, impone che il regime fiscale della doppia fatturazione, prescritto dall’art. 3, comma 3, del d.p.r. 633/1972, sia “unitario”, con conseguente trasferibilità alle imprese consorziate dell’agevolazione tributaria proprio della fattura originaria (tra committente e consorzio), secondo il meccanismo del “ribaltamento” (Cass., sez. 5, 4 ottobre 2018, n. 24320).
E’ la natura della operazione che intercorre tra il mandatario e il terzo che qualifica anche l’operazione che intercorre tra il mandante e il mandatario, con la conseguenza che a quest’ultimo si applica il medesimo trattamento, ai fini Iva, che si applica al rapporto tra mandatario e terzo. Tale influenza non opera, però, nell’operazione inversa, sicché il rapporto tra mandante e mandatario non ha influenza, ai fini del trattamento Iva, sul rapporto tra mandatario e terzo (Cass., se. 5, 23 novembre 2018, n. 30360).
Resta fermo, tuttavia, l’eventuale diverso trattamento Iva per ciascuna delle due operazioni, in relazione alla loro diversa rilevanza fiscale. L’applicazione del principio della totale equiparazione dei servizi non può infatti determinare effetti distorsivi nell’applicazione del tributo (in tal senso anche Risoluzione della Agenzia delle entrate 28 gennaio 2005, n. 10/E).
3.3. Dal controricorso e dall’avviso di accertamento emerge si è in presenza di un rapporto trilaterale. La società L. Grandi Magazzini (mandataria) ha stipulato con la MDO (società terza) un contratto di franchising per l’utilizzo del marchio “Di Meglio”. La prima società ha concesso la gestione e l’utilizzo di tale marchio alla contribuente L. s.p.a. (mandante). La MDO concedeva dei contributi sui costi sostenuti per le insegne di ogni singolo punto vendita dei propri affiliati, che venivano comunicati entro la fine di ogni anno. La società contribuente ha conferito mandato all’incasso a L. Grandi Magazzini s.p.a. (per la “gestione” di tali incassi da MDO) con l’emissione di una fattura (la n. 1205 del 31-12-2001) avente ad oggetto la prestazione relativa al contratto, ossia l’incasso del contributo “insegne” (l’oggetto delle fattura era “rimborso spese insegne da voi incassate per nostro conto dalla società MDO”).
Si è, quindi, realizzato il primo passaggio di cui all’art. 3, comma 3, ultima parte, d.p.r. 633/1972, dalla mandante alla mandataria, inteso come prestazione di servizio equiparato a quello reso dalla terza MDO. Tuttavia, per alcuni punti vendita non erano stati rispettati i termini contrattuali per la conversione delle insegne, da effettuare entro il 31-12-2001, con la conseguenza che il contributo erogato da MDO non spettava. Pertanto, la società terza MDO ha stornato i contributi in precedenza concessi ed ha emesso fattura (n. 190 del 7 marzo 2002) nei confronti della mandataria (L. Grandi Magazzini), quest’ultima ha “rifatturato” nei confronti della mandante, con fattura n. 91 del 21-1-2003 (“storno parziale vostra fattura n. 1205 del 31-12-2001”), trattandosi sempre dei medesimi servizi, aventi la stessa “natura”.
Quando MDO fornisce la provvista a L. Grandi Magazzini, questa la “gira” a L. s.p.a. (la contribuente). Viceversa, quando MDO ha informato L. Grandi Magazzini (mandataria) dello “storno” parziale del “rimborso spese per insegne” con la fattura n. 190 del 7-3-2002, L. Grandi Magazzini ha deciso di “ribaltare” sulla sua mandante (L. s.p.a., ossia la contribuente), con fattura n. 91 del 21-1-2003 emessa nei suoi confronti (con oggetto “storno parziale vostra fattura”). La fattura emessa da L. Grandi Magazzini nei confronti della L. s.p.a. non sarebbe, allora, una “rettifica” ai fini Iva, come ritenuto dalla Agenzia delle entrate, ma un “riaddebito” di un onere nella veste di mandataria. Non si rientrerebbe, allora, nella fattispecie di cui all’art. 26 d.p.r. 633/1972, non essendo quindi necessario il rispetto del termine annuale di cui all’art. 26, comma 3, d.p.r. 633/1972.
3.4. Ai sensi dell’art. 26 comma 2 d.p.r. 633/1972 ” se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione di cui agli artt. 23 e 24, viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili… il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione ai sensi dell’art. 19 l’imposta corrispondente alla variazione, registrandola a norma dell’art. 25″.
Il comma 5 dell’art. 26 d.p.r. 633/1972, poi, indica il procedimento per la variazione in diminuzione dell’importo della fattura e prevede che “ove il cedente o prestatore si avvalga della facoltà di cui al comma 2, il cessionario o committente, che abbia già registrato l’operazione ai sensi dell’art. 25, deve in tal caso registrare la variazione a norma dell’art. 23 o dell’art. 24, nei limiti della detrazione operata, salvo il suo diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa”.
Il comma 8 dell’art. 26 prevede anche regole di registrazione alternative, stabilendo che ” le variazioni di cui ai commi 2, 3,4 e 5 e per quelle per errori di registrazione di cui al comma 7 possono essere effettuate dal cedente o prestatore del servizio e dal cessionario o committente anche mediante apposite annotazioni in rettifica rispettivamente sui registri di cui agli articoli 23, 24 e sul registro di cui all’articolo 25″.
Per il comma 3, poi, “La disposizione di cui al comma 2 non può essere applicata dopo il decorso di un anno dall’effettuazione dell’operazione imponibile qualora gli eventi ivi indicati si verifichino in dipendenza di sopravvenuto accordo fra le parti”.
Per effettuare una variazione in diminuzione, poiché la facoltà è concessa al cedente o al prestatore, è proprio quest’ultimo che manifesta la sua intenzione di voler utilizzare la procedura con l’emissione di una “nota di accredito” con Iva a favore della controparte. Ai sensi del comma 5, quindi, l’iva risultante da una variazione in diminuzione deve essere “recuperata” attraverso la “detrazione” da parte del cedente/prestatore che in precedenza l’aveva computata “a debito”; l’iva deve essere “riversata” attraverso il computo della stessa quale Iva “dovuta”, da parte del cessionario-committente che in precedenza l’aveva computata in “detrazione”.
Resta ferma la fattura già emessa ed al fatto sopravvenuto può essere data rilevanza ai fini fiscali con la emissione di una nota di variazione o “nota di credito”, di contenuto uguale e di segno contrario a quello della fattura originariamente emessa.
3.5. Questa era, dunque, la contestazione della Agenzia delle entrate, ai sensi dell’art. 26 comma 3 d.p.r. 633/1972, in caso di variazioni in diminuzione, come si era verificato, nella specie, a causa del mancato rispetto da parte di alcuni punti vendita dei termini pattuiti per la conversione delle insegne, previsto contrattualmente entro il 31-12-2001. In tal modo il rimborso dovuto a tali punti vendita da MDO s.p.a era divenuto illegittimo, con i conseguenti storni, prima da parte di MDO a L. Grandi Magazzini e poi da questo a L. s.p.a., con la fattura n. 91 del 21-1-2003. Per l’Agenzia delle entrate, invece, doveva essere applicata la normativa relativa alla emissione di nota di accredito entro l’anno successivo. La difesa della contribuente, invece, si fondava sull’applicabilità della disciplina relativa al mandato senza rappresentanza, sicché non si doveva provvedere ad una rettifica della dichiarazione da parte della contribuente (con nota di credito entro l’anno), ma con il semplice riaddebito dei costi per mancato servizio, prima dalla terza alla mandatala e poi da quest’ultima alla contribuente mandante.
4. A fronte di questa complessa fattispecie, sia in fatto che giuridica, il giudice di appello ha ritenuto con motivazione sostanzialmente inesistente, pure se presente graficamente, che “l’Ufficio non riesce a provare che non si fosse in presenza di un mandato senza rappresentanza, cardine della motivazione della sentenza di primo grado”. Tale motivazione per l’assoluta assenza di riferimenti, non solo alla normativa applicabile, ma anche agli elementi di fatto, è solo apparente e non consente in alcun modo di comprendere il ragionamento logico giuridico che ha consentito al giudice di appello di giungere al suo convincimento.
5. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso; dichiara assorbito il secondo;
cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.