CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 gennaio 2019, n. 89
Licenziamento collettivo – Mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 4 della legge n. 223/1991 – Illegittimità e inapplicabilità, ai singoli lavoratori interessati, dei provvedimenti conclusivi – Non sussiste
Rilevato
che, con la sentenza n. 452/2017, la Corte di appello di Palermo ha confermato la pronuncia del 21.4.2017 del Tribunale della stessa città con la quale, in riforma della precedente ordinanza del 27.1.2016, era stata respinta la domanda di declaratoria di illegittimità dell’atto di recesso datoriale, comminato a M. S., S. N., G. G., G. S. e G. S. dall’ENFAP all’esito di una procedura di licenziamento collettivo, con missiva del 14.10.2014;
che avverso la decisione di secondo grado hanno proposto ricorso per cassazione i suddetti lavoratori affidato a dieci motivi;
che l’ENFAP – Ente Nazionale Formazione e Addestramento Professionale – Comitato Regionale Sicilia, ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1) la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 della legge n. 223 del 1991, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per avere errato la Corte di appello nell’affermare che l’inosservanza dei termini e delle procedure previsti dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 non determina l’inefficacia dei licenziamenti intimati in quanto la suddetta statuizione si poneva in contrasto con la modifica legislativa di cui all’art. 4 c. 12 della legge n. 223 del 1991 operata dalla legge n. 92 del 2012;
2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 4 comma 9 e 5 comma 3 della legge n,. 223 del 1991, come modificati dall’art. 1 comma 44 della legge n. 92 del 2012, In relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale irrilevante la violazione del termine di sette giorni, entro il quale, dalla comunicazione dei recessi, andava trasmesso l’elenco dei lavoratori licenziati alle competenti autorità ed uffici, sebbene l’art. 4 comma 12 prevedesse espressamente l’inefficacia della comunicazione in ipotesi di mancata osservanza del detto termine;
3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 comma 9 legge n. 223 del 1991, come codificato dall’art. 1 comma 44 della legge n. 92 del 2012, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte di merito ritenuto superflua la comunicazione dell’elenco dei lavoratori all’Ufficio Provinciale del lavoro sulla base del presupposto, rivelatosi fallace, dell’avvenuto licenziamento di tutto il personale;
4) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., per non avere considerato la Corte di appello che il licenziamento non aveva coinvolto in termini assoluti tutto il personale: fatto questo pacifico e risultante documentalmente;
5) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., nonché la violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per avere erroneamente la Corte di appello ritenuto di potere ovviare alla incompletezza della comunicazione ex art. 4 comma 9 della legge n. 223 del 1991, con la produzione di nuovi documenti effettuati dall’ENFAP in sede di reclamo;
6) la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 commi 5, 6, 7 12 e dell’art. 5 comma 3 della legge n. 223 del 1991 e ss, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., per non avere la Corte territoriale considerato rilevante la violazione dei termini prescritti dalle suindicate disposizioni a fronte della statuizione del comma 12 dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991 che prevede come sanzione la inefficacia dei licenziamenti;
7) l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., per non avere rilevato la Corte di appello che il recesso datoriale era stato intimato oltre il termine di gg. 120 dalla data di conclusione della procedura di mobilità, in violazione dei termini di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991;
8) la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 comma 9 e dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 e ss, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto che l’onere di specificazione dei criteri di scelta, indipendentemente dalle contestazioni dei prestatori di lavoro, poteva ritenersi assolto in considerazione della mera indicazione ed elencazione dei nominativi dei lavoratori, delle mansioni e dell’anzianità di servizio, dovendosi, invece, avere riguardo al fatto che fosse stata o meno effettuata da parte del datore di lavoro una valutazione comparativa tra le singole posizioni dei prestatori di lavoro;
9) la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 comma 15 della legge n. 223 del 1991 e ss, per avere erroneamente ritenuto la Corte di appello non necessario il coinvolgimento della Direzione Regionale del Lavoro, nella procedura in esame, pur riguardando l’eccedenza unità produttive indicate in diverse province della stessa regione e in più regioni, sul presupposto di una delega di tutte le funzioni in materia alla Direzione Provinciale del Lavoro perché, secondo i ricorrenti, comunque la Direzione Regionale sarebbe dovuta essere la destinataria delle varie comunicazioni, a prescindere da chi fosse interessata, per rapporti interni, a seguire le successive fasi;
10) l’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 5 c.p.c., per avere la Corte territoriale omesso di considerare che l’ENFAP era stato riaccreditato, come risultava provato dai rapporti di convenzione con la Regione Sicilia e dallo inserimento dello stesso nel catalogo dell’offerta formativa, di talché erano venuti meno i presupposti del licenziamento e del giustificato motivo oggettivo; che il primo motivo presenta profili di infondatezza e di inammissibilità.
E’ infondato relativamente al principio richiamato nella gravata sentenza, in riferimento alla circostanza che il mancato rispetto dei termini previsti dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 per l’espletamento delle varie fasi della procedura non comporta l’illegittimità e l’inapplicabilità, ai singoli lavoratori interessati, dei provvedimenti conclusivi, atteso che tale effetto non è previsto da alcuna disposizione legislativa e perché i detti termini non sono posti a tutela dei lavoratori (cfr. Cass. 10.2.2009 n. 3261): e sotto questo profilo la nuova disciplina di cui alla legge n. 92 del 2012 non ha apportato modifiche su detto specifico aspetto. E’, invece, inammissibile, per genericità della doglianza, li dove approssimativamente si fa riferimento al mancato rispetto dei termini previsti dal citato art. 4 quando, invece, come si vedrà nell’esame del motivo che segue, la censura deve essere specifica in relazione al termine che si assume asseritamente violato;
che il secondo motivo è, invece, fondato: la Corte territoriale, relativamente alla comunicazione all’Ufficio Regionale del Lavoro dell’elenco dei lavoratori licenziati, ha affermato che l’eccepita violazione del termine di sette giorni previsto dall’art. 4 comma 9 legge n. 223 del 1991 era priva di pregio laddove si verteva in ipotesi di cessazione dell’attività datoriale e del conseguentemente licenziamento di tutto il personale non determinando la eventuale inosservanza la possibilità di una concreta ripresa dell’attività lavorativa.
Tale assunto contrasta con il principio di legittimità (cfr. Cass. 22.11.2016 n. 23736) cui si intende dare seguito, secondo il quale, invece, in ipotesi di licenziamento collettivo per cessazione di attività, la violazione del termine di sette giorni per le comunicazioni di cui all’art. 4 comma 9 della legge n. 223/1991 introdotto dall’art. 1 comma 44 della legge n. 92 del 2012, determina l’illegittimità del licenziamento e la sanzione del pagamento dell’indennità risarcitoria, per effetto dell’espresso richiamo dell’art. 24 della predetta legge all’art. 4 citato, operato al fine di consentire il controllo sindacale sull’effettività della scelta datoriale. L’assimilazione della cessazione di attività, infatti, alle ipotesi di licenziamento collettivo per “riduzione o trasformazione di attività o di lavoro” è coerente con quanto emergeva dai lavori preparatori della legge (atteso che il testo approvato dal Senato conteneva l’espressa previsione della inapplicabilità della normativa in esame alle ipotesi di cessazione dell’attività di impresa per provvedimento dell’Autorità giudiziaria”, ma questa limitazione venne poi soppressa nel testo approvato dalla Camera dei Deputati). Va, poi, anche sottolineato che la cessazione dell’attività è inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell’impresa sull’occupazione (cfr. Corte Costituzionale sent. n. 6 del 1999);
che, pertanto, il secondo motivo deve essere accolto, rigettato il primo e assorbita la trattazione degli altri, e la sentenza va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione che, alla stregua del suddetto principio, dovrà procedere ad un nuovo esame, mediante anche un accertamento in
fatto, precluso in questa sede, onde verificare se effettivamente la comunicazione sia stata (quando e in che modo) inviata al competente Ufficio, provvedendo anche sulla determinazione delle spese di lite del presente giudizio di legittimità.)
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo, rigettato il primo e assorbiti gli altri; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Palermo in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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