CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 aprile 2022, n. 11172
Licenziamento per giusta causa – Dirigente – Violazione del dovere di fedeltà – Principio di correttezza e buona fede – Retribuzione di risultato – Sospensione su accordo delle parti
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda del dirigente A.M. intesa all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 20 febbraio 2017 da A.- The Italian Innovation Company s.p.a. ed alla condanna della società datrice alla indennità sostitutiva del preavviso, all’indennità supplementare, alla parte variabile della retribuzione in relazione agli anni 2007 -2016, ad eccezione dell’anno 2009, al risarcimento del danno con riferimento alle spese sostenute all’estero di alloggio, scolastiche, di viaggio e trasporto;
2. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.M. sulla base di sei motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis-1.1 cod. proc. civ.;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2105, 2106, 2119 cod. civ., dell’art. 3 I. n. 604/1966, dell’art. 7 I. n. 300/1970 anche alla luce dell’art. 47 Cost. Premesso che la condotta addebitata era costituita dall’avere il M., dirigente della società A., avuto contatti, all’insaputa della datrice di lavoro, con il socio di una società concorrente per l’ acquisizione in proprio di una quota societaria della medesima società – trattativa mai perfezionatasi e senza peraltro che vi fosse stata divulgazione dei dati della società datrice di lavoro – , censura la sentenza impugnata per avere ricondotto la fattispecie all’ambito della violazione del dovere di fedeltà gravante sul lavoratore ai sensi dell’art. 2105 cod. civ.; evidenzia in particolare che nella condotta ascritta non era ravvisabile alcuna violazione dell’obbligo di non concorrenza contemplato dall’art. 2105 cod. civ. e che neppure poteva attribuirsi concreto rilievo, alla stregua dei principi regolanti la materia, alla mera potenzialità lesiva del comportamento tenuto; sotto altro profilo, si duole della mancata considerazione, nella valutazione dell’addebito, di altri valori di rilievo costituzionale quali la tutela del risparmio ex art. 47 Cost. e l’obiettivo di investimento e partecipazione azionaria ai quali era finalizzata la operazione avviata con la società concorrente;
2. con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 cod. civ. in connessione con gli art. 1176 e 1275 cod. civ., anche alla luce dell’art. 47 Corte cost., censurando la sentenza impugnata per avere valorizzato la potenzialità lesiva della condotta ed avere richiamato gli artt. 1176 e 1375 cod. civ. in tema correttezza e buona fede di condotta, previsioni queste ultime che, come chiarito dal giudice di legittimità, costituiscono fonti di obblighi accessori ma non possono fondare autonome posizioni obbligatorie;
3. con il terzo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ., sotto il diverso profilo del vincolo fiduciario che, a differenza di quanto affermato nella sentenza impugnata, sostiene non suscettibile di essere leso da un comportamento del tutto lecito, privo di ogni conseguenza pratica quale quello in concreto tenuto dal dirigente; tanto escludeva la configurabilità della giusta causa di licenziamento con diritto del lavoratore alla indennità sostitutiva del preavviso nella misura prevista dal contratto collettivo applicabile alla fattispecie;
4. con il quarto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione delle norme del c.c.n.l. per i dirigenti di aziende produttrici di beni e servizi (artt. 22 e 19) anche alla luce dell’art. 47 Cost., contestando la valutazione di giustificatezza del licenziamento, stante l’assenza di circostanze idonee a turbare il vincolo fiduciario, rilevanti sul piano giuridico, e considerato che la condotta tenuta si collocava nell’ambito della tutela del risparmio e degli investimenti, aventi protezione costituzionale ex art. 47 Cost., per cui sussisteva il diritto all’indennità supplementare prevista dalla norma collettiva;
5. con il quinto motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 346, 434, 115 e 420 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. nonché omesso esame di fatto controverso e decisivo, oggetto di discussione fra le parti, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto inammissibile il motivo di gravame relativo alla retribuzione di risultato (cd. quota variabile della retribuzione); sostiene che al contrario di quanto affermato dal giudice di appello, con il proprio atto di gravame aveva criticato la ricostruzione in fatto e in diritto operata dal giudice di primo grado riguardo a detto emolumento.
6. con il sesto motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e sgg. cod. civ., dell’art. 36 Cost., degli artt. 2099, 1358, 1359, 1375, 1355, 1419, 1218, 1223, 1226 e 1453, comma 1, cod. civ. , degli artt. 3 e 6 bis c.c.n.l. applicabile, censurando il mancato riconoscimento del premio di risultato (Management By Objective, c.d. MBO) o del diritto al risarcimento del danno. Si duole, in particolare, della violazione degli artt. 115 cod. proc. civ e 1362 e sgg. cod. civ. per avere il giudice di appello fondato il rigetto della domanda relativa al premio di risultato esclusivamente sulla comunicazione unilaterale relativa al raggiungimento degli obiettivi dell’anno 2006, comunicazione che non poteva considerarsi espressiva della comune volontà delle parti, alla luce delle complessive intese intervenute tra le parti;
7. il primo ed il secondo motivo di ricorso, esaminati congiuntamente per connessione, sono infondati;
7.1. si premette che la condotta alla base del licenziamento è costituita dall’avere il M., durante il periodo in cui ricopriva la carica di Director Presidente Adjunto presso la società A. do Brazil, ove era stato distaccato dalla datrice di lavoro A. -The Italian Innovation Company, condotto delle trattative finalizzate all’acquisto di una partecipazione al capitale sociale della Transormar Operacoes e Asessoria Especializada, società concorrente operante nel medesimo settore di mercato; le trattative non erano andate a buon fine;
7.2. la Corte di merito ha ritenuto che tale comportamento integrasse violazione del dovere di fedeltà che imponeva un obbligo di leale comportamento nei confronti del datore di lavoro da collegarsi alle regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.; in base ad esso il dirigente doveva astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 cod. civ. ma anche da tutti quelli che per loro natura e conseguenze apparivano in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creavano conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o risultavano comunque idonei a ledere il presupposto fiduciario del rapporto stesso;
7.3. tanto premesso, in relazione alle doglianze articolate con i motivi in esame, si osserva che non sussiste il denunziato errore di diritto in relazione alla definizione dell’ambito di operatività del dovere di fedeltà ex art. 2105 cod. civ. in quanto la decisione di appello è conforme al consolidato e condivisibile indirizzo della S.C. che riconosce al dovere di fedeltà del dipendente un contenuto più ampio di quello desumibile dall’art. 2105 cod. civ. dovendo tale precetto integrarsi con il principio di correttezza e buona fede (Cass. n. 144/2015, Cass. n. 8711/2017, Cass. 2474/2008) a tal fine venendo in rilievo anche la mera potenzialità lesiva della condotta (Cass. n. 2474/2008, Cass. n. 7990/2000); nello specifico l’elevato livello ricoperto dal M. implicava una particolare pregnanza dell’obbligo di correttezza e buona fede dallo stesso esigibile; ciò anche in relazione ai possibili riflessi negativi per la immagine della società in caso di diffusione all’esterno della vicenda nella quale era stato coinvolto oltre che per l’obiettivo pericolo di condotte emulative da parte di altri dipendenti;
7.4. la specifica questione del contemperamento dell’interesse datoriale asseritamente leso dalla condotta sanzionata, con la copertura costituzionale che l’art. 47 Cost. riserva al risparmio ed alle sue forme di investimento, questione implicante accertamento di fatto, costituisce un profilo non affrontato dalla Corte di merito, per cui, a fronte di ciò, onde impedire una valutazione di novità della questione, era onere del ricorrente quello di allegare l’avvenuta deduzione di esso innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione e di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. n. 20694/2018, Cass. n. 15430/2018, Cass. n.23675/2013), come viceversa non è avvenuto;
8. il terzo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di valida censura alla statuizione del giudice di merito relativa alla sussistenza della giusta causa;
8.1. va ricordato che la giusta causa è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici ( cfr., tra le altre Cass. n. 6498/2012, Cass. n. 5095/2011, Cass. n. 8254/2004,). L’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. (norma c.d. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento – mediante riferimento alla “coscienza generale”, è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 9266/2005, v. pure Cass. n.4984/2014);
8.2. le censure articolate dall’odierno ricorrente non si conformano a tali indicazioni in quanto non risultano incentrate sulla non coerenza del giudizio sussuntivo del fatto accertato nella nozione legale di giusta causa rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale ( Cass. n. 13534/2019) ma si limitano ad una mera contrapposizione valutativa della idoneità della condotta accertata a ledere il vincolo fiduciario;
9. la inammissibilità del terzo motivo di ricorso, implicante definitività dell’accertamento della sussistenza della giusta causa di licenziamento, assorbe l’esame del quarto motivo di ricorso incentrato sulla ingiustificatezza del recesso datoriale ai fini del riconoscimento della indennità prevista dalla norma collettiva; in relazione alla prospettata violazione dell’art. 47 Cost. si richiamano le osservazioni formulate al paragrafo 7.4. in tema di novità della questione;
10. il quinto ed il sesto motivo di ricorso, esaminati congiuntamente per connessione, sono infondati;
10.1. il giudice di appello, in relazione alla retribuzione di risultato (cd. MBO), ha osservato che il relativo trattamento era stato rinegoziato con il contratto del 22.1.2007 ed evidenziato che l’appellante M. non solo non aveva contestato in primo grado quanto dedotto da controparte nella memoria di costituzione in prime cure circa la insussistenza dei presupposti per il godimento della provvidenza ma, soprattutto, aveva sottoscritto per accettazione la lettera del 23 aprile 2007 con la quale la società si era riservata, per il futuro, sia di mutare i parametri di riferimento adottati, sia di sperimentare altri sistemi di incentivazione, sia, infine, di abbandonare ogni forma di incentivazione; ha inoltre rilevato come la decisione aziendale di sospendere l’assegnazione degli MBO al personale dirigenziale costituiva « circostanza non contestata dall’odierno appellante in quanto nelle note autorizzate in primo grado in data 14.5.2018 non ha effettuato alcun rilievo a riguardo, come viene rilevato dal giudice di prime cure a pag. 10 della gravata sentenza»; in altri termini, il giudice di appello ha fondato la statuizione di rigetto della pretesa relativa alla retribuzione di risultato sia sulla mancata contestazione delle deduzioni difensive al riguardo svolte in prime cure dalla società convenuta, sia sull’esistenza di un documento di natura contrattuale (lettera del 23 aprile 2007, accettata dal dirigente) dal quale emergeva che le parti avevano modificato le precedenti intese relative al MBO;
10.2. la ricostruzione del giudice di appello in ordine alle intese contrattuali intervenute tra le parti con riferimento alla comunicazione del 23 aprile 2007 ed alla successiva scelta della società di sospendere l’assegnazione del MBO al personale dirigente, ricostruzione che nella economia della motivazione si configura come autonoma ratio decidendi, idonea di per sé sola a sorreggere il rigetto della pretesa sul punto del M., non è validamente censurata; ciò in quanto il ricorrente, nel denunziare la errata interpretazione della comune volontà delle parti ed, in particolare, nel contestare, con riferimento alla lettera del 23 aprile 2007, la esistenza di un accordo negoziale che consentiva alla società di modificare i parametri di riferimento o addirittura di abbandonare ogni forma di incentivazione omette, come suo specifico onere ai sensi dell’art. 366, comma 1 n. 6) cod. proc. civ. (Cass. n. 29093/2018, Cass. n. 195/2016, n. 16900/2015, Cass. n. 26174/ 2014, Cass. n. 22607/2014, Cass. Sez. Un. n. 7161/2010), di trascrivere il testo integrale del documento in questione (essendo insufficiente a consentire la verifica della fondatezza della censura, la trascrizione contenuta nella nota n. 4 di pag. 17 del ricorso per cassazione, limitata al solo ” oggetto” della comunicazione ed alla sua parte finale).; analogo difetto di specificità, derivante dalla mancata integrale trascrizione degli atti di riferimento ed in particolare del contenuto della memoria di costituzione della società in primo grado e del contenuto delle note autorizzate in primo grado del 14.5.2018, si rinviene in ordine alla doglianza relativa all’omesso rilievo della contestazione in merito alla circostanza rappresentata dalla decisione della società di sospendere l’assegnazione del MBO; le considerazioni che precedono assorbono l’ulteriore rilievo di inammissibilità connesso alla modalità di deduzione della violazione dei criteri legali di interpretazione, non conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale ha chiarito che a tal fine non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice se ne è discostato non essendo a tal fine sufficiente la mera prospettazione di un possibile differente risultato ermeneutico (v. tra le altre, Cass. n. 9461/2021, Cass. n. 4178/2007); è inoltre da osservare che per i giudizi, come il presente, ai quali si applica ratione temporis il vigente art. 360, n. 5 cod. proc. civ. (derivante dalla modifica di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134) – che ha molto limitato l’ambito di applicabilità del controllo di legittimità sulla motivazione – il vizio della motivazione non costituisce più ragione cassatoria ed è sindacabile in sede di legittimità soltanto la motivazione del tutto mancante, ovvero affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili, oppure se in essa si riscontri l’omesso esame di un fatto storico decisivo, con la conseguente riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione (vedi per tutte: Cass. Sez. Un. n. 8053/2014, Cass. Sez. Un. n. 19881/2014,; Cass. n. 12928/2014). Le suddette evenienze qui non si verificano, sicché la relativa censura risulta inammissibile;
10.3. parimenti inammissibili sono le ulteriori censure articolate dal ricorrente che deducono la nullità ex art. 2077 e 2103 cod. civ. della modifica peggiorativa relativa al MBO, per contrasto con le previsioni del contratto collettivo in tema di retribuzione variabile e per violazione del principio di irriducibilità della retribuzione; analogamente deve ritenersi in relazione ai motivi che denunziano violazione dell’art. 36 Cost., in tema di retribuzione adeguata e sufficiente, degli artt. 1358 e 1359 cod. civ. (in tema di condizione che si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento), dell’art. 1355 cod. civ. (in tema di condizione potestativa); tali censure introducono questioni, implicanti accertamento di fatto, non affrontate dalla Corte di merito per cui onde impedire una valutazione di novità delle stesse, costituiva onere del ricorrente quello di allegare l’avvenuta deduzione di esse innanzi al giudice di merito ed inoltre, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo avesse fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito (Cass. n. 20694/2018, Cass. n. 15430/2018, Cass. n. 23675/2013), come viceversa non è avvenuto.
11.al rigetto del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza;
12. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dell’art.13 d. P.R. n. 115/2002 (Cass. Sez. Un. n. 23535/2019)
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in € 6.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
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