CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 maggio 2020, n. 8453
Tributi – IRES – Sopravvenienza passiva – Furto commesso da una dipendente mediante contraffazione della firma del legale rappresentante su assegni circolari – Deducibilità – Competenza – Onere di prova
Fatti di causa e rilevato che
La parte contribuente proproneva ricorso avverso l’avviso di accertamento, relativo ad un maggiore imponibile IRES per l’anno d’imposta 2010;
la Commissione Tributaria Provinciale accoglieva parzialmente il ricorso della parte contribuente;
la Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello della parte contribuente su un punto riguardante un asserito furto di assegni subito dalla parte contribuente ad opera di una sua dipendente, osservando, alla luce di una querela della società contribuente nei confronti di tale dipendente per contraffazione delle firme del rappresentante legale apposte su degli assegni, che in un breve lasso di tempo (meno di un biennio) la società contribuente avrebbe emesso in favore della propria dipendente assegni circolari per oltre 334 mila euro, circostanza che se fosse vera (e quindi se la querela fosse mendace) significherebbe che la società aveva corrisposto alla sua dipendente un importo esorbitante in relazione al relativamente breve lasso di tempo, mentre non sarebbe significativa l’archiviazione del procedimento da parte del giudice per le indagini preliminari sia in relazione all’autonomia tra processo tributario e processo penale sia perché sembrerebbe riguarda una vicenda diversa, mentre la documentazione offerta dall’Ufficio non è in grado di ribaltare la ricostruzione della vicenda accreditabile sulla scorta della documentazione prodotta dalla società contribuente;
l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso affidato ad un unico motivo mentre la parte contribuente non si costituiva.
Ragioni della decisione e considerato che
Con l’unico motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, l’Agenzia delle entrate denuncia violazione degli artt. 109, comma 1, del TUIR e dell’art. 2697 c.c. in quanto la CTR ha illegittimamente gravato l’Ufficio dell’onere della prova della non veridicità di una sopravvenienza passiva per la contribuente di oltre 335 mila euro a causa di un furto subito asseritamente commesso da una dipendente.
Il motivo è fondato.
Secondo questa Corte, infatti: in tema di imposte sul reddito d’impresa, la regola posta dall’art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, secondo cui i ricavi, i costi e gli altri oneri concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare sia determinabile in modo oggettivo (dovendo altrimenti essere calcolati nel periodo d’imposta in cui si verificano tali condizioni), mira a contemperare la necessità di computare tutte le componenti nell’esercizio di competenza con l’esigenza di non addossare al contribuente un onere troppo difficile da rispettare: essa va quindi interpretata nel senso che il dovere di conteggiare tali componenti nell’anno di riferimento si arresta soltanto di fronte a quei ricavi ed a quei costi che non siano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, e cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione. Pertanto, l’onere di provare la sussistenza dei requisiti di certezza e determinabilità delle componenti del reddito in un determinato esercizio sociale incombe all’Amministrazione finanziaria per quelle positive, ed al contribuente per quelle negative; in particolare, nel caso in cui detti requisiti siano condizionati dall’espletamento di procedure amministrative, essi si intendono acquisiti, ai fini dell’imputazione del reddito corrispondente ad un determinato esercizio dell’impresa, solo attraverso il procedimento amministrativo che ne verifica i presupposti e ne liquida l’ammontare (Cass. n. 15320 del 2019);
in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili.
A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (nella specie, la Cassazione ha negato la deducibilità dei premi, di importo cospicuo, corrisposti dall’amministratore della società alle proprie affiliate in assenza di un supporto documentale: Cass. n. 13300 del 2017);
in tema di contenzioso tributario, l’Amministrazione finanziaria, ove contesti l’inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità dei relativi costi e di detraibilità della relativa imposta, ha l’onere di provare, anche mediante presunzioni semplici, che dette operazioni, in realtà, non sono state effettuate, mentre, in presenza di siffatta prova, spetta al contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili (fattispecie relativa ad un avviso di accertamento in rettifica di dichiarazione IVA con determinazione di un minor credito di imposta per operazioni inesistenti, per cui l’Ufficio aveva fornito la prova del carattere soggettivamente fittizio delle operazioni poste in essere dal contribuente: Cass. n. 25775 del 2014).
Da tali massime si ricava il principio secondo cui spetta al contribuente l’onere di provare la deducibilità dei costi e che solo una volta provata in maniera ragionevolmente credibile tale deducibilità spetti all’Ufficio la prova contraria.
Ebbene, nel caso di specie, la CTR compie una valutazione generica e non plausibile con riguardo alla sopravvenienza passiva consistente nel furto degli assegni e che concorrerebbe a formare il reddito nell’esercizio di competenza, ricostruzione che non è in grado di far ritenere assolto il relativo onere probatorio in capo al contribuente.
In effetti, che tale reato si sia realmente consumato è il frutto di congetture e non appare plausibile né che la società non abbia compiuto la procedura di ammortamento degli assegni né che la banca abbia pagato una somma così ingente al dipendente senza effettuare altri controlli.
Ritenuto pertanto che il motivo di impugnazione è fondato e quindi il ricorso dell’Agenzia delle entrate va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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