CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 marzo 2020, n. 6030
Tributi – Bonus occupazionale ex art. 2, co. 539-548, L. n. 244 del 2007 – Comunicazione – Scarto per superamento dell’ammontare – Istanza di riesame in autotutela – Diniego – Impugnabilità – Esclusione
Ritenuto che
La società ricorrente presentava istanza, in via telematica di attribuzione del credito di imposta per gli anni 2008-2010, ai sensi degli artt. 2, commi 539-547 della legge 244 del 2007; successivamente la società inoltrava nuova comunicazione per la concessione del credito d’imposta per l’anno 2009; tale seconda comunicazione, tuttavia, veniva scartata dal sistema in quanto l’ammontare del credito richiesto risultava superiore a quello maturato.
La società presentava, quindi, un’istanza di autotutela nella quale richiedeva il riesame della comunicazione scartata dal sistema, che l’Ufficio riteneva improcedibile perché trasmessa in modo erroneo e non conforme alla procedura telematica. Avverso la risposta d’improcedibilità, la società ricorreva innanzi alla CTP di Pescara che dichiarava improcedibile il ricorso in quanto l’atto impugnato non rientrava tra quelli previsti dall’art. 19 c. 1 del d.lgs n. 546 del 1992, nonché perché comunque era decorso il termine di sessanta giorni per impugnare.
La Società Interponeva appello che veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale con la sentenza di cui in epigrafe.
Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione la Società, affidato quattro motivi.
L’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso.
La ricorrente, a ridosso dell’udienza camerale, ha presentato memorie ex art. 380 bis, comma 2, cod. proc. civ., nelle quali ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Il PG ha presentato conclusioni scritte con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato che
Con il primo motivo di ricorso, la società assume la nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 e 5, nella parte in cui la sentenza impugnata mentre in motivazione dà atto dell’accoglimento dell’appello, decide, poi, per il rigetto dello stesso.
Col secondo motivo, la Società assume la violazione e falsa applicazione dell’art. 19, lett. g) e h) del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3, per aver i secondi giudici ritenuto che il diniego di autotutela non può essere oggetto d’impugnazione, contravvenendo anche gli esiti della giurisprudenza di legittimità sul punto (richiama Cass. n. 23765 del 2015) che è orientata per un’interpretazione più favorevole al contribuente e, quindi, per l’autonoma impugnabilità di atti che incidano sul rapporto tributario; evidenzia, altresì, che non ha impugnato la ricevuta di scarto, ma il diniego di autotutela quale atto recante la manifestazione di volontà autoritativa della Amministrazione finanziaria.
Col terzo motivo la società assume la violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 2, commi 539-548, I. 24.12.2007 n. 244 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, deducendo che poiché l’istanza di attribuzione del credito doveva essere inoltrata utilizzando il modello messo a disposizione dall’Ufficio (mod. IAL) e poiché era stato lo stesso software gestionale a determinare l’errore (in quanto in automatico avrebbe erroneamente riportato al quadro B13 un credito maggiore a quello dovuto per le annualità 2009-2010), il diniego era illegittimo perché non si può determinare la perdita di un credito già riconosciuto in presenza di tutti gli altri requisiti di legge, violandosi la tutela dell’affidamento e della buona fede.
Col quarto motivo assume la violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, in quanto l’errore materiale nella comunicazione dell’importo per il bonus occupazionale per gli anni 2009-2010 è stato determinato dalla condotta in malafade dell’Amministrazione finanziaria la quale ha imposto l’utilizzo di un software gestionale del tutto inidoneo ad espletare l’attività procedimentale; deduce che tale errore non può incidere, revocandolo, sul diritto quesito dell’agevolazione fiscale soprattutto in quanto, nella specie, non si è verificata alcuna causa di decadenza del credito d’imposta.
In fatto, deduce che:
– con comunicazione delle COP di Pescara dell’08/08/2008 era stata ammessa a fruire di un credito d’imposta per il 2008/2010, ai sensi dell’articolo 2 della legge n. 244 del 2007;
– il 03/03/2010 inoltrava al COP la comunicazione annuale attestante il numero dei lavoratori in forza e quindi il diritto al minor credito d’imposta per gli anni 2009-2010, rispetto quello già riconosciuto con la comunicazione dell’8/8/2008;
– In data 1 aprile 2010 il COP comunicava che la comunicazione telematica della società contribuente (bonus assunzioni) era stata scartata dal sistema operativo perchè recava un errore materiale riportando al quadro B13 un diverso credito d’imposta (euro 573.146,00 che, invece, rappresentava il minor credito spettante per le annualità 2009-1010, in luogo della somma di euro 341.389,00);
– Il 15/11/2010 aveva presentato istanza di autotutela per annullamento del provvedimento di scarto sul rilievo che l’errore era stato indotto dal mancato aggiornamento dei dati di compilazione e quindi dal software gestionale, istanza rigettata con provvedimento del COP in data 28/12/2010.
Il ricorso è infondato per le ragioni qui di seguito esposte. L’infondatezza del primo motivo si palesa in base agli esiti della giurisprudenza sulla questione, secondo cui «il contrasto tra formulazione letterale del dispositivo e motivazione che non incida sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali a rendere conoscibile il contenuto della statuizione, non integra un vizio attinente al contenuto concettuale e sostanziale della decisione, bensì un errore materiale emendabile con la procedura prevista dall’art. 287 c.p.c. (applicabile anche nel procedimento dinanzi alle commissioni tributarie), e non denunciabile con l’impugnazione della sentenza» (cfr. ex plurimis Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 22433 del 26/09/2017, Rv. 646132-01; Sez. 1, Sentenza n. 12846 del 14/05/2019, Rv. 654247-01; n. 16488 del 2006, Rv. 592030-01).
Nella specie, dalla complessiva lettura della motivazione della sentenza si evincono chiaramente le ragioni del rigetto dell’appello, ragioni che danno conto della coerenza del percorso motivazionale nonché della concordanza tra loro e la statuizione di rigetto, costituendo la dicitura dell’inizio dell’ultimo capoverso della sentenza (v. pag. 4) in cui è scritto “consegue l’accoglimento dell’appello”, evidente frutto univoco di errore materiale (probabilmente un refuso dovuto alla scritturazione meccanografica).
Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il provvedimento di diniego di annullamento in autotutela non è un atto impugnabile non essendo riconducibile ad alcuno degli atti di cui all’art. 19 d.lgs. 31/12/1992 n. 546.
Da tempo questa Corte afferma che l’atto con il quale l’Amministrazione manifesti il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo, non rientra nella previsione di cui all’ art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e non è quindi impugnabile, sia per la discrezionalità da cui l’attività di autotutela è connotata in questo caso, sia perché, altrimenti, si darebbe ingresso ad una inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo. (Sez. U, Sentenza n. 3698 del 16/02/2009, Rv. 606565); inoltre secondo Cass. Sez. U. n. 2870 del 6/2/2009 «avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è sicuramente esperibile una autonoma tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria, in questo caso, dell’attività di autotutela, sia perché, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo».
Più recentemente, a conferma di tali principi, è stato evidenziato che «il sindacato sull’atto di diniego dell’Amministrazione di procedere ad annullamento del provvedimento impositivo in sede di autotutela può riguardare soltanto eventuali profili d’illegittimità del rifiuto, in relazione a ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, che, come affermato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 181 del 2017, si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali e non costituisce uno strumento di tutela dei diritti individuali del contribuente» (cfr. Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 21146 del 24/08/2018, Rv. 650057-01; n. 7616 del 2018 Rv. 647518-01).
La pronuncia di Corte costituzionale innanzi citata avvalora il convincimento della non impugnabilità del diniego; essa ha rigettato l’eccezione d’illegittimità costituzionale dell’art. 2 quater, primo comma, del d.l. n. 564 del 1994, convertito nella legge n. 656 del 1994, nella parte in cui non prevede l’obbligo dell’Amministrazione tributaria di provvedere sulle istanze di annullamento in autotutela, con conseguente inoppugnabilità del silenzio rifiuto, osservando, tra l’altro, che «affermare il dovere dell’amministrazione di rispondere all’istanza di autotutela significherebbe, in altri termini, creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, per giunta azionabile sine die dall’interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo e della correlata stabilità della regolazione del rapporto che ne costituisce oggetto».
In conclusione, il diniego espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo (Cass. Civ., 28 marzo 2018, n. 7616).
I motivi terzo e quarto sono inammissibili per difetto di specificità, non risultando alcuna corrispondenza tra la motivazione della sentenza, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, e l’argomentazione di merito della società ricorrente di avere diritto al credito di imposta; d’altro canto entrambi i motivi hanno per oggetto il diverso provvedimento “di scarto” della richiesta di attribuzione di credito di imposta, atto non impugnato dalla contribuente e non oggetto della sentenza impugnata.
II ricorso va dunque integralmente rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, in ragione della soccombenza, vanno poste a carico della società ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2012 (ndr art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002), dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Amministrazione Finanziaria che liquida in complessivi euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2012, la ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.