CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 maggio 2018, n. 10686
Tributi – IRPEF – Redditi di impresa – Determinazione del reddito – Detrazioni – Accantonamenti – Rischi su crediti – Perdite su crediti e svalutazioni di crediti
Ritenuto in fatto
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti della Cassa di Risparmio di Bra, che resiste con controricorso, avverso la sentenza della Commissione tributaria del Piemonte (in seguito: CTR), indicata in epigrafe, che, per quanto ancora rileva, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva annullato l’avviso di accertamento avente ad oggetto il recupero a tassazione, per il periodo d’imposta 2005, ai fini IRES e IRAP, delle svalutazioni integrali dei crediti in sofferenza, quali poste indeducibili a giudizio dell’Amministrazione finanziaria, oltre alle sanzioni.
Il giudice d’appello ha ritenuto che la Cassa di Risparmio di Bra abbia legittimamente iscritto i crediti a conto economico, svalutandoli integralmente, senza invece imputarli a perdite su crediti, sul presupposto di una loro probabile, ma non ancora certa e definitiva, inesigibilità.
Considerato in diritto
1. Primo motivo del ricorso: «Errata e falsa applicazione degli artt. 106, commi 3 e 5, e 101, comma 5, del TUIR; dell’art. 20, comma 4 e 5, D.Lgs. 87/92; degli artt. 2423 e 2426 del c.c.(art. 360, comma 3, c.p.c.)».
L’Ufficio, dopo essersi soffermato sulla disciplina relativa alle iscrizioni a bilancio delle «svalutazioni dei crediti» e delle «perdite sui crediti», dettata delle norme che precedono, dà conto della diversa deducibilità fiscale delle due voci (svalutazioni e perdite su crediti) e afferma che la svalutazione deve essere collegata all’eventualità del recupero (anche parziale) del credito e che, viceversa, se il credito viene iscritto in bilancio per un valore di realizzo pari a zero, ciò significa che la Banca reputa che esso non sia recuperabile, sicché dovrebbe essere imputato a perdita.
Tanto premesso, l’Amministrazione finanziaria critica la sentenza impugnata che, muovendo dall’erroneo presupposto che si ha perdita sul credito quando la sua irrecuperabilità sia valutata in termini di certezza, ossia in caso d’inesigibilità definitiva, mentre la svalutazione presuppone il rischio di futura inesigibilità, ha affermato che: «il giudice di primo grado abbia ben colto l’esigenza di distinguere la svalutazione di crediti dalla perdita su credito, escludendo la rilevanza di qualsiasi criterio quantitativo, ma valorizzando il processo valutativo estimativo che ha portato i redattori del bilancio a ritenere l’inesigibilità, quindi la rettifica di un credito, ragionevolmente prevedibile, ma non ancora definitiva» (cfr. pag. 11 del ricorso e pag. 5 della sentenza).
A giudizio dell’Amministrazione finanziaria, invece, la normativa fiscale individua le condizioni (consistenti, nella sua ottica, in «elementi certi e precisi; procedure concorsuali») in presenza delle quali la perdita su credito è deducibile; ove queste condizioni non si realizzino, la perdita, pur sussistente, non è deducibile, senza che la relativa posta sia imputabile come «credito svalutato» (cfr. pag. 12 del ricorso).
Al contempo, la distinzione tra la nozione di svalutazione e quella di perdita che si trae dalla sentenza impugnata sarebbe viziata da errore di diritto, laddove il criterio quantitativo (attinente alla percentuale di svalutazione) recede dinanzi alla mera valorizzazione del parametro valutativo-estimativo.
Secondo la prospettazione difensiva dell’Ufficio, invece, l’espressa menzione, nell’art. 106, comma 3, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), vigente ratione temporis, della «svalutazione dei crediti risultanti in bilancio», comporta, necessariamente, che i crediti siano esistenti e che conservino un apprezzabile valore economico; evenienza, questa, che, senza dubbio, non si verifica in caso di loro integrale svalutazione (al 100%).
In conclusione, la ricorrente si duole che la sentenza impugnata non abbia considerato che la Cassa di Risparmio di Bra, appostando come svalutazione quella che, se correttamente inquadrata sul piano contabile, era in realtà una perdita, ha ricevuto un indebito vantaggio fiscale (inteso come risparmio d’imposta) consistente nella deducibilità integrale del credito senza ripercussioni sul fondo rischio generico e senza dovere fornire la prova, a tale scopo richiesta dall’art. 101, comma 5, TUIR, dell’esistenza di elementi certi e precisi comprovanti la perdita.
1.1. Il motivo è infondato.
Occorre brevemente delineare il quadro normativo di riferimento.
Ai sensi del codice civile la redazione del bilancio delle società di capitali deve rispondere ai criteri di chiarezza, veridicità e correttezza (art. 2423, comma 2, cod. civ.) e, in particolare, i crediti devono essere iscritti secondo il valore presumibile di realizzazione (art. 2426 n. 8 cod. civ.); norma sostanzialmente identica a quest’ultima è l’art. 20, comma 4, d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, che disciplina la contabilità delle banche e degli altri istituti finanziari.
In base all’art. 101, comma 5, TUIR, le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi; infine, l’art. 106 TUIR detta le regole per le svalutazioni dei crediti e gli accantonamenti per rischi su crediti.
Tanto premesso in termini generali, appare conforme ai surrichiamati principi lato sensu contabili l’asserzione della sentenza impugnata secondo cui è legittima l’imputazione a conto economico dei crediti integralmente svalutati che, prescindendo dal criterio quantitativo (in quanto, nella specie, la svalutazione dei crediti è del 100%, sicché essi sono iscritti in bilancio con valore pari a zero), poggi (esclusivamente) sulla riconosciuta sussistenza del rischio d’inesigibilità «ragionevolmente prevedibile», ma «non ancora definitiva».
A conclusione di un’analisi valutativo-estimativa – cui sono tenuti, in ogni caso, gli amministratori della società e che, in relazione alle perdite su crediti, come suaccennato, deve essere ancorata ad elementi certi e precisi
– nell’ottica della corretta redazione del bilancio e della legittima deducibilità delle due differenti poste, l’esatto discrimine tra «perdite sui crediti» e «svalutazioni dei crediti» è segnato dalla definitività del venire meno della voce: si ha perdita del credito quando esso è divenuto (alla stregua di un giudizio prognostico) definitivamente inesigibile; la svalutazione, totale o parziale, del credito, invece, ne presuppone una perdita (solo) potenziale, probabile, ma non (ancora) certa e definitiva.
Non è persuasiva l’obiezione dell’Ufficio secondo cui l’integrale svalutazione del credito dovrebbe determinare lo stralcio della posta dal bilancio (ossia la sua cancellazione, come avviene, invece, per le perdite sui crediti), poiché, in tale caso, il credito non è venuto meno né dal punto di vista giuridico – in quanto la pretesa creditoria può essere fatta valere nei confronti del debitore inadempiente – né dal punto di vista economico.
Il credito conserva un proprio valore, non è definitivamente perso, è suscettibile di «ripresa di valore», per rivalutazione e per incasso, e può ancora essere soddisfatto tramite una procedura di recupero coattivo (nella specie, una parte dei crediti, già integralmente svalutati, è stata poi incassata).
La sentenza d’appello fa buon governo del parametro della definitività o meno della perdita, quale presupposto della corretta imputazione dei crediti nel senso sopra indicato, e, per di più, si premura di sottolineare l’irrilevanza del «criterio quantitativo», quale asserito (da parte dell’Amministrazione erariale) discrimen delle due diverse voci contabili a confronto, rimarcando, opportunamente, che, in assenza di elementi chiari e precisi da cui inferire la definitiva inesigibilità del credito, è ben possibile e rispettoso dei principi di diritto civile, tributario, nonché corretto, sul piano contabile, che esso venga anche integralmente svalutato.
Ne esce, in tal modo, ben tratteggiata la peculiare natura dei due eventi contabili, ossia il carattere temporaneo della svalutazione del credito e la (tendenziale) definitività ed assolutezza della perdita su crediti.
Così delineata la diversa fisionomia dei due istituti della svalutazione (o rettifica di valore) dei crediti e della perdita su crediti, in conclusione, non è convincente nemmeno la tesi dell’Ufficio in virtù della quale, sul piano tributario, la svalutazione (assertivamente illegittima) dei crediti avrebbe comportato un indebito vantaggio fiscale per la contribuente che, in tal modo, avrebbe eluso il limite di deducibilità delle perdite, sancito dall’art. 106, comma 5, TUIR.
È il caso di ricordare che gli artt. 101, comma 5, 106, commi 3 e 5, TUIR, nel disciplinare la rilevanza contabile dei surrichiamati componenti negativi del reddito, configurano un sistema coordinato di deduzioni, che mira ad evitare il rischio che il contribuente fruisca sine titulo di una doppia deduzione di un medesimo componente (il credito).
Con riferimento al caso in esame, una svalutazione integrale del credito non determina l’elusione delle prescrizioni sulla deducibilità di quel componente attivo, perché – in disparte l’ipotesi (pur astrattamente possibile) di una sua successiva ripresa di valore, capace di generare maggiore reddito – se il credito, integralmente svalutato, in progresso di tempo venisse definitivamente perso, non si avrebbe alcuna corrispondente deduzione per essere già stata contabilizzata, negli esercizi precedenti, la rettifica del suo valore.
Viceversa, l’iscrizione della perdita sul credito, non preventivamente svalutato (soluzione contabile, qui disattesa, che, come suaccennato, a parere dell’Ufficio, sarebbe stata corretta), avrebbe assunto rilevanza fiscale, perché la stessa perdita deducibile sarebbe stata determinata, ai sensi dell’art. 106, comma 5, cit., con riferimento al valore di bilancio del credito (non svalutato in precedenza).
2. Secondo motivo: «Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza nella parte in cui distingue l’ambito applicativo delle svalutazioni crediti dalle perdite su crediti (art. 360, comma 5, c.p.c.).».
L’Ufficio denuncia il vizio di motivazione della sentenza impugnata che, da un lato, sembra affermare che la svalutazione del credito si riferisce ad una situazione non definitiva e, dall’altro, contraddittoriamente, sostiene che essa presuppone una situazione definitiva.
Obietta, infine, che la CTR ha fondato la propria decisione sul presupposto della definitiva inesigibilità delle perdite sui crediti, salvo poi, ancor una volta, contraddittoriamente rappresentare tale definitività non già come l’espressione di elementi certi ed incontrovertibili, ma come l’effetto e la conseguenza di una valutazione.
2.1. Il motivo è infondato.
Non si ravvisa alcun vizio nel percorso logico-giuridico seguito dalla CTR per la soluzione della questione controversa che, come già accennato, è stata correttamente decisa valorizzando il requisito della sussistenza o meno della definitività della perdita del credito che – preme rammentarlo – non è un fatto, un evento naturalistico, ma è l’effetto di una prognosi, è una valutazione (sostenuta da elementi più o meno certi e precisi), rimessa all’organo amministrativo della banca, in punto di inesigibilità del credito e di insolvenza del debitore.
3. Ne consegue il rigetto del ricorso.
4. È congruo compensare, tra le parti, le spese del giudizio di legittimità, per la novità dell’argomento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
compensa, tra le parti, le spese del giudizio di legittimità.
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