CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 ottobre 2018, n. 24407
Licenziamento – Qualifica di dirigente – Per ragioni disciplinari – Prelievi dalla cassa aziendale in acconto sullo stipendio mensile – Reiterazione della condotta
Rilevato
che con sentenza del 16 giugno – 22 settembre 2016 numero 847 la Corte d’Appello di Milano confermava, per quanto ancora in causa, la sentenza del Tribunale della stessa sede, che aveva accolto la domanda proposta da M.F., dipendente di L.I. srl con qualifica di dirigente, per la dichiarazione di ingiustificatezza del licenziamento intimatole in data 25 gennaio 2013 per ragioni disciplinari, per avere reiteratamente e senza autorizzazione effettuato prelievi dalla cassa aziendale in acconto sul proprio stipendio mensile;
che la Corte territoriale, al pari del giudice del primo grado, attribuiva valenza decisiva alle dichiarazioni del teste E.P., gestore della azienda, che aveva confermato l’assunto della lavoratrice, affermando che ella era stata autorizzata ad eseguire in autonomia anticipi ai dipendenti con prelievo dalla cassa aziendale. Riteneva che tali dichiarazioni non fossero superate dalla testimonianza resa da A.C., dipendente della società L. e successivamente componente del Consiglio di Amministrazione, in quanto il P. aveva continuato a gestire l’azienda fino all’ anno 2007 e nella sua posizione apicale aveva confermato l’autorizzazione agli anticipi conferita alla F. ed aveva precisato, anzi, di avere svolto controlli senza riscontrare alcuna irregolarità;
che avverso la sentenza ha proposto ricorso la società L.I. srl, articolato in un unico motivo, cui ha opposto difese M.F. con controricorso;
che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’articolo 380 bis cod.proc.civ.; che la ricorrente ha depositato memoria.
Considerato
che con l’unico motivo la società ricorrente ha dedotto omessa valutazione di fatti provati dai documenti prodotti in causa ed aventi rilievo decisivo nella valutazione di attendibilità del teste A.C. su una circostanza determinante.
Ha esposto che tanto il Tribunale che il giudice dell’appello avevano ritenuto non provata la revoca della autorizzazione ad erogare anticipi sulle retribuzioni concessa alla F., considerando inattendibile la testimonianza sul punto di A.C.. Ciò per avere erroneamente ritenuto essere responsabile aziendale fino all’anno 2008 il teste E.P.
Le deposizioni dei due testi erano in contraddizione soltanto apparente, in quanto essi riferivano di momenti temporalmente diversi della gestione della società: il teste P., in particolare, riferiva del periodo anteriore all’anno 2000 giacché nel periodo dal 2000 al 2007 egli aveva svolto le funzioni di Presidente del Consiglio di Amministrazione ma di fatto non si era occupato della amministrazione, conferita ai consiglieri Ettore ed A.C.. Tanto risultava dai verbali del Consiglio di Amministrazione di L.I. del 3.1.2000 (con il quale ad A.C. era affidata la responsabilità dell’area amministrativa e commerciale) e del 25.7.2007 (nel quale si dava atto che i fratelli C. di fatto amministravano la società in forza delle deleghe ricevute). Con il ricorso in appello era stata prodotta ulteriore documentazione dell’assenza operativa del P. a partire dall’anno 2000 (verbali del consiglio di amministrazione dell’ 8 novembre 2001 e del 18 febbraio 2003). Alla luce di tali emergenze la dichiarazione di A.C. in ordine alla revoca dell’autorizzazione non era in contraddizione con quella del P., che aveva riferito di un periodo diverso ed anteriore.
Il Tribunale aveva erroneamente valutato l’attendibilità delle dichiarazioni di A.C. alla luce del rapporto parentale con l’amministratore in carica E.C.; tra i fratelli vi era, invece, nei fatti un rapporto conflittuale, come emergente dal verbale del 25 luglio 2007. Né era plausibile l’interpretazione data dal Tribunale alla telefonata del 22 gennaio 2013 tra A.C. ed il P., nella quale il primo chiedeva spiegazioni al P. sulla autorizzazione; il Tribunale non aveva invece dato rilievo alle dichiarazioni del teste A.C. in ordine alle pressioni ricevute dal marito della dirigente, pur avendo sentito quest’ultimo come teste.
Andava inoltre considerato che mentre gli acconti per i dipendenti avvenivano mediante bonifico bancario (previa autorizzazione, di A.C. fino al 2007 e di E.C. dall’anno 2008) la F. aveva spesso provveduto per se stessa in contanti, evidentemente per rendere meno tracciabile il prelievo; la registrazione in prima nota, che non era nominativa, non avrebbe consentito, infatti, all’amministratore alcun controllo.
che ritiene il Collegio si debba dichiarare la inammissibilità del ricorso;
che dalla stessa esposizione del motivo risulta che il ricorso è diretto ad una rivalutazione del giudizio di merito espresso in sentenza all’esito della valutazione di attendibilità dei testi e della selezione degli elementi probatori ai fini dell’accertamento del fatto addebitato alla F.; l’accertamento del fatto storico è contestabile in questa sede di legittimità unicamente con la deduzione di un vizio della motivazione, nei termini segnati dal vigente articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ..
Nella fattispecie in causa, tuttavia, la stessa deducibilità del vizio di motivazione è in limine preclusa dall’articolo 348 ter, commi 4 e 5, cod.proc.civ., applicabile ratione temporis, in quanto nei due gradi di merito è stata resa pronuncia conforme sul fatto controverso, per le stesse ragioni. In memoria il ricorrente sostiene che la censura articolata con l’unico motivo debba qualificarsi come vizio di nullità della sentenza gravata per assenza di motivazione, ai sensi degli articoli 132 nr.4 cod.proc.civ. e 118 disp. att. cod.proc.civ. La qualificazione prospettata non si attaglia, tuttavia, ai contenuti della censura, diretta piuttosto che a stigmatizzare la assenza della motivazione, a prospettare una ricostruzione del fatto difforme da quella accolta in sentenza attraverso la valorizzazione di elementi di prova diversi da quelli posti dal giudice del merito a fondamento del suo convincimento. Né il vizio di omessa motivazione può consistere nella mancata valutazione in sentenza di tutti gli elementi di prova raccolti;
spetta, infatti, al giudice del merito la selezione delle risultanze probatorie che egli ritenga più idonee alla ricostruzione dei fatti in discussione senza alcun obbligo ex articoli 132 nr. 4 cod.proc.civ. e 118 disp. att. cod.proc.civ. di dare conto della consistenza di tutte le altre. Né ha pregio la deduzione, pure proposta in memoria, della omessa indicazione nella sentenza impugnata delle ragioni di condivisione della sentenza di primo grado: la conferma della sentenza appellata è stata ampiamente ed autonomamente argomentata dal collegio di secondo grado;
che, pertanto, la causa può essere definita, in conformità alla proposta del relatore, con ordinanza in Camera di Consiglio ex articolo 375 cod.proc.civ.;
che le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002).
della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Dichiara la inammissibilità del ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 200 per spese ed € 4.000 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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