CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2022, n. 32373
Dirigente – Dimissioni per giusta causa – Mancato preavviso – Indennità – Trattenute T.F.R. – Legittimità
Rilevato che
1. A.S., già dirigente della E.T. S.r.l., dimessosi il 17.4.2014 ai sensi dell’art. 15 del c.c.n.l. per i dirigenti delle aziende produttrici di beni e servizi (industria) del 25 novembre 2009, convenne in giudizio davanti al Tribunale di Bergamo la datrice di lavoro chiedendone, per quanto ancora interessa, la condanna al pagamento delle indennità previste dal citato art. 15, secondo comma del c.c.n.l. con i conseguenti versamenti previdenziali ed alla restituzione di quanto trattenuto a titolo di mancato preavviso con conseguente integrazione del T.F.R..
2. Il ricorrente esponeva di aver lavorato per la convenuta sin dal 2 maggio 2005 con mansioni di Direttore Amministrativo Finanza e Controllo, prima e di Direttore Commerciale, poi percependo una retribuzione annua lorda di € 124.356,83 ed una retribuzione variabile correlata al raggiungimento di obiettivi.
3. Deduceva che, nella sua qualità di rappresentante legale della società, era stato condannato in sede penale per due infortuni occorsi a dipendenti sul luogo di lavoro con riguardo ai quali, tuttavia, si era comunque attivato perché venissero integralmente risarciti.
4. Rilevava di aver tempestivamente comunicato alla società la pendenza dei procedimenti penali e di aver altresì comunicato un preavviso di quindici giorni come previsto nella dichiarazione in calce agli art. da 13 a 15 del c.c.n.l. cit..
5. Esponeva che, ciò nonostante, la società gli aveva comunicato di aver trattenuto dal trattamento di fine rapporto la differenza tra il preavviso prestato e quello dovuto di quattro mesi e non gli aveva corrisposto l’indennità prevista dal secondo comma del citato art. 15 del c.c.n.l..
6. Il Tribunale di Bergamo accolse parzialmente il ricorso ma rigettò le domande sopra riportate ritenendo che alla fattispecie non trovasse applicazione la disciplina collettiva su richiamata per essere il recesso intempestivo rispetto ai fatti presupposti.
7. La Corte di appello di Brescia confermò la sentenza di primo grado ritenendo intempestive le dimissioni per giusta causa, così qualificato il recesso comunicato, prive del requisito di immediata consequenzialità temporale rispetto ai processi penali presupposti, e valorizzando, per il primo dei due procedimenti, la data di notificazione del decreto di citazione diretta a giudizio e, per il secondo, quella di proposizione dell’opposizione al decreto penale di condanna.
7.1. Ad avviso della Corte di merito, infatti, erano quelli gli atti in cui l’imputato, scegliendo la strategia difensiva da adottare, aveva dimostrato di essere in grado di valutare la compatibilità con la prosecuzione o la cessazione del rapporto di lavoro.
8. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso A.S. affidato a quattro motivi ai quali ha opposto difese con tempestivo controricorso la E.T. s.r.l.. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative. Successivamente a rinvio per impedimento del giudice relatore originariamente designato, la causa è stata trattenuta in decisione all’odierna adunanza camerale. In vista dell’odierna adunanza la società ha depositato una nuova memoria illustrativa ex art. 380 bis 1 c.p.c..
Considerato che
9. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione, falsa o erronea applicazione dell’art. 15, secondo comma, del c.c.n.l. per i dirigenti delle aziende produttrici di beni e servizi del 25 novembre 2009, anche in relazione all’art. 2119 cod. civ. e all’art. 1362 cod. civ. per avere il giudice d’appello, ritenuto che le dimissioni, inquadrabili tra quelle per giusta causa, avrebbero dovuto essere presentate nell’immediatezza dell’evento presupposto vale a dire in occasione della sottoposizione del dirigente ai due processi penali che ne erano state causa, escludendo così la tempestività del recesso,
9.1. Ritiene il ricorrente che, al contrario, la fattispecie esaminata dalla norma collettiva non era riconducibile all’ipotesi di dimissioni per giusta causa e, dunque, l’applicazione della disposizione contrattuale collettiva che prevedeva le indennità per il recesso, non era subordinata alla immediata tempestività delle dimissioni stesse.
9.2. Conseguentemente, in mancanza di altre circostanze idonee ad escludere l’esistenza di un nesso causale tra il recesso e l’evento presupposto, le domande di corresponsione delle indennità contrattuali e di restituzione delle somme indebitamente trattenute per mancato preavviso avrebbero dovuto essere accolte.
9.3. Sostiene infatti che si era trattato di dimissioni qualificate ex art. 15 c.c.n.l. e non per giusta causa. Osserva a tal fine che diversamente da quelle per giusta causa era previsto un pur breve termine di preavviso; che le stesse non erano collegate ad un grave inadempimento datoriale e, come detto, non presupponevano una risoluzione immediata del rapporto. Inoltre era prevista dal c.c.n.l. l’erogazione di specifiche indennità a condizione che le stesse risultino rassegnate in correlazione con una fattispecie tipica definita dal contratto collettivo stesso.
9.4. Nel rammentare che analogamente l’art. 16 del c.c.n.l. disciplina altra ipotesi di dimissioni qualificate per il caso di sostanziale mutamento delle mansioni o demansionamento, sottolinea che la Corte di merito, contro lo stesso tenore letterale della norma, ha ravvisato delle dimissioni per giusta causa laddove invece l’evento presupposto era stato tipizzato dalla norma collettiva e prescindeva dall’inadempimento datoriale.
9.5. Osserva poi che secondo interpretazione sia letterale che improntata a ragionevolezza e correttezza oltre che complessiva delle varie clausole conduce a ritenere che il comma 2 dell’art. 15 del c.c.n.l. non esclude gli incarichi di rappresentanza da quelli a cui può connettersi una responsabilità dirigenziale e riguardo ai quali è pertanto consentito esercitare il diritto alle dimissioni e ritiene infine irrilevante, in questa prospettiva, il fatto che il S., successivamente al primo procedimento penale, abbia accettato il rinnovo della nomina ad amministratore nel triennio 2012-2015.
10. La censura è inammissibile per vari ordini di ragioni.
10.1. In parte perché nella pratica sollecita una diversa valutazione di fatti già compiutamente esaminati dalla Corte territoriale che ha dato conto delle ragioni per le quali ha attribuito uno specifico rilievo al fatto che il S. aveva proseguito nei suoi incarichi accettando il rinnovo della nomina ad amministratore per un nuovo triennio dopo che era stato coinvolto nel primo dei due procedimenti penali. Ma soprattutto la censura, pur ampiamente articolata, non investe la specifica ed autonoma ratio decidendí in base alla quale la Corte di merito ha ritenuto che la disposizione collettiva che regola le dimissioni (l’art. 15 del c.c.n.I.) non trovasse applicazione al caso in esame atteso che non si verteva in una ipotesi di responsabilità dirigenziale, vale a dire per “fatti che siano direttamente connessi all’esercizio delle funzioni attribuitegli” di dirigente (prima direttore amministrativo finanza e controllo e poi direttore commerciale della società) ma piuttosto di una responsabilità connessa alla sua qualità di legale rappresentante della società. Peraltro, incontestato che il S. fu imputato nella sua qualità di amministratore delegato, non è comunque sostenibile che quei medesimi fatti fossero a lui riferibili anche quale dirigente. Nel sottolineare che si tratta all’evidenza di ruoli e funzioni tra loro del tutto diversi e che solo rispetto al primo la norma collettiva assicura al dirigente la speciale facoltà di dimettersi nel ricorso delle condizioni dalla disposizione previste, in ogni caso deve rilevarsi che tale specifica ed autonoma affermazione della Corte, idonea a sorreggere la decisione, non risulta essere stata autonomamente impugnata e dunque per tale aspetto la sentenza è passata in giudicato.
11. L’esame degli ulteriori motivi di ricorso, che denunciano tutti e per vari aspetti la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 comma 2 del c.c.n.l. in relazione all’art. 2119 c.c., resta assorbito per effetto della mancata impugnazione dell’autonoma ratio decídendi con la quale si è escluso che la disposizione potesse trovare applicazione al caso in esame.
12. In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso va dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 7.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
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