CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 agosto 2020, n. 16625
Tributi – Accertamento doganale – Importazioni – Recupero dei maggiori dazi dovuti – Irrogazione sanzioni – Rappresentante doganale indiretto – Responsabilità – Limiti
Fatti di causa
Nel corso del mese di aprile 2010, l’Ufficio delle Dogane della Spezia emise 28 atti di irrogazione di sanzioni nei confronti di C. La Spezia s.r.l., quale rappresentante doganale indiretto della ditta B.S. I & E di H.S., ai sensi dell’art. 303, comma 3, del d.P.R. n. 43/1973 (T.U.L.D.), e ciò in relazione all’importazione dalla Repubblica Popolare Cinese di varie partite di calzature sportive, dichiarate alla v.d. 640219000, merce scortata dal certificato FORM A attestante l’origine cinese, nonché dalle corrispondenti fatture di acquisto. A seguito di indagine penale per il reato di contrabbando aggravato e continuato, poi culminata in sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p., era infatti rimasto accertato che la titolare della ditta importatrice, H.S., era in possesso di fatture e numerosi altri documenti in bianco, riportanti timbri riconducibili a diversi importatori cinesi; pertanto, l’Ufficio aveva attivato la procedura di cui all’art. 181 -bis del D.A.C. (reg. CE 2454/1993) su tutte le dichiarazioni doganali presentate dal C. La Spezia per conto della predetta H.S., ad esito della quale aveva ritenuto inattendibile il valore delle calzature dichiarato in dogana (appena € 1,40-1,60 al paio, in media), così procedendo all’emissione degli avvisi di rettifica dell’accertamento per il recupero dei maggiori dazi dovuti (separatamente impugnati dall’importatore, ma non oggetto di questo giudizio), nonché i predetti atti di irrogazione delle sanzioni.
Proposto ricorso da C. La Spezia s.r.l. in liq., la C.T.P. di Genova lo respinse con sentenza del 20.1.2015, ma la C.T.R. della Liguria accolse il gravame della contribuente con sentenza del 15.12.2017. Osservò il giudice d’appello che il C. La Spezia, agendo quale rappresentante indiretto, con la normale diligenza, non poteva essere a conoscenza dell’operato del l’importatore, avente rilevanza penale, affermando quindi che il dichiarante aveva dimostrato di aver agito con la necessaria diligenza nella presentazione della merce.
L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, cui resiste con controricorso C. La Spezia s.r.l. in liq.
Ragioni della decisione
1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220 C.D.C. vigente ratione temporis, nonché dell’art. 57 del d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La censura attiene a quella parte della motivazione con cui la C.T.R. ha ritenuto di dover dare rilievo alla buona fede del rappresentante doganale, richiamando la clausola di equità di cui all’art. 220 C.D.C. Si sostiene, anzitutto, come l’art. 220 cit. non sia applicabile nella specie, trattandosi non già di recupero dei dazi doganali a posteriori, bensì di irrogazione di sanzioni ai sensi dell’art. 303, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 43/1973. Rileva poi la ricorrente che l’invocazione dell’esimente era stata introdotta dal C. La Spezia solo in sede d’appello ed era quindi inammissibile, e ciononostante è stata riconosciuta dalla C.T.R. La ricorrente contesta, inoltre, la sussistenza dei tre requisiti che, ai sensi dell’art. 220 C.D.C., nel testo applicabile ratione temporis, devono essere compresenti, ai fini del riconoscimento dell’esimente stessa, ossia l’errore “attivo” dell’autorità doganale, la non riconoscibilità dell’errore dal debitore in buona fede, nonché l’osservanza, da parte del debitore, di tutte le disposizioni doganali vigenti.
1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 472 del 1997, nonché dell’art. 201, par. 3, del C.D.C., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La ricorrente evidenzia che, nelle operazioni doganali in cui l’importatore si avvalga della rappresentanza indiretta, lo spedizioniere doganale agisce in proprio e per conto dell’importatore, sicché quest’ultimo diviene “dichiarante”, con conseguente assunzione della responsabilità circa la veridicità e la completezza degli elementi indicati in dichiarazione e la autenticità dei documenti prodotti a sostegno, anche ai sensi dell’art. 201 cit. Pertanto, lo spedizioniere, in caso di accertata falsità dei documenti, è il trasgressore (unitamente all’importatore) sia sul piano oggettivo, che anche su quello soggettivo, dovendo ascriversi allo stesso, quantomeno, la colpa professionale, per la superficialità posta nel controllo e nell’interpretazione dei documenti commerciali, o nell’omessa o insufficiente diligenza nello svolgimento del mandato. Ha dunque errato la C.T.R. nell’escludere la negligenza del C. La Spezia, giacché questo è venuto meno alla diligenza qualificata richiesta dall’art. 1176, comma 2, c.c.
2.1 – I motivi vanno esaminati congiuntamente, perché connessi, e vanno nel complesso disattesi, nei termini che seguono.
2.2 – Preliminarmente, non è fondato l’argomento – appena velatamente speso nel primo motivo – attinente la pretesa novità dell’eccezione sulla buona fede invocata dal rappresentante doganale, giacché, al di là della norma specificamente applicabile nella specie (art. 220 C.D.C., ovvero art. 5 del d.lgs. n. 472/1997, come meglio si dirà tra breve), il profilo della carenza dell’elemento soggettivo è stata introdotta dal C. La Spezia sin dal ricorso introduttivo e può dirsi quindi ricompreso nell’ambito della questione concernente l’applicabilità dell’art. 220 C.D.C. anche alle sanzioni tout court.
2.3.1 – Per quanto concerne detta ultima questione, non constano specifici precedenti di legittimità.
Al riguardo, è opportuno precisare che la C.T.R. ha richiamato esplicitamente la norma in discorso (nel testo vigente ratione temporis) come espressione della clausola di equità, rilevando che nella specie il dichiarante aveva agito in buona fede, “rispettando tutte le condizioni” (previste dall’art. 220 C.D.C., n.d.e.). Più in dettaglio, il giudice d’appello ha evidenziato la diligenza mostrata dal C. La Spezia nell’occasione, giacché la società aveva presentato la merce, accompagnata da fattura rilasciata dall’importatore cinese, e sottolineando che la “truffa” di quest’ultimo era stata scoperta dall’Ufficio doganale solo a seguito della “attività informativa dell’antifrode, il che travalica le capacità professionali del C.”
2.3.2 – Ora, per quanto la dottrina specialistica dia sostanzialmente per scontato che l’efficacia scriminante della buona fede dell’importatore, come codificata dall’art. 220, par. 2, lett. b), del C.D.C., concerna non solo il recupero dei dazi a posteriori, ma anche le relative sanzioni, tale conclusione non appare tuttavia condivisibile.
Invero, è noto che l’ordinamento comunitario in materia doganale (si fa riferimento al complesso normativo nella specie applicabile ratione temporis), pur armonizzato sul piano sostanziale, non lo è, al contrario, riguardo a quello sanzionatorio, demandato alla legislazione dei singoli Stati membri, comunque tenuti – in linea generale, allorquando manchi una disciplina comune – al rispetto dei principi comunitari di legalità, tassatività, proporzionalità ed effettività (si vedano, in particolare, Corte Giust. 8.5.2008, cause C-95/07 e C-96/07, Ecotrade; C.G. 12.7.2012, causa C-284/11, EMS-Bulgaria Transport; C.G. 19.7.2012, causa C-263/11, Rèdlihs; C.G. 20.6.2013, causa C-259/12, Rodopi-M91 ; C.G. 17.7.2014, causa C- 272/13, Equoland).
Né del resto l’art. 220, par. 2, lett. b), del C.D.C., fa alcun cenno al piano sanzionatorio, riferendosi esso all’esimente riguardo all’insorgenza dell’obbligazione doganale, ossia all’importo dei dazi”, ex art. 217, par. 1, C.D.C., coerentemente con la rubrica della Sez. 1, del Cap. 3, intitolata appunto “Contabilizzazione e notifica al debitore dell’importo dei dazi”. Se si vuole, dunque, l’esimente in discorso può riguardare la sanzione amministrativa solo indirettamente, nella misura in cui – dovendo escludersi la sussistenza dell’obbligazione doganale per la ricorrenza dei relativi presupposti, su cui infra – resti conseguentemente esclusa la violazione della norma tributaria.
Ma sarebbe errato riguardare la specifica problematica della sanzione amministrativa al lume del disposto dell’art. 220 cit. (come erroneamente ha fatto la C.T.R.), perché occorrerebbe inoltrarsi in tal caso nella verifica di tutti i presupposti della sua applicabilità. Come da ultimo evidenziato anche da Cass. n. 7790/2019, occorre infatti al riguardo accertare non solo la buona fede dell’importatore, ma anche l’errore “attivo” dell’autorità doganale e l’osservanza di tutte le disposizioni da parte dello stesso importatore, questioni sulle quali ultime, non a caso, la stessa C.T.R. non spende alcuna considerazione in concreto, pur dando atto che il C. La Spezia ne aveva comunque rispettato “tutte le condizioni”.
Ha dunque errato la C.T.R. nel fondare la propria decisione sul disposto dell’art. 220 C.D.C., anche se ciò non può condurre all’accoglimento del ricorso, sufficiente essendo, al riguardo, la mera correzione della motivazione, ex art. 384, ult. comma, c.p.c.
2.4 – Infatti, venendo in discussione la problematica della diligenza e della buona fede dell’importatore, occorre riferirsi alla disciplina sanzionatoria dettata dagli artt. 302 ss. d.P.R. n. 43/1973 (T.U.L.D.), nonché dal d.lgs. n. 472/1997, concernente i principi generali in materia di sanzioni per violazione di norme tributarie. Resta poi sullo sfondo la questione dell’affidamento incolpevole di cui all’art. 10 della legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente), che però qui non rileva, benché invocato dalla controricorrente, non emergendo i relativi elementi caratterizzanti (ondivaghe indicazioni dell’amministrazione, ritardi, omissioni o errori della stessa, obiettive condizioni di incertezza normativa, ecc.).
Ora, premesso che, nel caso che occupa, è stata contestata al rappresentante indiretto dell’importatore la violazione dell’art. 303, comma 3, T.U.L.D. (nel testo vigente ratione temporis), che non sono in discussione le specifiche cause di esclusione della sanzione previste dallo stesso art. 303, comma 2, e che il C. La Spezia ha sempre invocato la propria buona fede (ossia, l’inconsapevolezza dello “scarto” tra il valore effettivo della merce e quello dichiarato in Dogana su incarico della titolare della ditta B.S. I & E, che in eventum l’ha indotto in errore), per l’inquadramento normativo della questione non può che farsi riferimento agli artt. 5, 6 e 10 del d.lgs. n. 472/1997, corpus normativo – quest’ultimo – che, come è noto, è ispirato ai principi sanzionatori di matrice penalistica, già codificati nella legge n. 689/1981. Segnatamente, per quanto qui interessa, l’art. 5 introduce il principio di colpevolezza, sicché ciascuno risponde della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, a titolo di dolo o colpa grave, che sussiste “quando l’imperizia o la negligenza del comportamento sono indiscutibili e non è possibile dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata e, di conseguenza, risulta evidente la macroscopica inosservanza di elementari obblighi tributari”; l’art. 6, poi, prevede quale causa di non punibilità l’errore sul fatto, quando la violazione ne sia conseguenza, sempre che l’errore non derivi da colpa; l’art. 10, infine, disciplina l’ipotesi dell’autore mediato, escludendo la responsabilità di colui che – al di fuori dei casi di concorso nella violazione – sia incorso nella violazione stessa per essere stato indotto in errore incolpevole da un terzo.
2.5 – La richiamata normativa involge, più specificamente, le doglianze avanzate col secondo mezzo, essendosi censurata l’affermazione della C.T.R. circa la diligenza prestata dal C. La Spezia nelle operazioni doganali in discorso, laddove si è sostenuto che giungere alla scoperta della “truffa” perpetrata dall’importatore cinese richiedeva competenze che travalicano le capacità professionali del C. La Spezia.
Ora, premesso che il C. La Spezia è rappresentante indiretto dell’importatore ed è quindi, inequivocamente, il “dichiarante”, ai sensi dell’art. 201, par. 3, C.D.C., ritiene la Corte come dette censure non possano superare il vaglio di ammissibilità, per difetto di specificità.
Infatti, la responsabilità solidale prevista dalla norma comunitaria concerne “le persone che hanno fornito detti dati necessari alla stesura della dichiarazione, e che erano o avrebbero dovuto ragionevolmente essere a conoscenza della loro erroneità detto parametro – sia pure con riferimento alla contigua fattispecie di insorgenza dell’obbligazione doganale di cui all’art. 202 C.D.C., ma con principi senz’altro estensibili alla fattispecie che occupa – è stato interpretato dalla Corte di Giustizia (sentenza 17.11.2011, causa C-454/10, Jestel) nel senso che occorre far “riferimento al comportamento di un operatore diligente ed accorto. Occorre inoltre sapere se l’intermediario abbia compiuto tutti i passi che dal medesimo possano essere ragionevolmente attesi per garantire che le merci di cui trattasi non siano introdotte irregolarmente (…). Occorre anche tenere conto delle informazioni che erano a disposizione dell’intermediario o delle quali egli doveva secondo ragione avere conoscenza, in considerazione, in particolare, dei suoi obblighi contrattuali. (…). Può, infine, essere preso in considerazione il periodo durante il quale l’intermediario ha fornito le sue prestazioni al venditore delle merci di cui trattasi”.
Sul punto, nella giurisprudenza di questa Corte, è stato condivisibilmente affermato che “la responsabilità del rappresentante indiretto dell’importatore, la quale concerne i rapporti interni fra ausiliario e preponente senza determinare, in rapporto ai terzi (compreso l’ufficio doganale), alcuna sostituzione, implica per il rappresentante l’obbligo di vigilare, con la diligenza qualificata da ragguagliare, ex art. 1176, comma 2, c.c., alla natura dell’attività esercitata, sull’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione, non essendo sufficiente ad integrare il requisito della buona fede l’inconsapevolezza dell’irregolare introduzione della merce” (Cass. n. 13383/2019; v. anche Cass. n. 3739/2019).
Con specifico riferimento al tema dell’autore mediato, tipicamente emergente nelle fattispecie come quella che occupa (atteso che il rappresentante indiretto effettua le operazioni doganali in nome proprio, ma per conto del proprio cliente), è stato recentemente anche affermato che “l’art. 10 del d.lgs. n. 472 del 1997 non trova applicazione in favore del rappresentante indiretto dell’importatore che abbia effettuato la dichiarazione in dogana ove la violazione sia imputabile anche alla colpa dello stesso, derivante da difetto di diligenza che, ai sensi dell’art. 1176 c.c., deve essere alla natura dell’attività professionale esercitata, che implica un obbligo di informazione ma anche di attenta verifica dell’esattezza dei dati dichiarati, strumentali al corretto espletamento dell’incarico conferito” (Cass. n. 5909/2019).
2.6 – Chiarito, dunque, che il rappresentante indiretto deve tenere il “comportamento di un operatore diligente ed accorto”, che il parametro della diligenza richiestogli è quello specifico di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., che la negligenza del comportamento – ai fini dell’applicazione della sanzione nei suoi confronti – deve essere “indiscutibile” e che, infine, l’erroneità della dichiarazione da lui resa non deve derivare da colpa (sia essa endogena o esogena), ritiene la Corte come le censure In esame siano riportate come una sequenza astratta di precetti, ma che esse – al di là della generica affermazione secondo cui il C. La Spezia, come operatore professionale, era in grado di scoprire la falsità del valore delle merci dichiarato in dogana – non individuino in concreto in cosa sia consistito il comportamento negligente della società controricorrente, incompatibile con l’accertamento per cui è processo e, prima ancora, con la normativa di cui si assume la violazione.
Al riguardo, non è pertinente l’assunto secondo cui il C. La Spezia era stato tempestivamente informato dell’avvio di una attività di controllo volta alla revisione delle dichiarazioni di importazione oggetto della controversia, come pure evidenziato dall’Agenzia in ricorso, perché ciò è inequivocamente avvenuto diversi anni dopo l’effettuazione delle operazioni doganali in discorso. Di tale informativa, dunque, non può tenersi conto al fine di valutare il parametro della diligenza del rappresentante doganale, rapportato all’epoca delle operazioni stesse.
Del resto, ritiene la Corte che giungere alla conclusione secondo cui, in ogni caso, il rappresentante indiretto resta impegnato riguardo alla esattezza delle indicazioni riportate nella dichiarazione, all’autenticità dei documenti prodotti nonché all’osservanza di tutti gli obblighi inerenti al vincolo delle merci al regime proprio (v. ricorso, p. 18), equivale ad affermare la responsabilità oggettiva del rappresentante stesso, del tutto avulsa dalla verifica del canone di diligenza che questi, quale operatore professionale, è tenuto pur sempre ad osservare, come s’è ampiamente detto. In altre parole, il fatto che la normativa citata preveda che la responsabilità del rappresentante indiretto sia solidale con il proprietario della merce o con l’importatore, non può comportare che le modalità di accertamento della responsabilità stessa – rispetto all’uno e all’altro – procedano in modo identico, a meno che non vi sia una vera e propria compartecipazione tra detti soggetti nell’attività fraudolenta (circostanza qui non in discussione).
3.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 7.800,00 per compensi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge.
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