CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 settembre 2021, n. 23894
Rapporto di lavoro – Decesso del lavoratore – Causa di lavoro – Sussistenza a suo carico di preesistenti patologie
Rilevato in fatto
che, con sentenza depositata il 17.11.2014, la Corte d’appello di Salerno, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di G.M. e altri consorti volta a conseguire la rendita quali superstiti di A.M., deceduto per un’ischemia miocardica mentre prestava servizio alle dipendenze di C.S. s.r.l.;
che avverso tale pronuncia G.M. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura;
che l’INAIL ha resistito con controricorso;
Considerato in diritto
che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione dell’art. 2, T.U. n. 1124/1965, e 41 c.p., per avere la Corte di merito ritenuto, sulla scorta della CTU disposta in secondo grado, che lo sforzo lavorativo cui il de cuius si era sottoposto per aver trasportato mobilia a spalla non potesse aver causato il decesso;
che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2, T.U. n. 1124/1965, per avere la Corte territoriale escluso che l’attività lavorativa svolta dal de cuius nel giorno del decesso eccedesse la normale tollerabilità ed adattabilità al punto da poter costituire causa del decesso;
che i due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure svolte;
che, al riguardo, va premesso che è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui l’azione violenta che, ex art. 2, T.U. n. 1124/1965, può determinare una patologia riconducibile all’infortunio protetto deve operare come causa esterna, che agisca con rapidità e intensità, in un brevissimo arco temporale, o comunque in una minima misura temporale, non potendo ritenersi indennizzabili come infortuni sul lavoro tutte le patologie che trovino concausa nell’affaticamento che costituisce normale conseguenza del lavoro (così Cass. nn. 14119 del 2006, 17649 del 2010);
che, nel caso di specie, i giudici territoriali, dopo aver rilevato l’assenza di un esame autoptico che accertasse con sufficiente grado di certezza la riconducibilità del decesso di A.M. ad una causa di lavoro, hanno valorizzato la circostanza che costui fosse «un soggetto di giovane età, in buone condizioni di salute e senza alcuna predisposizione morbosa», e che, peraltro, non risultava accertato «alcun elemento che po[tesse] qualificare l’attività lavorativa […] ordinaria così come quella svolta nel giorno del decesso […] come eccedente la normale tollerabilità ed adattabilità, al punto da potersi ravvisare un rapporto diretto tra lavoro e decesso» (così la sentenza impugnata, pagg. 5-6);
che, coerente risultando tale giudizio con l’anzidetto principio di diritto, balza evidente che le critiche contenute nel ricorso mirano piuttosto a sovvertire l’accertamento in fatto relativo all’attività svolta dal de cuius nel giorno del decesso e la sussistenza a suo carico di preesistenti patologie, riferendosi a testimonianze acquisite in prime cure, rapporti ispettivi e altri documenti di cui, peraltro, nemmeno si precisa in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte in atto si troverebbero;
che, pertanto, le censure si palesano in parte qua affatto inammissibili, non potendosi chiedere in questa sede di legittimità la rivalutazione del materiale probatorio sulla scorta del quale i giudici di merito hanno accertato i fatti di causa, ma potendo solo denunciarsi, ex art. 360 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di fatti principali e/o secondari decisivi che abbiano formato oggetto di discussione tra le parti, previa indicazione del tempo e del modo in cui essi siano stati introdotti nel processo (Cass. S.U. n. 8053 del 2014 e innumerevoli successive conformi);
che il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza;
che, in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.200,00, di cui € 2.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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