CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 aprile 2021, n. 9229
Contratto a tempo determinato – Orario di lavoro – Mancata indicazione dell’orario lavorativo – Emolumento a favore del lavoratore ex art. 8 del d.lgs. n. 61 del 2000 – Natura sanzionatoria – Conseguenze – Liquidazione equitativa – Sussistenza – Sindacabilità in cassazione – Esclusione – Condizioni
Premesso
che con sentenza n. 438/2017, pubblicata il 27 febbraio 2017, la Corte d’appello di Roma ha – per quanto di rilievo ai fini del presente giudizio – confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale della stessa sede aveva condannato la Fondazione O.Z. – Orchestra di Roma e del Lazio a risarcire il danno da omessa collocazione temporale dell’orario di lavoro, ex art. 8, comma 2, del Decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, a favore di M.T. e R.S., già dipendenti della Fondazione in qualità di orchestrali, dal 2003 al 2012 (quando l’Orchestra aveva cessato l’attività), entrambi in forza di contratti a tempo parziale verticale; ha confermato inoltre la sentenza di primo grado nella parte in cui la Fondazione era stata condannata al pagamento, in favore degli stessi, del premio di produzione maturato nell’anno 2011; non ha pronunciato sul capo relativo alla condanna della Fondazione al pagamento della c.d. “indennità vestiario”, ritenendo non proposta su di esso alcuna impugnazione;
– che avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Fondazione con nove motivi, assistiti da memoria, cui hanno resistito i lavoratori con controricorso;
– che il Procuratore Generale ha presentato le proprie conclusioni;
Rilevato
che con il primo motivo viene dedotta la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 39, 112 e 324 cod. proc. civ. per avere la Corte d’appello respinto le eccezioni di litispendenza e di giudicato proposte dalla Fondazione in relazione ad un giudizio fra le stesse parti conclusosi con sentenza medio tempore divenuta definitiva, con la quale era stata rigettata la domanda dei lavoratori, ex art. 8, comma 1, d.lgs. n. 61/2000, diretta alla conversione dei contratti in rapporti a tempo pieno, erroneamente ritenendo che tale domanda e quella proposta nel presente giudizio (risarcimento danni da erronea collocazione temporale dell’orario di lavoro) avessero diversa causa petendi;
– che con il secondo motivo viene dedotta la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101, 112, 113, 324, 416 cod. proc. civ. nonché dell’art. 111 Cost., per non avere la Corte di appello pronunciato sul rilievo di inammissibilità della domanda per violazione del divieto di frazionamento dei giudizi derivanti dal medesimo rapporto di lavoro, nell’erronea considerazione che tale rilievo, sebbene prospettabile anche d’ufficio, fosse stato tardivamente proposto;
– che con il terzo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, comma 7, d.lgs. n. 61/2000 e dell’art. 8, comma 6°, C.C.N.L. per le Fondazioni Lirico – Sinfoniche 11 dicembre 2006 per avere la Corte ritenuto invalida la clausola di “flessibilità” inserita nei contratti individuali di lavoro con la previsione che “il professore d’orchestra si obbliga a rispettare gli orari e ad eseguire il programma che, di volta in volta, verrà indicato dal consigliere delegato dell’Orchestra”, sul rilievo che tale clausola di “flessibilità” rimetteva alla determinazione unilaterale del datore la variazione della collocazione temporale della prestazione degli orchestrali, così presupponendo un requisito di legittimità dell’esercizio dello ius variandi in realtà non stabilito da alcuna delle disposizioni richiamate, le quali non avevano introdotto ulteriori elementi di validità della clausola oltre ad un preavviso di dieci giorni (nel caso di specie pienamente rispettato);
– che con il quarto motivo viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8 d.lgs. n. 61/2000, degli artt. 1218, 1223, 2697 cod. civ. e dell’art. 432 cod. proc. civ. per avere la Corte ritenuto di poter condannare la Fondazione al risarcimento del danno, con liquidazione in via equitativa, nonostante che negli atti introduttivi non fosse contenuta alcuna allegazione concreta circa un qualsiasi pregiudizio subito dai ricorrenti, anche solo ai fini della quantificazione della misura del suo ristoro, erroneamente considerando che il pregiudizio fosse configurabile in re ipsa;
– che con i motivi quinto e sesto viene dedotta la nullità della sentenza impugnata rispettivamente per totale assenza di motivazione e omessa pronuncia relativamente alle censure svolte nei confronti della liquidazione in via equitativa pronunciata all’esito del giudizio di primo grado;
– che con il settimo viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per non avere il giudice di appello tenuto conto di fatti decisivi ai fini della quantificazione del risarcimento, costituiti dalla inesistenza di crediti retributivi per gli anni 2009-2010, a causa della sospensione dell’attività concertistica della Fondazione, e dalla percezione di altri redditi di lavoro;
– che con l’ottavo viene nuovamente dedotta la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 101, 112, 113, 324, 416 cod. proc. civ., nonché dell’art. 111 Cost., per non avere la Corte pronunciato sulla questione del divieto di frazionamento dei giudizi con riferimento alla condanna della Fondazione al pagamento delle quote mensili del premio di produzione maturate nell’anno 2011;
– che con il nono e ultimo motivo viene infine dedotta la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sul motivo di appello concernente la condanna della Fondazione al pagamento della c.d. “indennità vestiario”;
Osservato
che il primo motivo è infondato, avendo la sentenza impugnata esattamente posto in evidenza come, con l’atto introduttivo del giudizio conclusosi con sentenza di rigetto (n. 10346/2010) del Tribunale di Roma (poi divenuta definitiva a seguito di declaratoria di improcedibilità dell’appello), i ricorrenti avessero affermato che nei loro contratti a tempo parziale non era indicata la durata della prestazione ed esclusivamente richiesto, su tale fondamento, ai sensi dell’art. 8, comma 2, d.lgs. n. 61/2000, una pronuncia dichiarativa della sussistenza di rapporti di lavoro a tempo pieno (cfr. sentenza, p. 3) e avendo altresì rilevato, anche alla luce del principio dì diritto affermato da Cass. n. 17707/2015, come petitum e causa petendi di tale domanda fossero invece diversi rispetto a quella oggetto di cognizione, in quanto (cfr. p. 4, 3 0 capoverso) “fondata sulla seconda parte dell’art. 8 comma 2 (omessa determinazione delle modalità temporali della prestazione di lavoro a tempo parziale)”: conclusione, questa, che trova obiettivo e chiaro supporto nei passi riportati degli atti introduttivi del presente giudizio (cfr. ricorso per cassazione, p. 12), là dove è dedotta l’omessa indicazione specifica dell’orario di lavoro e richiesta la fissazione giudiziale dello stesso, in aderenza ai presupposti e al tipo di tutela previsti dalla norma per il caso in cui, stabilita la “durata” della prestazione lavorativa, resti contrattualmente indeterminata la “collocazione temporale dell’orario” e cioè la distribuzione della durata “con riferimento al giorno, alla settimana, al mese o all’anno” (art. 2, comma 2, d.lgs. n. 61/2000);
– che il secondo motivo è infondato, avendo la Corte pronunciato, sia pure in mero rito, sul rilievo di inammissibilità delle domande per violazione del divieto di frazionamento dei giudizi, come risulta dalla sentenza impugnata (p. 4); né risultando trascritti o riportati, nella inottemperanza dell’art. 366, c. 1°, n. 6 cod. proc. civ., i passi delle note difensive autorizzate, in cui la questione di un abusivo frazionamento sarebbe stata sollevata, e ciò al fine di verificare se, e in quali termini, fosse stato contestato “in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata” (Sez. Unite n. 4090/2017);
– che il terzo motivo è inammissibile;
– che esso, infatti, muove anzitutto da un presupposto che non trova alcun riscontro nella motivazione della sentenza, poiché la Corte di appello, contrariamente a quanto dedotto, non ha affatto considerato che la previsione il professore d’orchestra si obbliga a rispettare gli orari e ad eseguire il programma che, di volta in volta, verrà indicato dal consigliere delegato dell’Orchestra integrasse un patto di “flessibilità” (o di “variabilità” della collocazione temporale della prestazione lavorativa), ma, valutandone il significato, ha ritenuto che tale previsione dei contratti individuali avesse “ad oggetto il contenuto oggettivo della prestazione” e fosse “assolutamente priva di specifiche indicazioni sulla variazione della collocazione temporale della prestazione” (cfr. p. 12); né l’accertamento così compiuto dalla Corte ha formato oggetto di alcuna critica di ordine interpretativo da parte della Fondazione ricorrente, attraverso il richiamo ai canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. cod. civ. e la dimostrazione della loro avvenuta violazione;
– che, d’altra parte, la possibilità di variare la distribuzione temporale della prestazione, e cioè di conferire “flessibilità” o “elasticità” allo svolgimento di una prestazione lavorativa già temporalmente definita, è rimessa esplicitamente ad un momento di specifica intesa contrattuale fra le parti e ciò sia dall’art. 3, comma 7, d.lgs. n. 61/2000, sia dal C.C.N.L. per le Fondazioni Lirico – Sinfoniche applicabile ratione temporis ai rapporti dedotti in giudizio, sicché il motivo risulta anche e comunque infondato, non potendo il vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. ritenersi in alcun modo configurato nel caso di specie;
– che i motivi dal quarto al settimo, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono parimenti infondati;
– che al riguardo deve, in primo luogo, rilevarsi che nella sentenza impugnata è fatta esatta applicazione del principio, per il quale “In tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il datore di lavoro che ometta di indicare l’orario lavorativo, non unilateralmente variabile ai sensi degli artt. 3, comma 7, e 9 del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, è tenuto a corrispondere al lavoratore un ulteriore emolumento, ex art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 61 cit., alla cui liquidazione il giudice può provvedere equitativamente senza necessità della prova del danno procurato – che deriva dall’obbiettivo disagio subito dal lavoratore per l’unilaterale determinazione del datore di lavoro delle modalità temporali di svolgimento della prestazione – trattandosi di misura di natura sanzionatoria” (Cass. n. 8882/2015);
– che, inoltre, è da ribadirsi il principio, secondo il quale “L’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (Cass. n. 24070/2017; conforme Cass. n. 5090/2016): e ciò è quanto emerge dalla sentenza impugnata, là dove la disposta quantificazione dei danno in via equitativa è preceduta e sorretta da un’adeguata ricostruzione fattuale delle vicende dell’Orchestra e dei rapporti di lavoro nel corso degli anni, a proposito dei quali è rilevata “una certa dose di flessibilità non previamente autorizzata, anche se minima” tale da giustificare la misura risarcitoria del 20% delle retribuzioni annuali (cfr., in particolare, pp. 12-13);
– che l’ottavo motivo risulta inammissibile, alla stregua delle osservazioni già svolte in sede di esame del secondo motivo e riferibili anche al presente e non risultando, in ogni caso, che la questione sia stata specificamente posta nei gradi di merito;
– che è invece fondato, e deve essere accolto, il nono motivo di ricorso, avendo la Corte ritenuto che non fosse stata “proposta alcuna impugnazione” riguardo alla c.d. “indennità vestiario” (cfr. “svolgimento del processo”, p. 3) e di essa conseguentemente non avendo in alcun modo discusso nella motivazione della sentenza, mentre anche il relativo capo della decisione di primo grado ha formato oggetto di specifico gravame da parte della Fondazione appellante;
Ritenuto
conclusivamente che, in accoglimento del nono motivo di ricorso, rigettati gli altri, l’impugnata sentenza n. 438/2017 della Corte di appello di Roma deve essere cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla medesima Corte in diversa composizione, la quale provvederà a esaminare il motivo di gravame della Fondazione relativo alla condanna pronunciata dal giudice di primo grado a titolo di “indennità di vestiario”
P.Q.M.
Accoglie il nono motivo di ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
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