CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 febbraio 2019, n. 3374
Tributi – Contenzioso tributario – Procedimento – Appello – Contenuto necessario – Specificità dei motivi di impugnazione – Mancanza – Inammissibilità del ricorso
Fatti di causa
Rilevato che la contribuente Grande Albergo M. s.p.a. impugnava un avviso di accertamento dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, la quale accoglieva parzialmente il ricorso;
che l’Agenzia delle Entrate proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale lo dichiarava inammissibile in quanto nel corpo dell’atto di appello difettavano totalmente i motivi di censura della sentenza di primo grado facendosi totale rinvio ad altro atto prodotto in diverso procedimento presso diversa CTR;
che l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso affidato a due motivi e in prossimità dell’udienza depositava memoria insistendo per l’accoglimento del ricorso, mentre il contribuente resisteva con controricorso.
Ragioni della decisione
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione l’Agenzia delle Entrate denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 121 e 342 cod. proc. civ. e dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. perché laddove il giudice di primo grado nella sua motivazione si limiti a rimandare all’apparato motivazionale di altra sentenza deve ritenersi ammissibile che anche l’atto di appello si risolva nel mero rinvio alle censure svolte contro quella sentenza;
che con il secondo motivo d’impugnazione l’Agenzia delle entrate denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1, comma 2, e 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 164, commi 3 e 5, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. perché il giudice di appello non ha ritenuto sanata l’ipotetica nullità dell’appello dalla costituzione dell’appellato o non ha concesso un termine per integrare l’appello;
ritenuto preliminarmente che il ricorso deve considerarsi tempestivo perché l’art. 11 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, ha disposto, per le controversie come quella in oggetto, la sospensione dei termini di impugnazione delle pronunce giurisdizionali che scadono dal 24 aprile 2017 fino al 30 settembre 2017;
ritenuto che i motivi, che per la loro stretta connessione possono essere affrontati congiuntamente, sono inammissibili in quanto, secondo l’art. 342 cod. proc. civ., l’appello deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuto dal giudice di primo grado e l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata;
che infatti, dalla giurisprudenza della Corte di legittimità relativa alla necessaria specificità dei motivi di impugnazione richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ. emerge inequivocabile che, quando i motivi di impugnazione vengano formulati mediante rinvio, ciò che rileva, ai fini di ritenere l’ammissibilità o meno dei motivi e, quindi, dell’appello, è l’esistenza della sicura riferibilità dei motivi alle argomentazioni della sentenza impugnata. Infatti, la Corte ha escluso che il grado di specificità dei motivi possa essere stabilito in via generale ed assoluta, ma ha ritenuto necessario che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico- giuridico delle prime (Cass. 19 febbraio 2009, n. 4068). In particolare, i motivi di gravame devono, in ossequio al principio di specificità e completezza dell’appello, essere contenuti nell’atto di impugnazione e riferirsi alla decisione appellata (Cass. 28 novembre 2014, n. 25308). Di conseguenza, si è ritenuto inammissibile l’appello quando l’appellante si richiami genericamente alle deduzioni, eccezioni e conclusioni della comparsa depositata in primo grado o ad altri scritti difensivi (Cass. 11 ottobre 2006, n. 21816); così come si è ritenuto non assolto l’onere di specificazione dei motivi di appello imposto dall’art. 342 cod. proc. civ., con il semplice richiamo “per relationem” alla comparsa conclusionale di primo grado (Cass. 20 settembre 2002, n. 13756). Dopo l’intervento delle Sezioni Unite (Cass. SU 22 maggio 2012 n. 8077) a composizione del contrasto in ordine all’ambito dei poteri della Corte di legittimità, “Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, sostanziandosi nel compimento di un’attività deviante rispetto ad un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, ed in particolare un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366, cod. proc. civ., n. 6, e 395, cod. proc. civ., n. 4)“. Il principio, che il Collegio condivide, ha avuto seguito con una applicazione proprio relativa all’art. 342, cod. proc. civ., essendosi affermato che “Quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio attinente all’applicazione dell’art. 342, cod. proc. civ., in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda” (Cass. 10 settembre 2012, n. 15071; Cass. 28 novembre 2014, n. 25308). Nella specie, tuttavia, gli atti processuali in questione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694), non sono compiutamente riprodotti in ricorso nei rispetto dell’art. 366, cod. proc. civ., per cui non è dato comprendere se nell’atto di appello vi sia o meno un mero rinvio ad altro appello, cosicché non può dirsi compiutamente censurata l’affermazione chiave della CTR secondo cui il suddetto rinvio non pone in condizione la CTR “di comprendere per intero le ragioni e le che dunque dall’art. 342 c.p.c. si desume un dovere, in capo all’appellante, di indicazione specifica dei motivi di appello, che non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad altri atti, quand’anche la sentenza della CTP sia a sua volta motivata per relationem con rinvio ad altra CTP, avendo infatti in questo caso l’appellante l’onere di lamentare proprio questa circostanza;
che infatti, secondo questa Corte, gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla I. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Cass. 30 maggio 2018, n.13535);
che del resto, per quanto riguarda il ricorso in Cassazione, è stato affermato che l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.), qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto per relationem con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (Cass. 31 maggio 2011, n. 11984);
che, peraltro, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea tale statuizione del giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può – come invece accaduto nel caso di specie – limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità (Cass. 29 settembre 2017, n. 22880);
che, oltretutto, con specifico riferimento al secondo motivo, l’art. 164 cod. proc. civ. trova applicazione solo con riferimento ai casi di nullità della citazione in appello per vizi riguardanti la vocatio in ius e non anche per vizi afferenti la “editto actionis”, e soprattutto non trova applicazione nella ipotesi di carenza dei requisiti specifici dell’impugnazione previsti dall’art. 342 cod. proc. civ.;
ritenuto pertanto che il ricorso va dichiarato inammissibile e che la condanna alle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 2.500, oltre a rimborso forfettario nella misura del 15% e ad accessori di legge.
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