CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 novembre 2019, n. 28290
Sussistenza di un rapporto di lavoro – Prova del maggiore orario prestato – Dimissioni orali della lavoratrice
Rilevato
che la Corte di appello di Roma, con sentenza del 19.11.2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma n. 16524/2012, con la quale, pure essendo accertata l’esistenza del rapporto di lavoro di A.Z. alle dipendenze di C. s.r.I., con decorrenza dal 18.1.10 anteriore alla stipulazione del contratto part-time del 17.3.10, era stata – tuttavia – respinta la domanda volta ad ottenere la condanna al pagamento di differenze retributive conseguenti al riconoscimento di una qualifica superiore, dello svolgimento di un maggior orario lavorativo rispetto al contrattuale, nonché la domanda di accertamento della nullità del licenziamento intimato con reintegrazione nel posto di lavoro;
che a fondamento del decisum, per quanto qui rileva, la Corte territoriale, sul rilievo che la parte non avesse formulato censure specifiche relative al livello di inquadramento (il V, anziché al IV livello richiesto) e che solo in appello avesse chiarito di aver fatto riferimento per errore all’inquadramento al terzo livello, aveva rigettato la relativa domanda, ritenuta infondata sulla base dell’esame delle declaratorie;
aveva – altresì – la corte ritenuto che non fosse stata fornita, dalla lavoratrice, la prova del maggiore orario prestato, a fronte della stipula di contatto scritto part-time di 15 ore settimanali; infine la corte aveva escluso la nullità del licenziamento poiché, in primo grado, era stata ritenuta fornita la prova delle dimissioni, contestata solo in appello con una argomentazione nuova (ossia che la necessità della forma scritta scaturisse dal CCNL, neppure prodotto), argomentando a favore della conclusione che la lavoratrice si dimise, dalla circostanza che mai ella propose l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, e che neppure offrì le proprie prestazioni di lavoro;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la Z., affidato a due motivi;
che C. s.r.l. ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte
Considerato
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1.- il vizio di violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, in relazione agli artt. 1350, 2735 c.c., 416, 115 c.p.c., 2697, 2721 – 2725, 1325, 2907 c.c., ritenendo che la lavoratrice avrebbe dovuto fornire la prova dell’orario di lavoro, nonostante il tribunale, con capo di sentenza passata in giudicato, avesse accertato l’inizio del rapporto di lavoro in epoca anteriore a quella di sottoscrizione dei contratti di lavoro a tempo determinato, che quindi sarebbero stati implicitamente dichiarati nulli anche con riferimento all’orario part-time che recavano; avrebbe errato, ancora la corte, secondo la ricorrente, nell’applicare non correttamente il principio di non contestazione in ordine agli orari svolti, anche alla luce delle dichiarazioni rese dai testi, da cui si desumevano orari di lavoro incompatibili con quelli indicati dalla C.;
2. – il vizio di violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, in relazione agli artt. 1350, 2735 c.c., 416, 115 c.p.c., 2697, 2721 – 2725, 160, 163 del CCNL Turismo, 1372 c.c., 2 l. 604/66, escludendo erroneamente il licenziamento orale, per ravvisare le dimissioni orali della lavoratrice, sulla base di una non corretta valutazione delle dichiarazioni testi (come si evincerebbe dall’equivoco circa la teste D.F. le cui dichiarazioni furono erroneamente attribuite dalla corte ad un inesistente teste A. o B.); avrebbe errato, altresì, la corte, nel ritenere non prodotto il CCNL rilevante quanto alla forma delle dimissioni e nel ritenere la contestazione circa la forma delle dimissioni un tema nuovo proposto per la prima volta in appello, nonostante la società in primo grado non avesse contestato tale omessa produzione e dal contratto individuale emergessero le norme del CCNL rilevanti;
che il ricorso deve essere rigettato;
che il primo motivo è infondato; dalla mera lettura della sentenza di appello si evince la non corretta deduzione della critica, che nel prospettare genericamente come l’accertamento svolto dal Tribunale di un anteriore rapporto di lavoro a tempo indeterminato (decorrente dal 18.1.10) avrebbe travolto non meglio specificati “contratti a tempo determinato”, non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, che valorizza la sottoscrizione tra le parti di un contratto part time in data 17.3.10; la corte di appello, in particolare, dopo aver richiamato i corretti principi secondo i quali il rapporto di lavoro subordinato (in assenza della prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto) si presume a tempo pieno ed è onere del datore di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della prestazione lavorativa (Cass. 18.3.04, n. 5518), ha, infatti, evidenziato la esistenza di un contratto part-time tra le parti, contenente una rinnovata manifestazione di volontà integrante una novazione oggettiva dell’intesa negoziale (eventualmente) inizialmente concordata, di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale: e ciò tanto ai sensi dell’art. 5 d.l. 30.10.84, n. 726 conv. in I. 863/84 (Cass. 11.12.14, n. 26109), quanto conformemente alla disciplina dettata dal d.lgs. 61/00 (Cass. 6.12.16, n. 25006; Cass. 19.1.18, n. 1375);
– che, in ogni caso, avendo la censura ad oggetto una contestazione, pure generica, dell’apprezzamento di merito operato (già dal Tribunale e condiviso) dalla Corte territoriale, con argomentazione corretta e congrua (dal 3° cpv di p. 3 al 1° di p. 4 della sentenza), la stessa appare insindacabile in sede di legittimità, sicché il vizio denunciato non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme di legge, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, il che nel caso di specie non emerge dalla formulazione del motivo (cfr. ex multis Cass. 23940 del 2017) – che il secondo motivo è inammissibile, poiché, a fronte dell’accertamento di fatto svolto dal Tribunale, in ordine alla prova delle dimissioni della lavoratrice, condiviso motivatamente dalla Corte territoriale (cfr. p. 4 della sentenza impugnata), la doglianza appare in concreto dedurre un vizio di motivazione, formulando mera confutazione della valutazione probatoria, in assenza di alcuna violazione di legge denunciata e risultando il vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., non deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (v. Cass. n. 23021 del 2014);
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità;
che l’attuale condizione della ricorrente di ammessa al patrocinio a spese dello Stato (con delibera del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma del 17.4.2015) esclude, allo stato, la sussistenza dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dall’art. 13, comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012 (Cass. 15 ottobre 2015, n. 20920; Cass. 2 settembre 2014, n. 18523);
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della non sussistenza allo stato dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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