CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 settembre 2020, n. 18401

Tributi – Accertamento – Cessione aree edificabili – Fittizietà del corrispettivo indicato negli atti di cessione – Prova indiziaria – Incongruità del prezzo di vendita

Rilevato che

con la sentenza impugnata è stata confermata la pronuncia della Commissione tributaria provinciale di Trento, con la quale, in relazione all’impugnativa proposta dalla F.I.R. – (…) S.p.A. (da ora F.I.R.), volta all’annullamento dell’avviso (n. R4903020023) di accertamento di maggior reddito ai fini Irpeg, Irap ed Iva per l’anno 2003, in conseguenza della cessione di due aree edificabili alla A. s.r.l., era stato rideterminato – in misura inferiore a quella contestata dall’Ufficio – l’importo della predetta cessione;

per la cassazione della decisione ha proposto ricorso la F.I.R., affidato a due motivi;

l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.

Considerato che

Con il primo motivo, la F.I.R. – denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, 2697 e 2729 c.c. – si duole che il giudice di appello (affermando che «hanno concorso a rafforzare i dubbi della non attendibilità del prezzo formalmente incassato a) i dati forniti dalla stessa Società, in relazione al prezzo di rivendita dei terreni richiesto nel 2003, senza sostanziali scostamenti rispetto a quello di acquisto risalente a cinque e sei anni prima; b) l’esibizione di un patto parasociale, apparentemente un patto strumentale concluso fra FIR e l’A., pur sempre finalizzato ad escludere il ricorso al prezzo corrente nella cessione degli immobili, ma privo di data certa e di qualsiasi forma di pubblicità, comunque con valore soltanto fra le parti che figurano sottoscrittori del medesimo atto; c) la stima dell’UTE, allegata all’avviso di accertamento notificato alla società») abbia ritenuto provata la sussistenza di un maggior reddito non dichiarato, in difetto di ulteriori ed oggettivi riscontri da cui desumere l’effettivo occultamento di una parte del prezzo effettivamente incassato, essendo oggetto della rettifica ai fini delle imposte dirette e dell’IVA l’esistenza, appunto, di un maggior reddito, non la divergenza fra corrispettivo incassato e valore normale del bene, che fonda una presunzione priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza;

con il secondo motivo – denunciando omessa od insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice abbia espresso una motivazione del tutto astratta e generica, avendo asserito che la semplice non congruità del corrispettivo dichiarato rispetto al valore normale dei beni costituirebbe piena prova dell’occultamento di parte del corrispettivo incassato dalla società, cosi giustificando la operata rettifica.

Ritenuto che

Il primo motivo è infondato, giacché con esso si censura la valenza probatoria riconosciuta dalla CTR ad alcuni elementi di fatto, in contrasto con l’insegnamento – di cui è espressione Cass. 29/05/2018, n. 13395 – secondo cui «La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 c.p.c.)»; né, nel caso, è stato fatto cattivo uso del meccanismo presuntivo, poiché il giudice di merito, nel pervenire alle criticate conclusioni, ha, nella valutazione delle circostanze ritenute significative, valorizzato, quale elemento probatorio indiziario attestante l’occultamento del maggior reddito, l’incongruità – attestata da apposita stima effettuata in primo grado dal ctu – del prezzo delle vendite dichiarato (giustificato, peraltro, dalla società sulla base di un patto parasociale privo di attendibilità, in quanto affetto da varie anomalie), naturale espressione di una non plausibile antieconomicità delle operazioni, che assume, pertanto, chiaro valore sintomatico della fittizietà del corrispettivo indicato negli atti di cessione;

del resto, ben può il convincimento del giudice in ordine al raggiungimento della prova di un fatto fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché sia grave e precisa, in quanto il requisito della concordanza ricorre solo nel caso di concorso tra più circostanze presuntive (cfr. Cass. 22.12.2017, n. 30803);

il secondo motivo è inammissibile, poiché non è stato in concreto formulato secondo la nuova versione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., che ha introdotto nell’ordinamento il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (cfr. Cass. Sez. U. 7/04/2014, n. 8053, secondo cui «nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie»);

peraltro il motivo in questione mira, in sostanza, al conseguimento di una revisione del giudizio valutativo compiuto dal giudice di merito, in contrasto con i noti limiti del giudizio di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. 7/01/2014, n. 91: «Il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Ne consegue che, ove la parte abbia dedotto un vizio di motivazione, la Corte di cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito»);

al rigetto del ricorso segue il pagamento delle spese di lite, determinate come in dispositivo;

ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la società al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese processuali, liquidate in € 6.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.