CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 05 ottobre 2021, n. 26914
Tributi – Accertamento – Anticipazioni bancarie ottenute su presentazioni di fatture emesse per operazioni asseritamente inesistenti – Proventi illeciti – Recupero a tassazione – Esclusione
Rilevato che
nella controversia originata dall’impugnazione da parte del Fallimento della V. S.p.A. di quattro avvisi di accertamento, relativi a IRES e IRAP per gli anni di imposta dal 2004 al 2007, la Commissione tributaria regionale dell’Umbria (d’ora in poi, per brevità, C.T.R.), con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava l’appello proposto dalla contribuente avverso la sentenza di primo grado che, a sua volta, aveva rigettato, previa riunione, i ricorsi introduttivi.
In particolare, il Giudice di appello, nel condividere integralmente la sentenza di primo grado, rilevava che era legittimo l’operato dell’ufficio che ha recuperato a tassazione proventi che devono essere considerati illeciti perché si tratta di anticipi ottenuti da istituti bancari tramite la presentazione di falsa documentazione ed inoltre perché i suddetti fondi non sono mai stati restituiti.
Avverso la sentenza la Curatela del fallimento della V. S.p.A. in liquidazione ha proposto ricorso, su quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate.
Il ricorso è stato avviato, ai sensi dell’art. 380-bis.1 cod.proc.civ. alla trattazione in camera di consiglio in prossimità della quale il ricorrente ha depositato memoria
Considerato che
1. con il primo motivo, articolato ai sensi dell’art.360, primo comma, num. 3 e num.5 cod.proc.civ., il ricorrente deduce l’errore in iudicando commesso dalla C.T.R. nell’avere classificato le anticipazioni bancarie (ottenute dalla V. S.p.A. su presentazioni di fatture emesse per operazioni asseritamente inesistenti) quali redditi ovvero proventi illeciti, senza avvedersi della vera natura delle anticipazioni bancarie, geneticamente fonte di obbligo di restituzione, essendo null’altro che mere provviste temporanee di denaro ricevute per il tramite della cessione in garanzia delle fatture.
Inoltre, la C.T.R. aveva omesso di prendere in esame la circostanza che le somme anticipate non erano state restituite, perché, nel frattempo, la Società era stata sottoposta a procedura fallimentare, mentre, le Banche si erano regolarmente insinuate per le somme di denaro corrisposte ed erano state ammesse allo stato passivo del fallimento.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art.43 del d.P.R. n.600/73, in relazione all’art.360, primo comma, num.3 cod.proc.civ., e, in relazione del numero 5 dello stesso articolo 360, l’omesso esame di un fatto decisivo. Secondo la prospettazione difensiva, la C.T.R. avrebbe errato a ritenere applicabile l’istituto del raddoppio dei termini senza avere verificato se sussistesse un reato di natura tributaria, nei suoi elementi oggettivi e soggettivi, e se fosse stata presentata una denuncia. Inoltre, al momento dell’accertamento il reato di cui all’art.4 d.lgs. n.74 del 2000 era ampiamente prescritto. Infine, secondo la prospettazione difensiva, la decadenza si era, in ogni caso, concretizzata in riferimento all’anno 2004, posto che l’accertamento era successivo di oltre otto anni, mentre l’Irap doveva ritenersi esclusa dal campo d’azione del d.lgs. 74 del 2000.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione di legge (artt. 3 e 53 Cost.; art.67 d.P.R. n.600/73; Artt.66 e 75 d.P.R. n.917/97) e error in procedendo (in violazione degli art.132 e 112 cod.proc.civ.). Si contesta il fatto che l’Ufficio aveva, erroneamente, ritenuto di tassare, non solo il reddito derivante dalle anticipazioni ottenute dalle banche tramite le fatture, ma anche dalle perdite dei crediti di cui alle fatture stesse, tramite una evidente duplicazione, in violazione dell’art.53 Cost. e si deduce che la C.T.R. abbia omesso completamente di statuire in ordine a tale questione.
4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art.360, primo comma, num.4 cod.proc.civ., l’omessa pronuncia anche in relazione agli avvisi di accertamento e, in relazione all’art.360, primo comma, numeri 3 e 5 cod.proc.civ. la violazione o falsa applicazione dell’art.1 d.P.R. n.441797 e dell’art.109 del T.U.I.R. in ordine all’omessa fatturazione derivante da differenze inventariali per l’anno di imposta 2006.
5. Per ragioni di ordine logico giuridico delle questioni rimesse all’esame di questa Corte, va esaminato, da primo, il secondo motivo che è solo parzialmente fondato.
5.1 Premesso che si tratta di fattispecie anteriore alla depenalizzazione delle condotte elusive, operata, in ambito tributario, dall’art. 10 – bis, della legge 27 luglio 2000, n. 212, è ius receptum che: «In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, nei testi applicabili ratione temporis, presuppone, unicamente, l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal d.lgs. n.74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011, sicché, ove il contribuente denunci il superamento dei termini di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria, deve contestare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, non potendo mettere in discussione la sussistenza del reato il cui accertamento è precluso al giudice tributario>>. (v.Cass. n.11156 del 28/04/2021; Cass. 02/07/2020, n. 13481). Si è, anche, precisato che detti termini — ex art. 43, del d.P.R. n. 600 del 1973, per l’IRPEF, ed ex art.57, del d.P.R. n. 633 del 1972, per l’IVA — sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se archiviata o tardiva, senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento già notificati, relativi a periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 (ed è il caso in esame), incidano le modifiche introdotte dall’art. 1, commi da 130 a 132, della I. n. 208 del 2015, attesa la disposizione transitoria, ivi introdotta, che richiama l’applicazione dell’art. 2, del d.lgs. n. 128 del 2015, nella parte in cui fa salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni e degli inviti a comparire ex art. 5 d.lgs. n. 218 del 1997 già notificati, dimostrando un favor del legislatore per il raddoppio dei termini, se non incidente su diritti fondamentali del contribuente, quale il diritto di difesa, in ossequio ai principi costituzionali di cui agli artt. 53 e 112, Cost. (v.Cass. 19/12/2019, n. 33793; 14/05/2018, n. 11620). Inoltre, la Cassazione penale (cfr. ex antis, Cass. pen. 23/05/2013, n. 36894) ha più volte affermato che: «Il reato tributario di dichiarazione infedele può essere integrato anche da condotte elusive ai fini fiscali purché riconducibili a quelle previste dagli art. 37, comma terzo e 37 bis, d.P.R. n. 600 del 1973, considerato che la fattispecie di cui all’art. 4 D.Lgs. n. 74 del 2000 non richiede la sussistenza di una dichiarazione fraudolenta ma soltanto la presentazione di una dichiarazione infedele e, pertanto, la mera indicazione, anche senza l’uso di mezzi fraudolenti, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo ed elementi passivi fittizi, quando ricorrano le altre condizioni ivi previste in relazione all’ammontare dell’imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione e, quindi, quando si superino le relative soglie di punibilità>>.Infine, si è stabilito che: «In materia di reati tributari, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata […] in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria.» (Cass. pen. 27/09/2018, n. 50157; conf. nn. 15899 del 2016, 37335 del 2014, 35579 del 2017, 28710 del 2017, 38684 del 2014, n. 5490 del 2009, n. 36396 del 2011, 21213 del 2008).
5.2 Nella specie, la C.T.R., nel rigettare implicitamente l’eccezione di decadenza sollevata dall’appellante, condividendo le conclusioni a cui era giunto il primo giudice, si è uniformato a tali principi concernenti l’applicabilità dell’istituto del raddoppio dei termini per l’accertamento in tema di imposte dirette e di IVA.
5.3 Va rilevato, di contro, che la sentenza, invece, va cassata con riferimento alla riconosciuta applicabilità dell’istituto del raddoppio dei termini per l’accertamento relativo all’IRAP, rispetto alla quale questa Corte (cfr. Cass.n.4742 del 24/02/2020; id.n. 10483 del 03/05/2018) è ferma nel ritenere che in tema di accertamento, il cd. “raddoppio dei termini”, previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, non può trovare applicazione anche per l’IRAP, poiché le violazioni delle relative disposizioni non sono presidiate da sanzioni penali.
5.4 Infine, la dedotta avvenuta decadenza quanto all’accertamento relativo all’anno 2004, per l’assoluta genericità con cui è stata prospettata in ricorso, non supera il vaglio di ammissibilità.
6. Riprendendo, quindi, l’esame del ricorso dal primo motivo, ritiene il Collegio che la censura sia fondata e che, contrariamente a quanto dedotto dall’Agenzia delle entrate in controricorso, sia ammissibile pure la censura articolata ai sensi del num.5 dell’art.360 cod.proc.civ.
Secondo la giurisprudenza di questo Giudice di legittimità (v. Cass. n.29222 del 12/11/2019) la disposizione di cui all’art. 348 ter, ultimo comma, cod.proc.civ., in base alla quale non sono impugnabili per omesso esame di fatti storici le sentenze di secondo grado in ipotesi di c.d. doppia conforme, presuppone che, nei due gradi di merito, le “questioni di fatto” siano state decise in base alle “stesse ragioni”, sicché la preclusione non opera nel caso in cui l’istruzione probatoria sia del tutto mancata. Nel caso di specie, come sufficientemente e espressamente evidenziato dal fallimento ricorrente, è mancato, sia nella sentenza di primo grado che in quella di secondo grado, l’accertamento del fatto del quale oggi si denuncia l’omesso esame, con conseguente inapplicabilità dell’inammissibilità sancita dall’art.348 ter cod.proc.civ.
6.1. La C.T.R., parafrasando la motivazione di primo grado, sulla questione nodale della controversia, ovvero se fossero tassabili come redditi da atto illecito, le anticipazioni bancarie fruite dalla società, poi fallita, sulla base di fatture fittizie ha così motivato: appare legittimo l’operato dell’Ufficio che ha recuperato a tassazione proventi che devono essere considerati illeciti perché si tratta di anticipi ottenuti da istituti bancari tramite la presentazione di falsa documentazione ed inoltre perché i suddetti fondi non sono mai stati restituiti.
6.2 Incontestato, in atti, che le somme, qualificate reddito da illecito, sono state acquisite dalla V. S.p.A. tramite richiesta di anticipazione bancaria per mezzo di presentazione di fatture fittizie, l’argomentazione svolta dalla C.T.R. appare erronea in quanto non tiene conto, in primo luogo, della natura stessa dell’anticipazione bancaria.
Come noto, l’anticipazione bancaria in conto fatture è una tipologia di finanziamento a breve termine, tramite il quale l’imprenditore può ottenere liquidità da parte di un istituto di credito, cedendo i crediti commerciali vantati verso altre aziende sulla base di fatture con scadenza futura. In particolare, a seconda del tipo di anticipazione concordata, la banca otterrà il ristoro delle somme anticipate o tramite riscossione alla scadenza della fattura dal terzo debitore o dal correntista beneficiario dell’anticipazione (tramite l’istituzione di un apposito conto anticipi). In entrambi i casi, il beneficiario dell’anticipazione, al momento dell’erogazione dell’anticipazione, trae il solo vantaggio di una disponibilità anticipata della somma, ma nessun reddito.
A ciò va aggiunto che egualmente erroneo appare l’assunto svolto dalla C.T.R. secondo cui tali rimesse non erano state restituite. Nello svolgere tale argomentazione, il Giudice di appello mostra di non avere esaminato le circostanze, debitamente dedotte in giudizio, che tale restituzione era impedita dalla sottoposizione della Società alla procedura fallimentare che, come noto, determina lo spossessamento del fallito e che le Banche anticipatarie, per tali somme, avevano proposto tempestiva insinuazione ed erano state ammesse allo stato passivo fallimentare.
In materia, infatti, questa Corte (v. Cass.n.28519 del 20/12/2013; Cass.n. 28375 del 05/11/2019) ha, reiteratamente, statuito che «in tema di imposte sui redditi, l’esclusione originaria dei proventi da attività illecite dalla base imponibile ai sensi dell’art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ove sottoposti a sequestro o confisca penale, opera a condizione che il provvedimento ablatorio sia intervenuto, al più, entro la fine del periodo di imposta cui il provento si riferisce, e non anche in caso di eventi (nella specie, la restituzione in sede transattiva delle somme illecitamente percepite) posteriori alla realizzazione del presupposto impositivo, con i conseguenti obblighi di dichiarazione e di versamento, per i quali si pone solo una questione di diritto al rimborso dell’imposta versata divenuta indebita». Ed ancora, (v.Cass. Pen. Sentenza n. 45574 del 29/05/2018 Cc.) che: <<in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all’art. 12-bis, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depaupera mento».
Va, ancora, rilevato, poi, che, per altrettanto consolidata giurisprudenza, la redazione di fatture fittizie costituisce fatto fiscalmente irrilevante non potendo costituire alcun danno per l’Erario. Le stesse, in quanto neppure inviate ai clienti ivi fittiziamente indicati, non sono state contabilizzate dai destinatari apparenti che, quindi, non le hanno imputato a costo.
In analoghe fattispecie, e con riferimento all’IVA, questa Corte ha, infatti, già chiarito che l’obbligazione prevista dall’art.21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 opera a carico dell’emittente solo dal momento in cui la fattura da lui formata sia emessa nei modi previsti dal comma 1 del medesimo articolo “cioè se consegnata o spedita alla controparte (cfr.Cass.n.27684/2013; id. Cass.n.27684/2015 e n.31060/17 entrambe rese in fattispecie di presentazione di fatture fittizie ad istituti bancari).
Nel caso in esame, la C.T.R. omettendo l’esame delle circostanze di fatto sopra riferite è giunta ad una soluzione della controversia che si discosta, anche, da tutti i principi sopra illustrati.
7. Egualmente fondati, poi, devono ritenersi il terzo e il quarto motivo del ricorso. La sentenza impugnata non contiene alcuna pronuncia sugli specifici motivi di appello svolti dalla Curatela e già oggetto del ricorso introduttivo in ordine al recupero delle perdite su crediti e in ordine all’omessa fatturazione derivante da differenze inventariali per l’anno di imposta 2006.
8. In conclusione, in accoglimento del ricorso nei termini di cui in motivazione, la sentenza impugnata va cassata, nei limiti dei motivi accolti, con rinvio alla C.T.R. dell’Umbria, in diversa composizione, la quale provvederà al riesame, adeguandosi ai superiori principi e fornendo congrua motivazione, e regolerà le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata nei limiti dei motivi accolti; rinvia alla Commissione tributaria regionale dell’Umbria- Perugia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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