CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 novembre 2021, n. 31816
Tributi – IVA – Frode carosello – Importazione intracomunitaria di autoveicoli per il tramite di società “cartiere”
Fatti di causa
La contribuente ha impugnato per cassazione la sentenza della CTR che ha accolto l’appello erariale avverso la sentenza di primo grado che, viceversa, in accoglimento del ricorso della B. aveva annullato l’avviso di accertamento mediante il quale l’Ufficio, previo p.v.c. della Guardia di Finanza, aveva contestato alla società, esercente la attività di commercio di autoveicoli, per l’anno 2007, ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, un maggior reddito di impresa per indebita deduzione di costi e detrazione di IVA in relazione ad operazioni ritenute soggettivamente inesistenti relative all’importazione intracomunitaria di autoveicoli per il tramite di società “cartiere” fittiziamente interposte all’effettivo cedente comunitario.
Il ricorso della contribuente è affidato ad un solo motivo. Resiste con controricorso la contribuente.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di ricorso la contribuente deduce la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729, 2909 c.c., 19 e 54 d.P.R. n. 633 del 1972, 17 Dir. n. 77/388/CE e 167 Dir. 2006/112/CE, per avere la CTR erroneamente ascritto alla contribuente la consapevolezza della frode perpetrata da altre società. Il motivo è infondato posto.
Questa Corte ha incisivamente affermato che “In tema di IVA, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass. n. 27566 del 2018; Cass. n. 9851 del 2018).
Su queste premesse, se l’Amministrazione è naturalmente tenuta a provare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione IVA, senza che sia necessaria la prova della partecipazione all’evasione (v. Corte Giust. Bonik, C-285/11; Corte Giust, Ppuh, C277/14), è anche vero che detta prova ben può essere somministrata attraverso indizi, idonei ad integrare una presunzione semplice, come prevede per l’IVA l’art. 54, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972 (v. Cass. n. 14237 del 2017; Cass. n. 20059 del 2014; Cass. n. 10414 del 2011; Corte Giust. Kittel, C-439/04; Corte Giust. Mahagèben e David, C-80/11 e C-142/11). In altri termini, l‘onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario può senz’altro incentrarsi nella individuazione, a cura dell’Amministrazione, di elementi obbiettivi e specifici in ordine al fatto che la contribuente-cessionaria dei beni o dei diritti conoscesse o avrebbe dovuto conoscere, secondo ì criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, e tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione, che la realtà documentalmente espressa non corrispondeva a quella effettiva (Cass. n. 15369 del 2020; Cass. n. 24490 del 2015). Una volta che l’Amministrazione abbia fornito elementi oggettivi sul fatto che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente, passa al contribuente medesimo l’onere di fornire la prova contraria (Cass. n. 23560 del 2012; Cass. n. 25575 del 2014).
La CTR si è attenuta ai riassunti principi.
Invero, ha puntualmente richiamato la giurisprudenza in tema e valorizzato in concreto alcuni convergenti elementi indiziari in punto di conoscibilità della frode: il rinvenimento di una fattura emessa dalla B. per spese relative a servizi di ricerca, analisi di veicoli nel campo del settore auto in acquisto (Germania, Austria e Belgio); la circostanza che le auto acquistate venivano trasportate direttamente dal venditore estero alla sede della B., saltando il passaggio intermedio del fornitore italiano; la circostanza che a fronte di analisi di mercato minuziosamente svolte la B. sia incappata in ben quattro società “cartiere”, tutte con sede in piccoli centri del Sud Italia e con modalità operative identiche; la circostanza che la S.A. non disponesse si struttura propria, né di uffici, né di depositi, né di garage, né di contabilità; la circostanza che la cassetta postale fosse stracolma di corrispondenza a testimonianza di una adibizione del locale a mero recapito postale.
Il ricorso va, in definitiva, rigettato. Le spese del giudizio sono regolate dalla soccombenza nella misura espressa in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.600,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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