CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 gennaio 2019, n. 88
Licenziamento per giustificato motivo soggettivo – Indennità sostitutiva del preavviso – Tardività della contestazione – Prova degli addebiti
Rilevato che
1. con sentenza n. 1639 pubblicata il 19.12.2016, la Corte d’appello di Milano, in parziale accoglimento dell’appello proposto da V.G. e in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato il B.P. soc. coop. a.r.l. al pagamento in favore del predetto della ulteriore somma di euro 42.224,27 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso; ha confermato la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva respinto la domanda del V. di nullità o illegittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimatogli il 2.7.07;
2. la Corte territoriale, premessa la natura disciplinare del licenziamento, ha escluso che fosse stato violato l’art. 7, L. n. 300 del 1970, per essere gli addebiti mossi al V. descritti nella lettera di contestazione in modo preciso e dettagliato;
3. ha respinto l’eccezione di tardività della contestazione medesima (datata 9.5.07) ritenendo ragionevole, data la complessità e delicatezza della vicenda sfociata in diversi procedimenti penali, che la banca avesse atteso la chiusura delle indagini preliminari (l’avviso di chiusura delle stesse era pervenuto alla banca il 14.2.07) con la formulazione dei capi di imputazione nei confronti degli indagati, tra cui il V.;
4. ha ritenuto provati gli addebiti mossi al predetto (di ripetute violazioni degli obblighi di informazione e segnalazione agli organismi di vigilanza delle irregolarità ed operazioni illecite di cui era venuto a conoscenza) e gli stessi idonei ad integrare il requisito di giustificatezza richiesto in relazione alla qualifica dirigenziale dal medesimo rivestita, come avvalorato dalla sentenza di patteggiamento per concorso nei reati di manipolazione del mercato, di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza Consob e Banca d’Italia e di appropriazione indebita aggravata;
5. ha rideterminato la retribuzione mensile da prendere a base del calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso, come comprensiva anche della media dei bonus percepiti negli ultimi tre anni e del valore del benefit per uso promiscuo dell’auto;
6. avverso tale sentenza il V. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a otto motivi, cui ha resistito con controricorso il Banco B.P.M. s.p.a., società sorta a seguito della fusione tra B.P. soc. coop. a.r.l. e Banca Popolare di Milano soc. coop. a.r.l.;
7. il Banco B.P.M. s.p.a. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis. 1, c.p.c.
Considerato che
8. col primo motivo di ricorso il lavoratore ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970 per genericità della contestazione disciplinare (integralmente trascritta) in quanto priva di indicazioni sull’epoca in cui sarebbero state tenute le condotte oggetto di addebito, sulle norme specificamente violate, sul contenuto delle informazioni e segnalazioni omesse e sulla destinazione delle stesse;
9. il motivo è infondato;
10. secondo la giurisprudenza di questa Corte, la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.. L’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (Cass. n. 7546 del 2006; Cass. n. 11045 del 2004);
11. si è anche precisato, con riferimento ad un soggetto preposto ad una filiale di un istituto di credito, come le regole dell’organizzazione aziendale equivalgano, quanto all’onere del lavoratore di conoscerle, alle norme della comune prudenza ed a quelle del codice penale sicché, ai fini della legittimità del provvedimento espulsivo, non ne è necessaria l’indicazione nel codice disciplinare, così come è sufficiente la previa contestazione dei fatti che implichino la loro violazione, anche in difetto di una specificazione delle norme violate (Cass., n. 11412 del 2018);
12. nel caso in esame, la Corte di merito ha riportato il testo integrale della contestazione disciplinare atto a rivelarne il carattere dettagliato e minuzioso, anche attraverso il richiamo di atti e provvedimenti del procedimento penale certamente noti al V. quale persona indagata; né il ricorrente ha argomentato sulla rilevanza, ai fini difensivi, degli elementi che ha denunciato come omessi nella contestazione disciplinare;
13. col secondo motivo il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970, degli artt. 5, comma 2, 25 e 29 c.c.n.l. dirigenti credito ABI, degli artt. 1364, 1175, 1375 c.c. per la tardività della contestazione e del licenziamento;
14. ha sostenuto la tardività della contestazione del 9.5.07 relativa a fatti di cui la banca aveva conoscenza fin dal maggio/giugno 2006, e su cui aveva chiesto chiarimenti al V. con lettera del 5.9.06;
15. ha affermato come, in base alle previsioni del c.c.n.l., ove la banca avesse voluto attendere le risultanze anche non definitive del procedimento penale, avrebbe dovuto darne comunicazione per iscritto al proprio dipendente, cosa nel caso di specie non avvenuta;
16. il motivo è infondato;
17. secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, In materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo l’addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006). Si è inoltre sottolineato come il criterio dell’immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, vada inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un’unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell’organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; Cass. n. 12141 del 2003). Va segnalato che, sempre secondo l’orientamento di questa Corte, la valutazione relativa alla tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (Cass. n. 19115 del 2013 ed altre sopra citate);
18. in base a tali principi deve riconoscersi la correttezza giuridica della sentenza impugnata, che ha dato conto della complessità dell’indagine e dell’esigenza di attendere almeno la chiusura delle indagini preliminari così come ha sottolineato l’irrilevanza, ai fini del requisito in questione, dei chiarimenti chiesti dalla banca al V. sulle dichiarazioni rese dall’ex A.D. Fiorani e dal responsabile della Direzione Finanza Boni nel procedimento penale a loro carico, in quanto inidonei a consentire una ricostruzione completa delle condotte disciplinarmente rilevanti addebitabili all’attuale ricorrente;
19. inammissibile è, infine, la censura di violazione del c.c.n.l., non avendo il ricorrente dedotto con quale atto processuale la stessa era stata sollevata nei precedenti gradi di merito e tenuto conto che nessuna menzione della stessa è contenuta nella sentenza impugnata (Cass., SS. UU., n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004);
20. col terzo motivo, sul presupposto di una diversa ricostruzione dei fatti nelle sentenze di primo e secondo grado, rilevante ai fini dell’art. 348 ter c.p.c., il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame di vari fatti decisivi, tra cui le conclusioni della Banca d’Italia e della Consob, la sentenza penale del Tribunale di Lodi sul ruolo del V. nonché la relazione del predetto al Consiglio di Amministrazione del 5.8.05;
21. il motivo è inammissibile dovendosi ritenere applicabile, nella fattispecie in esame, la disciplina di cui all’art. 348 ter, comma 5 c.p.c.;
22. occorre considerare che al procedimento in oggetto si applica l’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., introdotto dall’art. 54, comma 1, lett. a) del D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2012, poiché il ricorso in appello è stato depositato in epoca successiva all’11.9.2012;
23. l’art. 348 ter, comma 5, c.p.c. prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, secondo comma, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta “doppia conforme”). In altri termini, il vizio di motivazione non è deducibile in cassazione in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme;
24. si è ulteriormente precisato come nell’ipotesi di “doppia conforme” il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014). Per dichiarare inammissibile il motivo di ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. occorre che l’adesione del giudice di appello al giudizio di fatto del giudice di primo grado costituisca il fondamento della decisione di rigetto dell’appello; se invece il giudice di secondo grado ricostruisce il fatto in modo differente rispetto al Tribunale, pur non mutando il dispositivo, la limitazione non può operare (Cass., 29 ottobre 2014, n. 23021). Ciò non significa che le due motivazioni debbano essere totalmente sovrapponibili, né che vi debba essere identica valutazione delle risultanze probatorie, rimanendo libero il giudice del reclamo, come quello dell’appello, di scegliere tra le varie prove quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione (Cass. n. 23073 del 2015);
25. il ricorrente ha sostenuto l’ammissibilità dei motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. sul rilievo della differente valutazione dei fatti posti a base della sentenza d’appello rispetto a quella di primo grado ed ha individuato la non sovrapponibilità delle due valutazioni essenzialmente nel fatto per cui, secondo la Corte d’appello, il V. “fosse a conoscenza dell’operazione di cessione delle minorities già prima del Consiglio di amministrazione del 5 agosto 2005”, laddove secondo il Tribunale “non sarebbe ipotizzabile che il V. in ragione del ruolo ricoperto non avesse avuto consapevolezza e neppure il fondato sospetto che l’operato degli amministratori e dei dirigenti si ponesse in contrasto con le norme che regolano il sistema bancario”;
26. ora, tale divergenza ha un rilievo assolutamente secondario nell’economia complessiva della ricostruzione operata dai giudici di merito, posto che entrambe le pronunce arrivano ad attribuire al V. la conoscenza delle condotte irregolari o illecite poste in essere e l’omessa doverosa segnalazione delle stesse agli organi di vigilanza, con la sola differenza per cui la conoscenza da parte del predetto è accertata in positivo dalla Corte di merito ed è oggetto di prova presuntiva nella sentenza del Tribunale;
27. quest’unica e non decisiva difformità nel percorso argomentativo seguiti dalle due sentenze non scalfisce in alcun modo la univoca ricostruzione della vicenda storica e la analoga valutazione degli elementi probatori, ad opera dei diversi giudici di merito, in relazione alla condotta del V. e all’elemento soggettivo che caratterizzava la stessa;
28. tale rilievo porta a ritenere inammissibile il motivo di ricorso in esame, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., peraltro incentrato sulla deduzione di omesso esame di più fatti, nessuno dei quali quindi assunto di per sé con valenza decisiva, come invece necessario in base allo schema legale della disposizione in esame delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053 del 2014;
29. col quarto motivo il ricorrente ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., degli artt. 115, 116, 251, 253, 257 bis c.p.c.per avere la Corte di merito ritenuto fondato l’addebito di cui al punto 2 della lettera di contestazione solo in base alle dichiarazioni rese da F. e B. in sede di incidente probatorio, prive del valore di prova testimoniale nel processo in esame;
30. il motivo è infondato atteso che la Corte d’appello si è uniformata all’unanime indirizzo di questa Corte secondo cui il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche le prove raccolte in un diverso giudizio tra le stesse parti o tra altre parti, delle quali la sentenza che in detto giudizio sia stata pronunciata costituisce documentazione, fermo restando che la valutazione del materiale probatorio non va limitata all’esame isolato dei singoli elementi ma deve essere globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica che, ove sia immune da vizi di motivazione, costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, (Cass. n. 840 del 2015; Cass. n. 4652 del 2011; Cass., S.U. n. 9040 del 2008); la sentenza d’appello ha valutato le risultanze delle dichiarazioni rese in sede penale unitamente agli elementi probatori raccolti nel presente procedimento, di natura documentale, sottolineando, ai fini dell’art. 116 c.p.c., anche l’assenza di qualsiasi chiarimento reso dal V. sulle operazioni descritte dai testimoni escussi nel processo penale;
31. in una fattispecie sovrapponibile a quella in esame, questa Corte ha sostenuto che “nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro può fondare il suo convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., potendo la parte, del resto, contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., ha affermato la legittimità del licenziamento di un dipendente di un istituto bancario ritenendo che le dichiarazioni rese dalle vittime del reato e la sentenza di patteggiamento – per il reato di usura, unitamente al comportamento della parte, che non aveva contestato i fatti riferiti dai testimoni, portassero a ritenere sussistenti l’avvenuto compimento da parte del medesimo di gravi irregolarità e violazioni delle norme interne, in contrasto con i doveri fondamentali della deontologia del dipendente bancario e tali da ledere gravemente il rapporto di fiducia della banca con il suo funzionario”, Cass. n. 132 del 2008; nello stesso senso Cass. n. 2168 del 2013);
32. col quinto motivo il ricorrente ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame del fatto decisivo consistente nella mancata formulazione di capi di imputazione a carico del V. a fronte delle dichiarazioni rese da Fiorani e Boni nell’incidente probatorio;
33. il motivo è inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., secondo quanto già esposto sul terzo motivo di ricorso;
34. col sesto motivo il lavoratore ha censurato la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 445 c.p.p., 115, 116 c.p.c. e 2697 c.c. per avere la Corte di merito attribuito efficacia alla sentenza di patteggiamento che, peraltro, non riguarda i fatti oggetto della contestazione disciplinare;
35. il motivo è infondato;
36. secondo la giurisprudenza di questa Corte, la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità, (Cass. n. 30328 del 2017; Cass. n. 3980 del 2016; Cass. n. 9358 del 2005);
37. nel caso di specie, la Corte di merito ha richiamato la sentenza di patteggiamento, emessa in epoca successiva al recesso, unicamente quale elemento rafforzativo del giudizio di giustificatezza del licenziamento del V. per i fatti oggetto di contestazione;
38. col settimo motivo il ricorrente ha ribadito le censure esposte nei motivi da n. 3 a n. 6 in relazione alla parte della sentenza sul punto n. 3 della lettera di contestazione;
39. il motivo di ricorso difetta di specificità in quanto non è dato comprendere quali dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c. siano specificamente denunciati; il richiamo fatto dal ricorrente alle censure esposte nel terzo e sesto motivo di ricorso porta, comunque, ad estendere al settimo motivo i rilievi di inammissibilità e infondatezza esposti nell’esame del terzo e del sesto motivo;
40. con l’ottavo motivo il ricorrente ha denunciato la violazione a falsa applicazione dell’art. 29 c.c.n.l. dirigenti credito ABI per avere la Corte d’appello omesso di verificare la sussistenza delle ragioni oggettive addotte dalla società quale ulteriore motivo di licenziamento;
41. il motivo è inammissibile in questa sede in quanto si traduce in una censura sulla motivazione della sentenza, non coerente non lo schema legale del citato art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., nella parte in cui ha ritenuto logicamente autonome le motivazioni poste a base del recesso ed integrato il presupposto di legittimità dalla giustificatezza dello stesso;
42. le considerazioni svolte portano al rigetto del ricorso con condanna del ricorrente, in base al criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo;
43. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 8.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.
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