CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 agosto 2021, n. 22246
Rapporto di agenzia – Risoluzione del rapporto di lavoro – Clausola – Mancato raggiungimento del budget minimo concordato ed annualmente determinato – Indennità sostitutiva del preavviso
Considerato che
La Corte d’appello di Milano confermava la pronuncia del giudice di prima istanza il quale aveva respinto la domanda proposta da G.T. nei confronti della B.L. s.p.a. volta a conseguire l’indennità di risoluzione del rapporto e l’indennità sostitutiva del preavviso spettanti in relazione al rapporto di agenzia intercorso fra le parti negli anni 2007- 2013
La Corte d’appello perveniva a tale decisione sulla base delle seguenti considerazioni: la clausola di risoluzione espressa del contratto, prevista per l’ipotesi in cui l’agente non avesse raggiunto il budget minimo concordato ed annualmente determinato, era da ritenersi valida; gli obiettivi minimi da raggiungere risultavano congrui e legittimi in relazione al rapporto in essere fra le parti, essendo aumentati negli anni in modo proporzionato e costante; il mancato conseguimento degli obiettivi nell’anno 2012 era dato acquisito ed incontestato fra le parti; esso era riconducibile alla contemporanea assunzione da parte dell’agente di altro incarico con una società concorrente, in violazione dell’obbligo di esclusiva assunto con il contratto e della clausola generale della correttezza e buona fede; da ciò conseguiva l’impossibilità di prosecuzione anche provvisoria del rapporto e l’insussistenza del diritto dell’agente a percepire l’indennità rivendicate ex artt.1750 e 1751 c.c.
Avverso tale decisione G.T. interpone ricorso per cassazione sulla base di unico motivo, cui resiste con controricorso la società intimata.
Considerato che
1. Con unico motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt.1751, 2118 e 2119 c.c. nonché errata applicazione dell’art.10 A.E.C. settore commercio del 2009.
Si critica la pronuncia della Corte di merito per avere riscontrato la sussistenza della giusta causa di risoluzione del rapporto, in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi; la statuizione sarebbe in contrasto con l’art.14 del contratto inter partes, che prevedeva la facoltà per il preponente di risolvere il negozio entro il termine dilatorio di tre mesi dalla cessazione dell’anno in corso. Si deduce che era la medesima clausola risolutiva espressa, nei termini in cui era stata formulata, ad escludere che le parti avessero considerato il mancato conseguimento degli obiettivi prefissati quale giusta causa di risoluzione del contratto, quale mancanza di tale gravità da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto. Si osserva, quindi, che, onde valutare la gravità dell’inadempimento ascritto, non poteva rilevare la circostanza della assunzione di un altro incarico con una diversa società, considerato che l’obbligo di esclusiva era stato convenzionalmente derogato dalle parti, come evincibile dalle memorie di costituzione di parte resistente ex artt.416 e 437 c.p.c.
Si prospetta, infine, la necessità di interpretare le clausole del contratto agenziale concluso fra le parti, quale contratto “standard” in cui le clausole risultano determinate unilateralmente dalla preponente, ai sensi dell’art.1370 c.c. in senso più favorevole all’agente.
2. Il motivo è infondato.
La pronunzia è conforme all’orientamento espresso da questa Corte secondo cui in tema di cessazione del rapporto di agenzia, il recesso senza preavviso dell’impresa preponente è consentito nel caso in cui intervenga una causa che impedisca la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. In particolare, ove si faccia ricorso da parte dell’impresa preponente ad una clausola risolutiva espressa, che può ritenersi valida nei limiti in cui venga a giustificare un recesso in tronco attuato in situazioni concrete e con modalità a norma di legge o di accordi collettivi non legittimanti un recesso per giusta causa, il giudice deve verificare anche che sussista un inadempimento dell’agente integrante giusta causa di recesso (vedi Cass. 18/5/2011 n.10934).
E’ stato sostenuto, in via di premessa, che la previsione da parte dell’art. 1750 c.c., della facoltà delle parti di recedere con preavviso dal rapporto di agenzia a tempo indeterminato deve intendersi integrata dalla facoltà di recedere senza preavviso nel caso di ricorrenza di una giusta causa, essendo il rapporto di agenzia ascrivibile a quel genere di rapporti, come quelli di lavoro subordinato o di mandato per i quali, in considerazione del loro particolare oggetto (diretta collaborazione giuridica o materiale all’attività di un altro soggetto) sono previsti meccanismi risolutivi affidati, salvo gli eventuali e successivi controlli giudiziali, alle dirette determinazioni delle parti interessate anche in caso di inadempimento.
Rispetto al problema di una determinazione dei presupposti dell’integrazione di una giusta causa e di quello della validità di eventuali clausole risolutive espresse, si è valorizzato il punto secondo cui il codice civile ha fornito una disciplina circostanziata relativamente alle modalità di svolgimento dell’attività dell’agente e agli obblighi reciproci delle parti, qualificando e “proteggendo” l’attività professionale dell’agente in un quadro di norme inderogabili da integrare con una disciplina affidata agli accordi collettivi di categoria.
Si è quindi ritenuto che l’art. 1750 c.c., debba essere integrato con il riferimento ad una nozione di giusta causa che assume, non diversamente che nel rapporto di lavoro subordinato, un’efficacia non derogabile dalle parti, del contratto individuale, perché la contraria conclusione attribuirebbe alle parti stesse la facoltà di incidere in senso limitativo su quel quadro di tutele normative minime delineato dal legislatore. Va per altro verso considerato, che secondo l’insegnamento di questa Corte, la regola dettata dall’art. 2119 c.c. deve essere applicata in via analogica anche al contratto di agenzia, sia pur tenendo conto della diversa natura del rapporto rispetto a quello di lavoro subordinato nonché della diversa capacità di resistenza che le parti possono avere nell’economia complessiva dello stesso.
In tale ambito, il giudizio circa la sussistenza, nel caso concreto, di una giusta causa di recesso deve essere compiuto dal giudice di merito, tenendo conto delle complessive dimensioni economiche del contratto e dell’incidenza dell’inadempimento sull’equilibrio contrattuale, assumendo rilievo, in proposito, solo la sussistenza di un inadempimento colpevole e di non scarsa importanza che leda in misura considerevole l’interesse della parte, tanto da non consentire la prosecuzione, “anche provvisoria”, del rapporto (vedi ex plurimis Cass. 19/1/2018 n.1376); con la precisazione che, ai fini del giudizio circa la ricorrenza di una giusta causa, é in particolare della gravità della condotta, deve tenersi conto della diversità della posizione dell’agente rispetto a quella del lavoratore subordinato, rilevandosi così che nel rapporto di agenzia, il rapporto di fiducia, in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività, assume maggiore intensità (cfr. cass.4/6/2008 n. 14771, Cass.26/5/2014 n.11728, Cass. 12/11/2019 n.29290).
Quale corollario di siffatte premesse, l’applicazione al rapporto di agenzia della ricordata disposizione codicistica, non può che comportare necessariamente anche l’applicazione dell’inderogabilità del principio ad essa sotteso; con la conseguenza che il fatto-inadempimento che le parti hanno dedotto nell’ambito della clausola risolutiva espressa e al verificarsi del quale il contratto si intende risolto di diritto, dovrà essere sempre sottoposto a valutazione del giudice, perché quel fatto sarà idoneo ad escludere la risoluzione ad nutum del contratto soltanto qualora integri anche una giusta causa di recesso, ossia un evento che, seppure contestualizzato nell’ambito del rapporto agenziale, non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria dello stesso.
Nell’ottica descritta questa Corte ha, infatti, osservato che una clausola risolutiva espressa può ritenersi legittima (similmente, alle clausole dei contratti collettivi che prevedano ipotesi di licenziamento disciplinare) solo nei limiti in cui (oltre a non porsi in contrasto con eventuali previsioni in materia di accordi collettivi applicabili al rapporto) non venga a giustificare un recesso senza preavviso in situazioni concrete a norma di legge non legittimanti un recesso in tronco (Cass. cit. n.10934/2011).
In tal senso è apprezzabile – nella descritta prospettiva logico-sistematica dell’istituto del recesso nel contratto di agenzia – l’evoluzione segnata dal summenzionato arresto rispetto al precedente orientamento alla cui stregua, in tema di risoluzione per inadempimento, la presenza di una clausola risolutiva espressa in seno alla convenzione negoziale rendeva irrilevante ogni indagine intesa a stabilire se l’inadempimento fosse sufficientemente grave da giustificare l’effetto risolutivo (fra le tante, vedi Cass. 17/3/2000 n.3102) .
3. Tanto precisato, deve ritenersi che l’impianto motivazionale che innerva la pronuncia impugnata, si muova, in linea con la giurisprudenza summenzionata, sul piano dell’accertamento della gravità dell’inadempimento ascritto all’agente, oggetto dello statuto negoziale ed individuato in sede di clausola risolutiva espressa; inadempimento che risulta definito in termini oggettivi ed incontestabili quale mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati, secondo quanto consacrato nella clausola contrattuale, e sul quale si innesta una valutazione di gravità che risulta corroborata da altrettanto oggettivi elementi valorizzati dalla Corte sotto il profilo di violazione della clausola di esclusiva e dei principi di correttezza e buona fede che presiedono alla conclusione ed alla esecuzione del contratto.
E’, invero, principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, quello in base al quale il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo o integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi (cfr. S.U. 15/11/2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti). Lo stesso canone della buona fede in senso oggettivo non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all’esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi, componendoli nell’ambito delle rispettive pretese (vedi in motivazione Cass. 14/5/2014 n.10428).
Nel solco degli esposti principi si colloca, dunque, la pronuncia della Corte territoriale che ha proceduto all’esegesi del contratto inter partes facendo leva sulle regole di diritto alle quali si è fatto richiamo. In tale prospettiva, il motivo esaminato è inidoneo ad inficiare la decisione impugnata che, in quanto sorretta dalla corretta applicazione della normativa in materia di interpretazione del contratto e fondata sul corretto rilievo della violazione della clausola di esclusiva oltre che della clausola generale di cui all’art.1375 non è suscettibile di censura alla stregua della proposizione della ricostruzione esegetica, meramente alternativa a quella argomentata dalla Corte di merito, proposta dal ricorrente; l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone, invero, sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se non nei limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. tra le tante Cass. n. 14324 del 2015), che – nel testo vigente ratione ternporis – consente di dedurre in sede di legittimità solo l’omesso esame circa un fatto controverso e decisivo che abbia formato oggetto di discussione tra le parti (Cass. S.U. n. 8053 del 2014).
4. Né ammissibili si palesano i rilievi formulati da parte ricorrente con riferimento alla prospettata deroga convenzionale delle parti che si assume introdotta rispetto all’obbligo di esclusiva sancito dal punto 3 del contratto, stante il difetto di specificità del motivo che non riporta il tenore degli atti processuali ai quali riferisce (vedi pag. 9 ricorso); così come da disattendere è la prospettazione della applicabilità del criterio della “interpretatio contra proferentem” di cui all’art. 1370 cod. civ. in senso favorevole all’agente, sul presupposto che si versi in ipotesi di contratto standard o per adesione.
Come già rilevato da questa Corte (vedi Cass. 19/2/2020 n.4190), con riferimento alla dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1341 e 1342 cod. civ., le clausole onerose subordinate alla specifica approvazione per iscritto sono solo quelle che vengono inserite in contratti con condizioni generali predisposte da uno solo dei contraenti, ovvero conclusi mediante sottoscrizione di moduli o formulari; secondo la giurisprudenza di legittimità consolidatasi in materia, possono infatti qualificarsi come contratti “per adesione” esclusivamente le strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, tanto dal punto di vista sostanziale (se, cioè, predisposte da un contraente che esplichi attività contrattuale all’indirizzo di una pluralità indifferenziata di soggetti), quanto dal punto di vista formale valea dire se predeterminate nel contenuto a mezzo di moduli o formulari utilizzabili in serie. (cfr. Cass. 28/9/2020 n.20461, Cass. 10/7/2013 n.17073 fra le molte conformi). Non possono, invece, ritenersi “per adesione” i contratti predisposti – come nella specie – da uno dei due contraenti in previsione e con riferimento a singole e specifiche vicende negoziali e a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere ed apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto, né predisposte a mezzo di moduli e formulari, quale quello di cui si discute.
5. In definitiva, alla luce delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 ricorrono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 10.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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