CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 ottobre 2019, n. 24901
Socio accomandatario – Rapporto di lavoro subordinato – Accertamento – Regolarizzazione della posizione contributiva
Rilevato che
La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza resa pubblica il 7/7/2015, all’esito dello scrutinio delle complessive acquisizioni probatorie, confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva accolto le domande proposte da D. V. nei confronti della s.r.l. M. L. nonché di F. N. quale socio accomandatario della s.a.s. M. L., volte a conseguire l’accertamento della intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato e la condanna delle società al pagamento delle differenze retributive spettanti, oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva.
Avverso tale decisione la s.r.l. M. L. nonché di F. N., già socio accomandatario della s.a.s. M. L. hanno interposto ricorso per cassazione affidato a plurimi motivi ai quali resiste con controricorso la parte intimata.
Considerato che
1. Con cinque motivi i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2094, 2099, 2120, 2116, 1227 c.c.) nonché omesso – esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 comma primo nn. 3 e 5.
Si dolgono, in estrema sintesi, che la Corte di merito non abbia elaborato una retta interpretazione del quadro istruttorio delineato in prime cure, dal quale non sarebbero stati desumibili elementi idonei a qualificare in termini di subordinazione il rapporto di lavoro inter partes (primo motivo).
Prospettano l’erroneità della pronuncia di condanna al pagamento delle differenze retributive, sul rilievo che la lavoratrice aveva percepito importi cospicui e superiori a quelli spettanti, idonei a compensare le differenze rivendicate dalla lavoratrice (secondo motivo).
Criticano la condanna alla regolarizzazione della posizione previdenziale, sul1 rilievo che il rapporto fra le parti non era da qualificare come subordinato, ed argomentano che il lavoratore il cui diritto al versamento dei contributi è estinto per prescrizione, che non provi di aver chiesto invano al datore la costituzione di una rendita vitalizia ex art. 13 l. 1338/1962, concorre con la propria negligenza, a cagionare il danno ex art. 1227 c.c. (terzo motivo).
Lamentano che i giudici del gravame abbiano ritenuto non provata la corresponsione di euro 350.000,00 in favore della V., che deducono sia sostenuta dalla documentazione versata in atti (quarto motivo), censurando da ultimo la reiezione della istanza di riliquidazione delle spese determinate dal primo giudice in misura superiore ai criteri di cui al d.m. 55/44 (quinto motivo).
2. I motivi, da trattarsi congiuntamente per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono inammissibili per plurime concorrenti ragioni.
Va innanzitutto stigmatizzata la tecnica redazionale che contraddistingue i motivi, i quali recano promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge, nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica indicazione di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da … irredimibile eterogeneità” (vedi ex aliis, Cass. 6/5/2016 n.9228, Cass. 23/10/2018 n. 26874).
I motivi di impugnazione che prospettino una pluralità di questioni precedute unitariamente dalla elencazione delle norme asseritamente violate sono inammissibili in quanto, da un lato, costituiscono una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiedono un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (vedi Cass. 14/9/2016 n. 18021).
Peraltro, le critiche formulate, mediante la menzionata tecnica redazionale, mirano a pervenire ad un rinnovato apprezzamento del merito, non consentito nella presente sede di legittimità, anche alla luce dei dettami di cui all’art. 348 ter c.p.c.
L’accertamento della Corte di merito non è suscettibile di sindacato in questa sede di legittimità perché prospettato attraverso un rinnovato apprezzamento del merito ben oltre i limiti imposti dall’art. 360, co. 1, n. 5, novellato, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014, per di più in una ipotesi in cui detto vizio non è deducibile rispetto ad un appello proposto dopo la data indicata dall’art. 54, comma 2, del d.l. n. 83/2012, conv. in I. n. 134/2012, con un ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di prime cure con un fatto ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (v. Cass. 29/10/2014 n. 23021, Cass. 27/7/2017 n.18659).
Le censure si risolvono infatti in una mera critica all’apprezzamento di fatto espletato dalla corte d’appello, in conformità ad analogo esercizio ricostruttivo operato dal tribunale, in ordine alla natura subordinata del rapporto, alla spettanza delle differenze retributive e contributive, sanzionate in termini di inammissibilità ai sensi della richiamata disposizione, che può essere evitata solo mediante l’indicazione delle ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (vedi Cass. 22/12/2016 n. 26774); ipotesi questa non verificatasi nella fattispecie.
La Corte distrettuale aveva infatti condiviso l’iter motivazionale percorso dal giudice di prima istanza che aveva ravvisato nei dati probatori acquisiti in giudizio, gli elementi della eterodirezione, dell’inserimento nella struttura organizzativa aziendale, dell’osservanza di un orario di lavoro, dell’obbligo di giustificare le assenze, della sottoposizione allo jus variandi della parte datoriale, gli elementi qualificativi in termini di subordinazione del rapporto lavorativo inter partes, accertando i conseguenziali effetti derivati, in termini di decorso della prescrizione e della definizione della posizione previdenziale della lavoratrice; aveva quindi, da ultimo confermato che dell’asserito prestito di 350 milioni di lire reso in favore della lavoratrice, non era emersa alcuna prova all’esito della espletata istruttoria.
Discenda* da quanto sinora detto, che la relativa statuizione, alla stregua della richiamata disposizione, non è suscettibile di essere emendata nella presente sede di legittimità.
4. Quanto all’ultimo motivo concernente la liquidazione delle spese che si deduce siano state aumentate per la manifesta ragione della domanda della ricorrente, è da rilevare innanzitutto il difetto di specificità che lo connota, non essendo riportato il tenore della sentenza di primo grado confermata dalla Corte territoriale, che tale criticata statuizione avrebbe emanato, né il motivo di appello volto ad inficiarla, onde consentire di evitare un giudizio di inammissibilità della censura per novità, quanto alla denunciata violazione del d.m. n. 55/2014.
La Corte di merito ha infatti argomentato in ordine alla congruità delle spese liquidate in prime cure perché coerenti col valore della controversia e con l’opera professionale prestata in relazione alla complessità e pluralità delle questioni dibattute. E detta statuizione non risulta validamente censurata perché non solo affetta da irredimibile genericità, ma anche non congruente con il tessuto motivazionale che sorregge la sentenza impugnata.
Invero, la proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366, comma primo, n. 4 cod.proc.civ. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (vedi sul punto Cass. 3/8/2007 n. 17125, Cass. 18/2/11 n. 4036).
Né, sotto altro versante, può ritenersi vulnerato il principio della soccombenza, del pari invocato dalle ricorrenti a sostegno della censura.
Ed invero, questa Corte ha affermato il principio, qui condiviso, in base al quale la liquidazione delle spese processuali rientra nei poteri discrezionali del giudice del merito, potendo essere denunziate in sede di legittimità solo violazioni del criterio della soccombenza o liquidazioni che non rispettino le tariffe professionali, con obbligo, in tal caso, di indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità senza necessità di ulteriori indagini (vedi Cass. 4/7/2011 n. 14542, Cass. 21/12/2017 n. 30716). Ipotesi questa, non verificatasi nella specie, per quanto sinora detto.
5. Conclusivamente, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Consegue la condanna della società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata.
Infine si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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