CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 novembre 2022, n. 32423
Demansionamento – Mobbing – Intenzionalità lesiva – Prova – Esclusione
Ritenuto che
1. la Corte d’Appello di Bari, confermando la pronuncia del Tribunale della stessa città, ha rigettato la domanda con cui N.D.R., dipendente del Comune di Bari quale agente di polizia municipale, aveva chiesto accertarsi, per il conseguente risarcimento del danno, la dequalificazione e demansionamento improvvisamente subiti, a far data dall’ottobre 2003, quale effetto dell’arresto del proprio marito per vicenda di droga, cui la ricorrente era totalmente estranea;
2. la Corte d’Appello ha ritenuto che le allegazioni ed anche le prove raccolte non consentissero di ravvisare comportamenti di dequalificazione o demansionamento, tenuto conto che le contestate attività di piantonamento presso gli Uffici di Torre a Mare erano state svolte per un solo giorno e che, se nel tempo la ricorrente era stata adibita anche a mansioni superiori a quelle di inquadramento, ciò non poteva farle acquisire alcun diritto in proposito e dunque l’eventuale riconduzione delle attività al livello suo proprio non poteva considerarsi illegittima;
3. la sentenza impugnata escludeva altresì la ricorrenza di una fattispecie di mobbing, per l’assenza di prova di un intento vessatorio, potendosi semmai ritenere che le misure adottate servissero a tutelare l’ufficio e la stessa lavoratrice da clamori mediatici, mentre l’adibizione al servizio viabilità corrispondeva a quanto richiesto dalla lavoratrice, a riprova di una disposizione datoriale aperta e disponibile e del resto la riassegnazione alla viabilità era prassi comune rispetto alle donne agenti, allorquando divenivano meno impellenti le ragioni connesse a recenti maternità;
4. l’assenza di intenti vessatori e di reali comportamenti demansionanti escludeva altresì, secondo la Corte di merito, la riconducibilità dell’accaduto ad un’ipotesi di straining;
5. infine, la Corte riteneva infondata la pretesa della ricorrente di ricondurre effetti confessori alla presentazione per l’interrogatorio formale di un delegato del Sindaco che non era stato in grado di riferire sui fatti e ciò in quanto l’art. 232 c.p.c. non attribuiva automaticamente una tale portata alla mancata risposta all’interpello;
6. in definitiva, concludeva la Corte di merito, l’insorgenza di disturbi ansioso depressivi in capo alla lavoratrice, non essendo riportabile a comportamenti illegittimi del Comune e risultando tra l’altro spiegabile anche sulla base degli eventi traumatici legati all’arresto del marito ed alle conseguenti difficoltà familiari, non era sufficiente a fondare la pretesa esercitata;
7. N.D.R. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Comune di Bari;
8. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.;
9. la ricorrente ha depositato memoria;
Considerato che
1. il primo motivo del ricorso per cassazione è rubricato ai sensi dell’art. 360 n. 3 e 4 c.p.c. e denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., oltre ad omesso esame delle risultanze istruttorie, omessa motivazione su fatti decisivi, con riferimento alla escussione di alcuni testimoni, in violazione altresì dell’art. 111 Cost. e conseguente nullità della sentenza impugnata;
2. il motivo fa leva sul fatto che il ragionamento della Corte territoriale si sarebbe erroneamente sviluppato sul solo piano dell’equivalenza formale delle mansioni, trascurando l’ipotesi che i comportamenti datoriali risultassero in concreto lesivi, attraverso l’attribuzione di compiti meno importanti o significativi, della dignità del lavoratore;
3. la ricorrente aggiunge altresì come le deposizioni testimoniali, che trascrive, facessero emergere in modo chiaro il demansionamento effettivo ed il fatto che lo spostamento era stato motivato da ragioni diverse da quelle proprie di servizio, il tutto con finale violazione anche delle regole sull’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.;
4. il secondo motivo denuncia, richiamando l’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2043, 2087, 2103 e 2697 c.c. e l’omesso o viziato esame delle risultanze istruttorie testimoniali ed afferma la conseguente nullità della sentenza impugnata;
5. il motivo evidenzia come lo spostamento ad altre mansioni avesse indotto i colleghi della ricorrente ad ipotizzare il suo personale coinvolgimento nelle vicende del marito il che, in una con lo spostamento dal prestigioso servizio interno al Comune e con l’impossibilità di ravvisare nell’accaduto una forma di tutela della dipendente, integrava gli estremi del mobbing, senza contare come la determinazione di una situazione lavorativa stressogena avrebbe potuto essere ricondotta ad un’ipotesi di straining, parimenti ricompresa nell’alveo della domanda giudiziale dispiegata;
6. il terzo motivo afferma, richiamando ancora l’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 e 232 c.p.c. con riferimento all’omessa o giuridicamente erronea valutazione della mancata risposta all’interrogatorio formale deferito al Comune di Bari;
7. i motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente, secondo l’ordine logico delle questioni;
8. va intanto esclusa la fondatezza della censura riguardante la mancata valorizzazione del fatto che la persona avviata dal Comune a rispondere all’interpello non fosse informata sui fatti;
9. è infatti del tutto consolidato, oltre che insito nella formulazione della norma («può»), l’orientamento per cui la valorizzazione della mancata risposta all’interpello, cui evidentemente si parifica il caso in cui a renderlo sia avviata persona non informata sui fatti, sia del tutto discrezionale da parte del giudice (C. 9436/2018; C. 3258/2007);
10. la Corte territoriale ha del resto richiamato tale discrezionalità, così come la collegata necessità comunque di inserirla nel contesto di una valutazione di ogni altro elemento di prova, con assetto certamente non violato dalla pronuncia in esame, la cui motivazione si diffonde ampiamente sulle ragioni che, rispetto ai dati di fatto esistenti e sostanzialmente pacifici tra le parti, hanno condotto ad una valutazione in senso favorevole alla ricorrente, sia sui nessi di causa, sia sugli aspetti giuridici coinvolti;
11. è altresì giuridicamente errato l’assunto secondo cui nel valutare il demansionamento non si sarebbe dovuta apprezzare la sola equivalenza formale delle mansioni, ma anche l’incidenza dei mutamenti sulla professionalità e personalità del lavoratore;
12. in ambito di pubblico impiego, vale infatti il diverso assetto per cui «l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c.» (C. 18817/2018; C. 7106/2014);
13. non può quindi dirsi che l’assegnazione a mansioni diverse, se ricomprese nel medesimo ambito formale riveniente dalla contrattazione collettiva sia in sé comportamento illegittimo o inadempiente;
14. i motivi ribadiscono peraltro, a più riprese, anche un diverso ragionamento, tale per cui lo spostamento ad altre mansioni avrebbe comunque avuto carattere illecito perché associato alla vicenda penale del marito della ricorrente, così mettendo quest’ultima in cattiva luce e svilendo il rispetto della sua persona;
15. tuttavia, l’assenza di un demansionamento esclude che si possa valorizzare tale profilo come ragione di illiceità, sicché è parimenti da escludere che esso possa essere valorizzato come coefficiente colposo utile per i fini di cui all’art. 2087 c.c. (non potendo essere colpevole il comportamento sia contrattualmente legittimo), mentre, per una qualificazione in termini di mobbing, sarebbe necessario ravvisare in tutto ciò un intenzionale operato finalizzato a ledere la ricorrente (sui principi in proposito, v. C. 16580/2022, punti 4.1 e 4.2);
16. la Corte di merito ha però argomentato ampiamente sull’assenza di una tale intenzionalità lesiva, sottolineando la breve durata del passaggio difficoltoso conseguente all’arresto del marito della D.R. e rilevando come la lavoratrice fosse stata agevolata, al suo rientro, per essere stata colta l’indicazione da parte sua di destinazione alla viabilità;
17. la Corte ha ancora spiegato la mancata autorizzazione alla D.R. per la partecipazione ad un seminario il giorno successivo alla diffusione delle notizie riguardanti il di lei marito con il medesimo intento di mantenerla lontana dai clamori mediatici;
18. tale valutazione, così come quella analoga per cui anche lo spostamento dallo staff del Comandante sarebbe stato motivato da simili intenti, non è in sé illogica, ben potendosi ritenere che il collocamento in una posizione di minore visibilità rispondesse a quelle esigenze, in una con quella di allontanare parimenti il Comando dai medesimi clamori mediatici;
19. si tratta di valutazioni che, risultando non implausibili, afferiscono all’ambito degli apprezzamenti di merito, in ordine all’assenza di un intento illecito, rispetto ai quali i motivi di manifestano come pretesa di una diversa lettura dei dati istruttori, inappropriata rispetto al giudizio di legittimità (C., SU, 34476/2019; C., SU, 24148/2013);
20. analogamente, la ricorrenza in quel medesimo frangente di patologie di rango psichico esposte dalla ricorrente non può essere valorizzata a fini risarcitori, in assenza di inadempimenti o di un’intenzionalità lesiva ai danni della ricorrente, restando in ragione di ciò non integrata la fattispecie di cui all’art. 2087 c.c.;
21. il ricorso va quindi rigettato e ne segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello rispettivamente previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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