CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 settembre 2020, n. 18416
Tributi – Utilizzo irregolare di manodopera fornito da società esterne – Esclusione della detrazione IVA – Obbligo di versamento delle ritenute sulle retribuzioni – Verifica della sussistenza di appalto “non genuino” di manodopera – Necessità
Rilevato che
La società F.S. s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., incorporante la società R.F. s.p.a., ricorre, sulla base di quattro motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, indicata in epigrafe, che – in controversia avente ad oggetto, da un lato, l’impugnazione di due avvisi di accertamento con il quale l’Ufficio recuperava a tassazione ritenute d’imposta per lavoro dipendente non operate e non versate, l’indebita detrazione Iva e l’Irap per l’annualità 2005, 2006 e 2007, e, dall’altro, l’impugnazione di un atto di contestazione, notificato contestualmente agli accertamenti, relativo all’irrogazione di sanzioni per l’omessa effettuazione e versamento delle ritenute d’acconto di cui ai tre avvisi, quali atti impositivi scaturiti da una verifica fiscale da cui era risultato che la società aveva fatto utilizzo irregolare di manodopera che le veniva fornita da società esterne (U. di B.S. e C. s.r.I.) – ha rigettato l’appello della società e quello incidentale dell’Agenzia delle entrate, confermando la sentenza n. 26/06/2011 della Commissione tributaria provinciale di Venezia-Mestre.
La Commissione tributaria regionale ha ritenuto che l’Ufficio avesse provato la fondatezza delle pretese fiscali in quanto: gli avvisi di accertamento erano corroborati non solo dal rinvio, per relationem, al verbale della guardia di finanza di Castel Franco Veneto ma anche dai fatti constatati nel corso dell’accesso ispettivo del 6 ottobre 2009, presso la sede della R.F. s.p.a., come riportati nel verbale conclusivo della verifica, redatto in data 16 novembre 2009, regolarmente notificato sia alla società che al presidente del consiglio di amministrazione della stessa, con conseguente “piena conoscenza” da parte della ricorrente; sussistenza delle condizioni legittimanti l’accertamento parziale, comprovate dal verbale degli ispettori del lavoro; utilizzazione da parte della R. F. s.p.a. di manodopera illecita con conseguente obbligo, in solido con il somministratore, a corrispondere i trattamenti retributivi ed i contributi previdenziali ai lavoratori da considerarsi a tutti gli effetti lavoratori alle dipendenze della R. F.; legittimità dell’irrogazione delle sanzioni e dell’esclusione del cumulo giuridico trattandosi di violazioni ripetute e non di una sola infrazione. Sull’annualità 2005 – costituente motivo di appello incidentale – la Commissione regionale ha ritenuto la violazione del principio del ne bis in idem.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
La società ricorrente presenta memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Considerato che
Il primo motivo di ricorso risulta articolato in due distinti profili di censura, deducendosi, innanzitutto, l’omessa pronuncia, ex art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., sullo specifico motivo di appello riguardante il vizio degli atti impositivi motivati per relationem, pronunciandosi, così, una decisione meramente apparente in contrasto con le specifiche disposizioni di legge – di cui agli artt. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ. – che prescrivono l’obbligo motivazionale delle sentenze. Inoltre, viene dedotto, in relazione al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., la deficienza del procedimento logico-giuridico seguito in motivazione nella parte in cui ha omesso di considerare la mancata allegazione di atti e documenti – come il verbale della Direzione provinciale del lavoro – ivi richiamati.
Il motivo è infondato sotto entrambi i parametri di censura evocati.
La Commissione tributaria regionale, sulla questione della legittimità degli atti impositivi perché motivati per relationem, già dedotta dall’appellante con il primo motivo di appello (v. pagina 4, par.7, della sentenza impugnata) non ha affatto omesso di esporre l’iter logico giuridico seguito per il suo convincimento che ha debitamente circostanziato con riferimento specifico agli atti di causa. Dopo aver espresso la piena adesione alla replica formulata dall’Agenzia delle entrate, secondo la quale la segnalazione della Guardia di Finanza alla Direzione provinciale del lavoro è stata soltanto la “fonte d’innesco” della verifica, la Commissione regionale ha focalizzato la propria decisione sul rilievo fondamentale della conoscenza che la società aveva avuto, tramite la notifica del verbale conclusivo (notifica effettuata sia alla società che al presidente del consiglio di amministrazione) dei risultati dell’accesso ispettivo compiuto presso la sede della R. F. s.p.a.
A fronte di tale motivazione, i profili di apoditticità e contraddittorietà della sentenza censurati col motivo in esame, non viziano la motivazione in modo così radicale da renderla meramente apparente, né determinano l’inidoneità della sentenza ad assolvere alla funzione cui all’art. 36 d.lgs. 546 del 1992, considerato che, secondo il consolidato orientamento di legittimità che qui si condivide e si fa proprio, ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione allorquando il giudice di appello abbia sostanzialmente riprodotto la decisione di primo grado senza illustrare – neppure sinteticamente – le ragioni per cui ha inteso disattendere tutti i motivi di gravame, limitandosi a manifestare la sua condivisione della decisione di prime cure (cfr., Cass. 18/04/2017 n. 9745; Cass. 26/06/2017 n. 15884; Cass. 21/09/2017, n. 22022; Cass., 25/10/2018, n. 27112; Cass., 05/10/2018 n. 24452; Cass., 07/04/2017 n. 9105, tutte che richiamano i parametri minimi di motivazione indicati da Cass., Sez. U., 07/04/2014 n. 8053 e 03/11/2016 n. 22232; cfr., altresì, per il vizio di motivazione collegato alla funzione dell’appello, Cass., 10/01/2003 n. 196).
Quanto all’ulteriore profilo, censurato col primo motivo, di vizio motivazionale, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., esso è inammissibile.
Ed invero, poichè oggetto di impugnazione è una sentenza pubblicata in epoca successiva al 12 settembre 2012, data dalla quale è entrato in vigore il nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., in tal caso l’impugnazione è consentita per la diversa ipotesi di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Nella specie, oltre alla genericità dell’allegazione di tale “fatto”, i secondi giudici hanno comunque preso in considerazione i fatti di cui ai distinti verbali di accesso e di verifica, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, (Cass. 29/10/2018 n. 27415, Rv. 651028-01).
Con il secondo motivo – così rubricato: «illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 41 bis d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’ art. 360, 1 comma, n.3 c.p.c.» – la ricorrente deduce l’illegittimità della sentenza per non aver i secondi giudici pronunciato sull’eccezione di illegittimità della procedura di accertamento, in carenza dei presupposti richiesti dall’art. 41 bis del d.P.R. cit.
Tale motivo, così come prospettato, è inammissibile.
E’ stato chiarito che l’accertamento parziale previsto dall’art. 41 bis del D.P.R. 600 del 1973 (secondo cui: «Gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate, qualora dagli accessi, ispezioni e verifiche (…) risultino elementi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggior ammontare di un reddito parzialmente dichiarato che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile (…), possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito od il maggior reddito imponibile (…)»), quale strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo o in presenza di una contabilità correttamente tenuta (cfr. Cass. 07/11/2019 n. 28681, Rv. 655548-01).
Nella specie, i giudici di appello hanno ritenuto la sussistenza delle condizioni legittimanti l’accertamento parziale in quanto comprovate dal verbale degli ispettori del lavoro; la ricostruzione dei maggiori ricavi è stata desunta, dunque, dagli elementi di fatto emergenti dagli accessi e dalle verifiche effettuate dall’Ufficio, ritenendosi, per questa via, la sussistenza dei presupposti per l’accertamento induttivo, verifica che ha riguardato il tipico giudizio di merito, incensurabile in questa sede.
La ricorrente deduce come vizio di legge l’erronea sussunzione del caso nell’ipotesi prevista dall’art. 41 bis d.P.R. cit. ma, nell’esplicitare le ragioni del motivo, si appiglia a specifiche ragioni di merito, assumendo l’illegittimità della decisione impugnata per non avere considerato che «tali avvisi risultano fondati su un unico elemento privo di efficacia probatoria diretta (i.e. l’ affidamento da parte della R. F. s.p.a. dell’effettuazione dei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria delle proprie apparecchiature a delle ditte esterne che con i loro personale si recavano presso la sua sede per eseguirli) ed assai ambivalente» (v. pag. 36 del ricorso).
E’ evidente, dunque, che le censure proposte sotto l’apparente veste del vizio di violazione di legge, riguardano, in realtà, una richiesta di rivalutazione dei presupposti di fatto che hanno consentito ai secondi giudici di ritenere la legittimità dell’accertamento; tale richiesta è inammissibile in quanto implicante «una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito» (così, Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017, Rv. 643690- 01).
Vieppiù, non può mancarsi di evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, in quanto tale ricognizione è esterna al tipico vizio di sussunzione di cui allo specifico parametro di censura, inerendo, in realtà, ad una valutazione del giudice di merito sottratta al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 1, Ordinanza n. 24155 del 13/10/2017, Rv. 645538-03; Sez. 3, Ordinanza n. 10320 del 30/04/2018, Rv. 648593-01; Sez. 5, Sentenza n. 23851 del 25/09/2019, Rv. 655150-02; Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019, Rv. 652398-01; Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549-02).
Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 23, 28 e 29 della legge n. 276 del 2003, nonché delle regole di riparto dell’onere probatorio, là dove i secondi giudici hanno ritenuto la sussistenza del contratto di manodopera illecita pur non avendo l’Amministrazione finanziaria fornito la prova del suo assunto.
Il mezzo è fondato e va accolto per le ragioni di seguito esposte.
La Commissione regionale, pur a fronte degli specifici rilievi della società appellante sulla carenza di prova della pretesa erariale (v. punto 9 di pagina 6 della sentenza impugnata) ha fondato la propria decisione circa la sussistenza di appalti “non genuini” di manodopera, basandosi esclusivamente sugli elementi acquisiti dagli ispettori del lavoro indicati nel verbale del 16 novembre 2009 (quali la mancanza di autorizzazione, di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 276 del 2003, alla fornitura alla R. F.. S.p.a. di manodopera da parte di società esterne risultate “evasori totali” nonché l’utilizzazione da parte della R. F. s.p.A., per gli anni 2004-2005-2006, degli operai forniti dalle ditte esterne), in base ai quali hanno concluso per la sussistenza «delle condizioni per applicare il principio normativo secondo il quale l’utilizzatore della manodopera è obbligato in solido con il suo amministratore a corrispondere i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali ai lavoratori che sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che utilizza le prestazioni» (v. sentenza, pag. 36, secondo cpv. del paragrafo 9).
La censura di cui al terzo motivo di ricorso non tende affatto ad un nuovo esame delle risultanze istruttorie – così come assume la difesa erariale nel controricorso – ma pone una questione di correttezza della ricognizione normativa compiuta dai secondi giudici, e segnatamente, delle regole sulla prova presuntiva, ex art. 2729 cod. civ., in relazione al divieto di cui alla legge n. 276 del 2003 (cd. legge Biagi).
Già la legge n. 1369 del 1960, all’art. 1, prevedeva che la violazione del divieto d’appalto di manodopera comportava che i lavoratori fossero considerati alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente aveva utilizzato le loro prestazioni; analogamente, la normativa sopravvenuta di cui al decreto legislativo n. 276 del 2003 sancisce, all’art. 21, che, in mancanza della forma scritta del contratto di somministrazione di lavoro, i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore, instaurando, così, ex lege il rapporto di lavoro tra lavoratore e utilizzatore. In particolare, l’articolo 29, primo comma, del decreto legislativo predetto distingue l’appalto dalla somministrazione di lavoro in base alla prevalenza, nel primo, del carattere di imprenditorialità dell’impresa appaltatrice «che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera del servizio dedotti in contrasto, dall’esercizio del potere organizzativo indiretto nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché nell’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio di impresa» (art. 29 d.lgs. cit.). In considerazione dei riflessi dell’evoluzione economica sull’impresa, è stato affermato che la nozione del contratto di appalto derivante da detta norma, «è il prodotto del processo di smaterializzazione dell’oggetto del contratto» che, in base a tale norma, è individuabile «dalla combinazione dell’indice dell’assunzione del rischio di impresa e di quello dell’eterodirezione, in seno alla quale senz’altro assume rilievo preminente il secondo» «(così, Sez. 5, ord. n. 18808 del 2017; sulla preminenza di tale indice, adde, Sez. 6-5, Ordinanza n. 938 del 17/01/2018; Sez. 5, Sentenza n. 31720 del 07/12/2018, Rv. 651778-02; Sez. 5, Ordinanza, n. 14196 del 04/06/2018, non massimata; Sez. 5, Ord. n. 34727 del 30/12/2019, non nnassimata).
Dando dunque per assodato il carattere nodale “dell’eterodirezione” e volendone traguardare la nozione, si ha eterodirezione rilevante ai fini della qualificazione dell’appalto di manodopera, quando l’appaltante-interponente, non solo organizza, ma anche dirige i dipendenti dell’appaltatore, utilizzandoli in prima persona (cfr. Corte di Giustizia, 6 marzo 2014, causa C-458/2012, Amatori, con riferimento al trasferimento di azienda o di ramo di azienda) rimanendo in capo all’interposta, solo compiti di gestione amministrativa del rapporto (retribuzione, pianificazione delle ferie) senza che vi sia una reale organizzazione della prestazione lavorativa volta ad un risultato produttivo autonomo (cfr. Sez. 5, Ord. n. 34727 del 30/12/2019).
Ne consegue che solo l’accertamento, basato su una verifica in concreto degli elementi anzidetti e della valenza presuntiva di ciascuno di essi come determinanti un appalto non genuino (o anche somministrazione di lavoro non avente la forma scritta), comporta l’invalidità (nullità) del contratto di appalto e del rapporto di somministrazione di lavoro (apparentemente instaurato con l’impresa appaltatrice), con l’instaurarsi del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore effettivo della forza lavoro.
Stante la nullità dei contratti, non è configurabile un rapporto di appalto tra la committente ed’ l’interposta, con (“l’impossibilità di detrarre l’Iva da parte della società contribuente. Il diritto di detrazione scaturisce, invece, dall’effettiva realizzazione della prestazione di servizi; sicché mancando tale effettiva prestazione non sorge il diritto alla detrazione (cfr. Corte Giust. 27 giugno 2018 cause C-459- 460/17, SGI e Valeriane s.n.c., punto 35).
La Commissione regionale non ha fatto corretta applicazione di tali principi nella parte in cui ha affermato l’instaurarsi del rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore effettivo (la R. F. s.p.a.) della forza lavoro, senza la verifica in concreto di elementi atti alla qualificazione di tale rapporto come appalto non genuino.
Infine, non può mancarsi di considerare che con la memoria difensiva, ex art. 380 bis-1 cod. proc. civ., la difesa della società ricorrente ha depositato la sentenza n. 510/2018, pubblicata il 30/10/2018, della Corte di Appello di Venezia, nella causa tra F. S. s.p.a. e l’INPS, con certificazione del passaggio in giudicato, che ha disconosciuto il carattere fittizio anche dell’appalto cui si riferisce l’imposizione per cui è causa (i periodi considerati dall’accertamento oggetto della sentenza della Corte di appello di Venezia riguardano oltre che gli anni 2004 ed il 2005, anche il periodo “gennaio 2006-febbraio 2007” relativo alla somministrazione di manodopera da parte della società C. nei confronti della società F. S.).
Fermo restando che, essendo intercorsa con parte diversa, detta sentenza non può valere quale giudicato esterno ai fini della presente causa, non può mancarsi di considerare il forte impatto dell’accertamento ivi consacrato sulla già carente valutazione da parte della Commissione regionale basata solo sul verbale ispettivo.
Con il quarto motivo, la ricorrente deduce la violazione di legge e segnatamente degli artt. 16, 17, 12 del d.lgs. n. 472 del 1997, nella parte in cui i secondi giudici hanno ritenuto legittima l’irrogazione frazionata e progressiva delle sanzioni e non hanno consentito il cumulo di cui all’art. 12 dello stesso d.lgs. cit.
Il motivo fermo restando il nuovo accantonamento in fatto demandato al giudice di merito è infondato; la Commissione regionale ha rettamente argomentato circa l’inapplicabilità del cumulo giuridico, con ciò adeguandosi all’orientamento ad oggi seguito da questa Corte secondo cui «le violazioni tributarie che si esauriscono nel tardivo od omesso versamento dell’imposta risultante dalla dichiarazione fiscale non sono soggette all’istituto della continuazione disciplinato dall’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, perché questo concerne le violazioni potenzialmente incidenti sulla determinazione dell’imponibile o sulla liquidazione del tributo, mentre il ritardo o l’omissione del pagamento è una violazione che attiene all’imposta già liquidata, per la quale l’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997 dispone un trattamento sanzionatorio proporzionale ed autonomo per ciascun mancato pagamento» (Sez. 5 , Ordinanza n. 8148 del 22/03/2019, Rv. 653340-01). Conclusivamente, il ricorso va accolto limitatamente al terzo motivo di ricorso, in relazione al quale la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione regionale del Veneto, in diversa composizione, affinchè proceda ad un nuovo esame della controversia, alla luce dei principi su esposti; il giudice del rinvio è tenuto a provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il primo, il secondo ed il quarto motivo di ricorso;
Accoglie il terzo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.
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