CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 aprile 2019, n. 9670
Decreto ingiuntivo dichiarato definitivo – Riapertura del fallimento del datore di lavoro, chiuso con riparto dell’attivo – Non sussiste – Pubblicità dichiarativa cui è soggetta la sentenza di fallimento – Domanda di pagamento del TFR al Fondo di Garanzia ex L. n. 297/1982 – Rigetto – Onere del lavoratore di provare che il credito è stato ammesso allo stato passivo – Incolpevole non conoscenza dell’apertura della procedura fallimentare – Irrilevanza
Rilevato che
La Corte di appello di Milano, con sentenza 2172 del 2012, ha rigettato l’impugnazione proposta da D.R. nei riguardi dell’Inps – Gestione Fondo di Garanzia ex lege n. 297/82, avverso la sentenza di primo grado di rigetto della domanda proposta dal medesimo R. ed avente ad oggetto il pagamento della somma di euro 20.690,00 a titolo di TFR, già accertato con decreto ingiuntivo dichiarato definitivo sulla base del quale il lavoratore aveva chiesto, con esito negativo, la riapertura del fallimento della propria datrice di lavoro che si era chiuso con riparto dell’attivo; ad avviso della Corte territoriale, essendo pacifico che nella fattispecie la mancata insinuazione al passivo era dipesa dal fatto che il lavoratore aveva ignorato che fosse stato dichiarato il fallimento della società datrice di lavoro e che tale ignoranza non poteva essere giustificata data la pubblicità dichiarativa cui era soggetta la sentenza di fallimento ed ancorché il lavoratore non fosse stato informato per carenza di dati presso la sede dell’impresa, ha osservato che il lavoratore non aveva comunque provato di aver tentato di ottenere soddisfazione del credito sui beni del debitore tornato in bonis ed aveva presentato la domanda al Fondo di garanzia solo il 9 febbraio 2009, quando il fallimento era stato chiuso con riparto finale dell’attivo in data 15 luglio 2004;
per la cassazione di tale decisione D.R. propone ricorso affidato a due articolati motivi;
resiste l’Inps con controricorso illustrato da memoria;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso viene dedotta, contestualmente, violazione ed errata applicazione dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297 ed insufficiente ed omessa motivazione; il ricorrente/in particolare, deduce di non aver saputo del fallimento della datrice di lavoro anche perché aveva lavorato a Milano, mentre il fallimento era stato dichiarato a Roma, e che il fallimento era stato chiuso per carenza di attivo e sarebbe stato impossibile anche ottenere la riapertura della procedura fallimentare proprio per l’assenza di beni; inoltre, anche dopo la chiusura del fallimento per carenza di attivo il lavoratore non aveva potuto recuperare il proprio credito con procedura esecutiva individuale per cui la sentenza impugnata avrebbe errato nel negare la sussistenza dei presupposti di legge per ottenere il pagamento dal Fondo di garanzia;
con il secondo motivo, si deduce, nuovamente, contestualmente, violazione ed errata applicazione dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297 ed insufficiente ed omessa motivazione; in particolare, il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale non ha indicato le ragioni per le quali la domanda di altro dipendente della medesima società, che aveva azionato la procedura per decreto ingiuntivo unitamente allo stesso ricorrente, aveva ottenuto dall’INPS il pagamento del t.f.r., a differenza dell’istante; i motivi sono sostanzialmente connessi per cui vanno trattati congiuntamente e sono infondati;
il lavoratore, come è incontroverso, non ha operato l’ammissione del proprio credito per TFR, al passivo del fallimento della società ” Le proposte di Crippa arredamenti e D. s.r.l. datrice di lavoro, e lo stesso sostiene che, seppure in difetto di ammissione del credito per TFR nello stato passivo del fallimento del datore di lavoro, fallimento regolarmente dichiarato chiuso – e, comunque, in difetto dell’esperimento di esecuzione individuale nei riguardi dello stesso datore di lavoro insolvente – di aver diritto al pagamento del TFR mediante intervento del Fondo di garanzia presso l’Inps;
i motivi di ricorso sono infondati alla luce dei principi più volte ribaditi da questa Corte secondo cui, in caso di fallimento del datore di lavoro, il pagamento del trattamento di fine rapporto da parte del fondo di garanzia richiede, secondo la disciplina della L. n. 297 del 1982, art. 2, che il lavoratore assolva all’onere di dimostrare che è stata emessa la sentenza dichiarativa di fallimento e che il suo credito è stato ammesso allo stato passivo, senza che questo requisito possa essere escluso a seguito della dimostrazione, da parte del lavoratore, che la mancata insinuazione nel passivo fallimentare del suo credito è addebitabile alla incolpevole non conoscenza da parte sua dell’apertura della procedura fallimentare, poiché la legge fallimentare contiene una serie di disposizioni che assicurano ai terzi la possibilità di conoscenza in relazione ai diversi atti del procedimento e svolgono, quindi, la funzione di una vera e propria pubblicità dichiarativa (Cass. ordinanza n. 3640/2012; Cass. n. 17079/2004; Cass. n. 294/2000; Cass. n. 5878 del 2014);
è stato ricordato (Cass. n. 7877 del 2015) che la direttiva comunitaria relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro (direttiva CEE del Consiglio 20 ottobre 1980, n. 80/987), per incoraggiare il ravvicinamento (ai sensi dell’art. 117 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea) delle legislazioni degli stati membri in materia “ha previsto che la direttiva stessa si applichi ai diritti dei lavoratori dipendenti da datori di lavoro in stato di insolvenza (art. 1) – assoggettati, cioè, a procedimento (…) che riguarda il patrimonio del datore di lavoro ed è volto a soddisfare collettivamente i creditori di quest’ultimo” (art. 2) e che gli stati membri sono tenuti ad adottare “le misure necessarie affinché gli organismi di garanzia assicurino (…) il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, (…) relativi alla retribuzione (…) degli ultimi tre mesi del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro, nell’ambito di un periodo di sei mesi (…)” (artt. 3 e 4).;
per l’effetto, l’applicazione della direttiva è subordinata alla soggezione del datore di lavoro a fallimento, oppure ad altra procedura concorsuale con analoga finalità liquidatoria del patrimonio del debitore (in tal senso, vedi la sentenza della Corte di giustizia 7 febbraio 1985, causa 135/83, anche in motivazione);
in ogni caso la direttiva fa salve le condizioni di miglior previste dagli ordinamenti nazionali per i lavoratori (art. 9 della direttiva); nel dare attuazione alla direttiva (n. 80/987), il legislatore italiano (L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 2, Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), ha istituito presso l’INPS il fondo di garanzia, gestito dall’Istituto medesimo, per assicurare ai lavoratori, nel caso di insolvenza del datore di lavoro (vale a dire di soggezione a fallimento o ad altra procedura concorsuale) la soddisfazione effettiva del credito;
il Fondo di garanzia assicura “il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati” in coerenza con la direttiva comunitaria, identificando i diritti stessi per il titolo, sul quale si fondano (trattamento di fine rapporto);
ancora derogando in melius la direttiva comunitaria, la disposizione di legge in esame (L. n. 297 del 1982, art. 2, al comma 5) stabilisce che, qualora il datore di lavoro non sia soggetto a procedure concorsuali, garantita dalla direttiva (n. 80/987, cit.), “il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere al fondo il pagamento del trattamento di fine rapporto, sempre che, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti”;
nell’estendere la garanzia del Fondo ai “crediti di lavoro, diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro”, pure tutelati dalla direttiva (n. 80/987, cit.), “in caso di insolvenza del datore di lavoro” il D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, artt. 1 e 2 (sanando, così, l’inadempienza agli obblighi nascenti dalla direttiva medesima: vedi Corte giust. 2 febbraio 1989, causa n. 22/87) ribadisce esplicitamente (art. 1, comma 2) che il lavoratore o i suoi aventi diritto possono chiedere il pagamento anche di detti crediti di lavoro al Fondo di garanzia “sempre che, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo a detto trattamento, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti”; in sostanza il Fondo di garanzia “si sostituisce” – al datore di lavoro inadempiente – nel pagamento del trattamento di fine rapporto e dei crediti di lavoro (essenzialmente, di retribuzione diretta), “diversi da quelli spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro”;
questa Corte ha ritenuto (cfr. sentenze n. 7585 del 2011, n. 15662 del 2010, n. 1178 del 2009, n. 7466 del 2007) che una lettura della legge nazionale orientata nel senso voluto dalla direttiva CE n. 987 del 1980 consente, secondo una ragionevole interpretazione, l’ingresso ad un’azione nei confronti del Fondo di garanzia, quando l’imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e l’esecuzione forzata si riveli infruttuosa;
l’espressione “non soggetto alle disposizioni del R.D. n. 267 del 1942” va quindi interpretata nel senso che l’azione della citata L. n. 297 del 1982, ex art. 2, comma 5, trova ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di carattere oggettivo;
nel caso in cui il lavoratore non dimostri di essere stato ammesso al passivo del fallimento e tale ammissione sia resa impossibile dalla chiusura della procedura fallimentare per insufficienza dell’attivo prima dell’esame di una domanda tardiva di insinuazione, il lavoratore è tenuto a procedere ad esecuzione forzata nei confronti del datore di lavoro tornato in bonis; orbene nel caso in esame l’azione esecutiva non è stata esperita ma è stato ugualmente iniziato il procedimento giudiziario per ottenere la condanna del Fondo al pagamento delle somme, ne1 rileva che il credito fosse stato già positivamente accertato con decreto ingiuntivo dichiarato definitivo. Per altro verso la procedura fallimentare si era conclusa, secondo l’accertamento della sentenza impugnata, con il riparto dell’attivo; il lavoratore, con una diligenza ordinaria, avrebbe dovuto porre in esecuzione il titolo e solo dopo aver verificato l’incapienza del patrimonio della datrice di lavoro rivolgere la sua domanda all’Inps che gestisce il Fondo;
il ricorso va, dunque, rigettato e le spese del giudizio di legittimità vanno regolate in ragione del principio della soccombenza, in favore del controricorrente Inps, come da dispositivo;
sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nei riguardi del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4000,00 per compensi oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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