CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 agosto 2020, n. 16759
Tributi – Accertamento – Impresa familiare – Determinazione maggior reddito – Collaboratore familiare – Rideterminazione reddito di partecipazione – Natura. – Contenzioso tributario – Giudicato interno – Esclusione – Appello incidentale – Eccezioni sul punto della sentenza
Rilevato che
Con avviso di accertamento notificato a E.B., titolare di impresa familiare, e al coniuge A.R., collaboratrice nella stessa impresa familiare, l’Agenzia delle Entrate accertava maggior imponibile ai fini Irpef e Ilor in relazione all’anno d’imposta 1982.
La verifica traeva origine dal processo verbale di constatazione redatto nel 1984 nel quale erano stati contestati i seguenti rilievi:
a) omessa contabilizzazione di ricavi per lire 5.416.981.733 relativi ad acquisti senza fatture;
b) indebita deduzione di costi per lire 142.790.560 afferenti a fatture emesse per operazioni inesistenti;
c) omessa dichiarazione di utili per lire 235.542.088 dedotta sulla base del rinvenimento di un bilancio d’esercizio che indicava un utile superiore a quello riportato nel bilancio depositato;
d) omessa contabilizzazione di ricavi per lire 1.122.433.206 relativi ad acquisti senza fatture.
La Commissione tributaria di primo grado accoglieva parzialmente il ricorso, confermando solo la ripresa di cui al rilievo c), motivando, con riguardo agli altri rilievi, che l’Ufficio aveva basato il recupero a tassazione su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973.
In esito all’appello dell’Ufficio – che ribadiva che l’accertamento si fondava anche su indagini bancarie dalle quali era emersa l’emissione di numerosi assegni tratti su diverse banche, nonché l’utilizzo di conti correnti bancari intestati a prestanomi e familiari dei ricorrenti, ed in particolare del conto corrente intestato a C.R., suocera del ricorrente – ed in esito all’appello incidentale dei contribuenti, che contestavano la sentenza impugnata in riferimento al reddito d’impresa ed al reddito di compartecipazione, la Commissione tributaria di secondo grado, dopo avere richiesto la trasmissione di copia integrale del processo verbale di constatazione della Polizia tributaria della Guardia di Finanza, confermava la sentenza di primo grado.
Avverso la decisione ricorreva l’Ufficio che chiedeva preliminarmente la correzione dell’errore commesso nella determinazione del reddito d’impresa da parte dei giudici di primo grado per ciascuno dei ricorrenti, pari a lire 148.320.544 e non al minor importo di lire 129.313.000 accertato anche in secondo grado; presentavano ricorso anche i contribuenti, che contestavano la determinazione del reddito d’impresa perché ricavata da un bilancio informale e non sottoscritto.
La Commissione tributaria centrale, con la decisione impugnata in questa sede, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglieva il gravame dell’Ufficio <<sul punto a) limitatamente all’importo di lire 292.456.900 quali vendite irregolari al netto dei costi d’acquisto come riportati sull’avviso di accertamento; sul punto b) fatture per operazioni inesistenti ricevute dalla ditta V.O. per lire 142.790.560; sul punto
d) limitatamente all’importo di lire 60.598.885 quali vendite irregolari al netto dei costi d’acquisto come riportati sull’avviso di accertamento>>; respingeva l’appello del contribuenti in ordine al rilievo c).
In particolare, rilevava che l’importo degli acquisti dichiarati nell’anno 1982 ammontava a lire 10.239.547.000, per cui gli acquisti irregolari accertati ed emersi in corso di accertamento di lire 5.181.435.000 potevano essere considerati veritieri; a fronte dei corrispettivi dichiarati in lire 9.358.364.0, le operazioni attive determinate dall’Ufficio ammontavano a lire 14.771.283.000, con una differenza recuperata a tassazione di lire 5.412.919.000.
Riteneva legittima la ripresa a tassazione dell’importo di lire 142.790.560, relativo a fatture emesse dalla ditta V.O., risultando provata l’inesistenza delle operazioni commerciali; riconosceva i costi così come ricostruiti dalla Guardia di finanza ed esposti nell’avviso di accertamento; quanto alla contestata non assoggettabilità all’imposta Ilor della quota del reddito d’impresa di A.R., dopo avere posto in rilievo che la questione era stata respinta dai giudici di primo grado e che avverso tale statuizione non era stata proposta impugnazione, rilevava la formazione del giudicato interno con conseguente debenza dell’imposta Ilor da parte della contribuente quale collaboratrice dell’impresa familiare.
Ricorrono per la cassazione della suddetta sentenza E.B. e A.R., con quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo i ricorrenti censurano la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 38, comma 3, 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 2697 cod. civ.
Lamentano, in particolare, che la sentenza non è rispettosa delle norme che attengono alla ripartizione dell’onere della prova ed alla prova presuntiva, considerato che il ricorso alla prova indiziaria sulla quale fondare l’accertamento può ritenersi valido solamente se il fatto ignoto desunto si I presenti come una conseguenza di quello noto accertato in giudizio secondo canoni di regionevole probabilità. Secondo la prospettazione dei ricorrenti, la Commissione Centrale ha riformato la sentenza di secondo grado senza valutare che, nel processo verbale di constatazione del 16 ottobre 198^ l’Ufficio non aveva eccepito la irregolare tenuta delle scritture contabili ed aveva ricostruito la vicenda fattuale sulla base di mere presunzioni semplici; la decisione impugnata, in mancanza di un fatto noto, era pervenuta ad accertare un fatto ignoto, ossia l’occultamento dei ricavi, incorrendo nella violazione del divieto di presunzione di secondo grado.
2. Con il secondo motivo censurano la sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.), costituito dalla valutazione in ordine alla violazione del divieto di doppia presunzione.
L’Ufficio sosteneva che l’accertamento poggiava su una serie di presunzioni dotate dei requisiti di cui all’art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 collegate al fatto noto e documentato rappresentato dall’emissione di assegni circolari tratti sui cd. <<conti B>> presuntivamente utilizzati per pagare le forniture; tali elementi presuntivi non erano stati oggetto di disamina da parte della Commissione Centrale che, in relazione al presunto utilizzo dei conti intestati alla Ronchi per l’attività d’impresa del B., si era limitata a ritrascrivere le medesime conclusioni riportate nel processo verbale di constatazione, manifestando di condividerne il contenuto.
3. Il primo ed il secondo motivo, essendo strettamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.
Con tali censure i contribuenti, in sostanza, si dolgono che la decisione abbia aderito alla ricostruzione fattuale operata dall’Ufficio sulla base delle risultanze del processo verbale di constatazione, attribuendo rilievo agli elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione e senza indicare le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale che rendevano inattendibili nel loro complesso le scritture stesse.
Risulta evidente che i motivi così come formulati investono la valutazione degli elementi di prova operata dalla Commissione Centrale, non riguardando una corretta interpretazione o applicazione delle norme di cui si assume genericamente la violazione, e si risolvono in una richiesta, inammissibile, di valutazione alternativa del materiale probatorio, in contrasto con il principio di diritto, secondo il quale spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass. n. 8023 del 2 aprile 2009; Cass. n. 15737 del 21 ottobre 2003).
Giova rimarcare, sul punto, che la sentenza impugnata ha ancorato la propria valutazione ad una pluralità di elementi desunti dal processo verbale di constatazione, che sono stati analiticamente richiamati in motivazione.
Infatti, la Commissione Centrale ha tenuto conto che:
a) i verificatori, all’esito di un controllo incrociato della ditta B. e della ditta V., hanno riscontrato che la prima utilizzava numerosi conti correnti di diversi istituti bancari, alcuni dei quali venivano riportati regolarmente in contabilità (cd. conti A), mentre altri, come quelli intestati a C.R., suocera del B., e sui quali avevano delega di firma lo stesso B., la moglie A.R. ed il suocero N. R. (cd. conti B), seppure utilizzati per l’attività d’impresa, non venivano indicati in contabilità; dalle movimentazioni effettuate sui predetti conti tramite l’emissione di assegni erano risultate somme corrisposte ai fornitori per lire 1.629.734.390 e ai rappresentanti di commercio per forniture per lire 296.405.698, somme corrisposte per ritiro effetti per lire 34.000.000, somme corrisposte a soggetti diversi per lire 163.521.200 e somme corrisposte a mezzo di assegni circolari per lire 3.000.863.540, per un ammontare complessivo di lire 5.124.524.833;
b) la documentazione sottoposta a controllo e le dichiarazioni rese dal V. avevano fatto emergere che quest’ultimo, titolare di ditta esercente l’attività di commercio al dettaglio di vini e liquori, pur risultando sprovvisto di merce, aveva emesso fatture per operazioni inesistenti in favore del B. a copertura di prodotti mai effettivamente venduti, come emergeva anche dall’anomalo sistema di pagamento avvenuto in contanti e per cifre rilevanti;
c) l’importo degli acquisti dichiarati nell’anno 1982 ammontava a lire 10.239.547.000 a fronte di acquisti emersi in corso di accertamento pari a lire 5.181.435.000, mentre la differenza riscontrata tra i corrispettivi dichiarati e quelli determinati dall’Ufficio, considerate le merci rimaste invendute e presenti in magazzino, poteva essere reintegrata con gli acquisti presi in considerazione.
Gli specifici elementi evidenziati nel processo verbale di constatazione e dettagliatamente richiamati e posti a fondamento del proprio convincimento dalla Commissione Centrale non risultano attinti con specifiche critiche dagli odierni ricorrenti, che si limitano a ribadire, in modo del tutto generico, che gli elementi presuntivi offerti dall’Ufficio non sarebbero dotati dei requisiti di cui all’art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 e che sarebbe stato violato il principio di cd. presunzione di secondo grado, senza tuttavia di fornire prove di segno contrario capaci di dimostrare l’inattendibilità delle risultanze probatorie e la regolarità delle operazioni commerciali.
Va, peraltro, rammentato che la nuova formulaziome del vizio di legittimità, introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, ha limitato la impugnazione per vizio di motivazione alla sola ipotesi di <<omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>, con la conseguenza che, al di fuori di tale omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto <<minimo costituzionale>> richiesto dall’art. 111, comma sesto, Cost.
Pertanto, laddove non si contesti l’inesistenza del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di legittimità può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un <<fatto storico>> controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia <<decisivo>> ai fini di una diversa decisione, non essendo, invece, consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti oppure scartarti perché non pertinenti o recessivi (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014; Cass. n. 19881 del 22/9/2014; Cass. n. 11892 del 10/6/2016).
Rimane dunque estranea al vizio di legittimità ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualsiasi contestazione volta a criticare il convincimento che il giudice si è formato in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, ed operando il conseguente giudizio di prevalenza (Cass. n. 23940 del 12/10/2017).
Nel caso di specie, con il secondo motivo i ricorrenti neppure indicano il fatto storico controverso e decisivo, pretermesso dai giudici di merito, che avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione e, pertanto, il vizio denunciato si appalesa inammissibile perché esclusivamente teso a sollecitare un riesame della valutazione di merito operata dalla Commissione centrale, precluso in questa sede.
4. Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, assumono che la decisione, confermando la indebita deduzione di costi per operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, si basa unicamente sulle dichiarazioni rilasciate dal V. nel corso della verifica, che non possono assumere valore di prova nel procedimento tributario e non possono essere utilizzate se non comprovate da ulteriori elementi di riscontro.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. Va premesso, come più volte ribadito da questa Corte, che <<nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale previsto dall’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice>> (Cass., sez. 5, 7 aprile 2017, n. 9080; Cass. n. 16711 del 2016; Cass. 5 aprile 2013, n. 8639).
4.3. Nel caso in esame, non è configurabile la presunta violazione dell’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto, ferma restando la valenza indiziaria che va riconosciuta alle dichiarazioni rese dal V. nella fase dell’accertamento, la Commissione Centrale ha correttamente ritenuto legittimo l’operato dell’Ufficio e provata la ripresa a tassazione dei costi indebitamente dedotti perché relativi ad operazioni oggettivamente inesistenti avvalendosi della dichiarazione del V. confermata da riscontri documentali che evidenziavano un sistema anomalo di pagamento avvenuto in contanti e per cifre rilevanti, oltre che la mancanza totale di merce da parte del V. (si veda pag. 6 della motivazione).
5. Con il quarto motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, laddove la sentenza afferma che si sarebbe formato il giudicato interno in merito alla statuizione della sentenza di primo grado – non oggetto di specifica impugnazione – che riteneva assoggettabile ad Ilor la quota di reddito d’impresa spettante alla collaboratrice A.R..
Affermano che con la impugnazione incidentale avevano specificamente richiesto l’annullamento della pretesa erariale con riferimento alla rideterminazione del reddito di partecipazione attribuito alla R. per l’importo di lire 129.313.000, quale conseguenza dell’accertamento del reddito operato in capo alla ditta individuale.
Il motivo è fondato.
I giudici della Commissione tributaria di primo grado, pronunciandosi espressamente sul punto, hanno ritenuto che il reddito del collaboratore che coopera nell’attività dell’impresa familiare di cui all’art. 230-bis cod. civ. non avesse natura di reddito di lavoro autonomo e dovesse, al contrario, essere considerato reddito d’impresa, perché parte del reddito prodotto dal titolare dell’impresa familiare.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione Centrale i contribuenti, con l’appello incidentale, hanno chiesto non solo l’annullamento dell’accertamento in ordine al rilievo c), ma anche la riforma della sentenza di primo grado in merito al reddito d’impresa ed al reddito di partecipazione, e, pertanto, sul punto non può ritenersi si sia formato giudicato interno.
La sentenza impugnata va, quindi, cassata sul punto.
In conclusione, il primo, il secondo ed il terzo motivo vanno rigettati e va accolto il quarto motivo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla competente Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, per nuovo esame in relazione alla censura accolta, oltre che per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il primo, il secondo ed il terzo motivo ed accoglie il quarto motivo; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 13 settembre 2018, n. 22349 - Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dall'art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non…
- Corte di Cassazione sentenza n. 9903 depositata il 27 maggio 2020 - Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l'impossibilità di…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 23 febbraio 2022, n. 6031 - Le prove "atipiche", le quali, oltre che soggette alla generale valutazione di attendibilità intrinseca e di compatibilità logica tra le stesse, hanno in ogni caso il valore probatorio proprio degli…
- CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 giugno 2019, n. 17517 - Al contribuente ed all'amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta - in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui al nuovo testo dell'art. 111 Cost. - la…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 11 ottobre 2021, n. 27634 - In tema di processo tributario, al contribuente, oltre che all'Amministrazione finanziaria, è riconosciuta - in attuazione del principio del giusto processo di cui all'art. 6 CEDU, a garanzia della…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 07 ottobre 2021, n. 27253 - Nel caso di sentenza meramente dichiarativa della intervenuta prescrizione il giudice civile deve procedere autonomamente all'accertamento ed alla valutazione dei fatti, anche se non può escludersi la…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- I creditori titolari di un diritto di ipoteca o di
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza n. 8557 depositata il 27…
- Contratto di lavoro a tempo determinato: reiterazi
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili con la sentenza n. 5542 depositata…
- Reato di omesso versamento IVA: responsabile l
La Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 13319 depositat…
- Lavoro a chiamato o intermittente: le regole, i li
Il lavoro intermittente (c.d. lavoro a chiamata) è disciplinato dal D.Lgs. n. 81…
- DURC: congruità della manodopera e campo di applic
Con l’articolo 8 del Decreto Legge n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazion…