CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 settembre 2018, n. 21602
Tributi – Accertamento – Fallimento – Effetti – Per il fallito – Rapporti processuali – Ricorso per cassazione proposto dal fallito
Rilevato che
1. La E.C.M. s.r.l. in fallimento, in persona del suo ex legale rappresentante, M.G., e quest’ultimo in proprio, propongono ricorso per revocazione, ex art. 395, primo comma, n. 4 e n. 5, cod. proc. civ., sulla base di due motivi, cui replica l’intimata con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata, con cui questa Corte rigettava il ricorso proposto dalla predetta società avverso la sfavorevole sentenza di appello, in tal modo confermando l’avviso di accertamento «con il quale, ai fini ai fini dell’IVA, dell’IRAP e dell’IRPEG per il periodo d’imposta 2004, venivano contestati ricavi non contabilizzati per euro 9.302.218 ed acquisti senza fattura per curo 359.847, sulla base di una verifica della Guardia di finanza, conclusasi il 30 giugno 2006, nel corso della quale era stata rinvenuta documentazione extra contabile, consistente in undici registri intestati “scadenziari attivi” e riportanti annotazioni di assegni bancari e cambiali ricevuti dalla contribuente».
2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale i ricorrenti hanno depositato memorie.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano «un errore di percezione degli atti e dei documenti della causa presenti nel fascicolo di ufficio e nel testo degli scritti ricorsuali», rilevanti ai fini del riconoscimento dei «costi correlati ai presunti ricavi ripresi a tassazione» oggetto dell’ottavo motivo di ricorso per cassazione proposto nel giudizio conclusosi con la sentenza revocanda.
2. Con il secondo motivo deducono un conflitto di giudicato con la sentenza di questa Corte n. 12223 del 2017 pronunciata in controversia relativa all’anno di imposta 2005.
3. Va preliminarmente rilevato d’ufficio che il ricorso proposto dal M. in proprio è inammissibile per difetto di legittimazione attiva, non avendo lo stesso neppure partecipato ai precedenti giudizi di merito.
A ciò aggiungasi che in materia societaria, l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 269 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 326 del 2003, ha introdotto la regola della riferibilità esclusiva alle persone giuridiche delle sanzioni amministrative tributarie (ex multis, Cass. n. 9094 del 2017), il che esclude anche la sussistenza sub specie di un interesse personale diretto del predetto ricorrente.
4. E’ inammissibile anche il ricorso proposto dal M. in qualità di ex legale rappresentante della società contribuente, per contrarietà al principio giurisprudenziale in base al quale «è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal fallito avverso la sentenza sfavorevole al fallimento, non impugnata dal curatore, quando il giudice delegato abbia autorizzato il curatore a non impugnare e a non proseguire il giudizio in sede di legittimità» (Cass. n. 11117 del 2013).
5. Al riguardo, deve ribadirsi il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «La dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell’art. 43 l.fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia» (Cass. n. 13814 del 2016; conf. Cass. n. 13991 del 2017; v. anche Cass. n. 9248 del 2015, n. 13814 del 2016 e n. 8132 del 2018).
6. Orbene, nel caso di specie sono gli stessi ricorrenti a riferire che il curatore fallimentare, in risposta alla richiesta dai medesimi avanzata al fine di conoscere le determinazioni in merito alla possibilità di proporre ricorso per revocazione avverso la sopra indicata sentenza di questa Corte, aveva loro comunicato che «con provvedimento del 21.11 u.s. il G.D. ha autorizzato la curatela a non porre in essere alcuna attività in ordine alla revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione n. 16060/2017 e n. 16061/2017». Il tenore di tale comunicazione è, quindi, tale da escludere l’inerzia degli organi fallimentari, addirittura contrari all’azione giudiziaria prospettata dal richiedente, come peraltro confermato dai provvedimenti resi al riguardo dal Giudice delegato. Invero, quello apposto sul margine superiore della relazione redatta dal curatore sull’istanza avanzata dalla società fallita, diversamente da quanto sostiene quest’ultima, non è un provvedimento di autorizzazione rivolto alla società bensì al curatore, di non assumere alcuna iniziativa processuale, in conformità a quanto da quello evidenziato nella relazione, circa il fatto che la procedura non aveva «mai posto in essere alcuna attività in relazione ai giudizi pendenti in cassazione». E ciò trova esplicita conferma nel provvedimento adottato sulla successiva «richiesta di specificazione delle decisioni della curatela», in cui il G.D. espressamente «ribadisce la volontà della curatela di non costituirsi in giu[di]zio».
7. Da quanto detto consegue l’inammissibilità del ricorso che, nelle ipotesi come quella in esame, in cui gli organi fallimentari hanno espresso una valutazione negativa in ordine all’opportunità di promuovere il giudizio di revocazione, è rilevabile d’ufficio (cfr., ex multis, Cass., Sez. L – , n. 13991 del 06/06/2017, Rv. 644537, nonché Cass., Sez. 5, n. 5571 del 09/03/2011, Rv. 617039 e Cass., Sez. 6 – 5, n. 21765 del 26/10/2015, Rv. 637011).
8. In estrema sintesi, alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, che rende del tutto superfluo l’esame dei motivi di revocazione, consegue la condanna dei ricorrenti, rimasti soccombenti, al pagamento delle spese processuali liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.
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