CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 dicembre 2018, n. 31624
Tributi – Accertamento – Imposte sui redditi ed IVA – Studi di settore e redditometro – Attività di intermediari del commercio – Misura inadeguata e poco attendibile della percentuale della provvigione fissata in contratto – Rideterminazione dei ricavi – Legittimità
Rilevato che
S.G. propone ricorso, affidato ad un unico motivo, per la cassazione della sentenza della C.T.R. della Puglia n. 89/13/11, che ha accolto parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e determinato i maggiori ricavi accertati in euro 84.097,00, riformando la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso del contribuente concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento ai fini Iva, Irpeg e Irap, in relazione all’anno d’imposta 2003, emesso a seguito di rideterminazione dei ricavi ottenuta sulla base dell’applicazione dello studio di settore TG61A inerente l’attività di impresa di “Intermediari del commercio di prodotti ortofrutticoli” e sulla base di quanto risultante dal cd. “redditometro” di cui all’art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600/1973.
L’Agenzia delle Entrate si costituisce con controricorso, formulando preliminarmente eccezione di inammissibilità del ricorso per omessa indicazione delle norme di legge che si presumono violate.
Considerato che
1. Con l’unico motivo di ricorso, il contribuente – deducendo “violazione di legge ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.”- lamenta che la Commissione regionale ha errato nel ritenere che la percentuale delle provvigioni stabilita contrattualmente tra le parti, pari a 0,25%, sia inadeguata e conseguentemente poco attendibile e sostiene che non è possibile ipotizzare l’esistenza di provvigioni in evasione d’imposta, “atteso che per gli agenti di commercio di primarie aziende i ricavi di impresa sono “blindati” in quanto trattasi di agenti di commercio monomandatari” ed è conseguentemente inverosimile l’esistenza di maggiori ricavi.
Evidenzia, altresì, che la Commissione regionale ha disatteso lo studio di settore ed ha considerato, in violazione di quanto stabilito contrattualmente tra le parti, una percentuale di provvigioni dal 2,7% al 20,6% sulla base di intese raggiunte su sede nazionale.
2. La difesa erariale, nel controricorso, ha eccepito la inammissibilità della censura, sottolineando che il ricorrente ha omesso di indicare in modo specifico le norme di legge che ritiene violate dalla pronuncia di secondo grado e, nel merito, ha contestato la fondatezza del motivo di ricorso.
3. Il motivo è inammissibile.
4. La omessa indicazione delle norme che si assumono violate non integra un requisito autonomo ed imprenscindibile per l’ammissibilità della censura, ma è piuttosto funzionale a chiarirne il contenuto, sicchè la omissione può comportare l’inammissibilità della doglianza solo se gli argomenti addotti dal ricorrente non consentano di individuare le norme ed i principi di diritto asseritamente trasgrediti, precludendo in tal modo la delimitazione delle questioni sollevate (Cass. n. 25044 del 7/11/2013; n. 21819 del 20/9/2017).
5. Nella specie, la censura, così come formulata, non consente di evincere quale norma sia stata violata con la decisione adottata e, quindi, di individuare le questioni sollevate.
6. Peraltro, il motivo di ricorso è comunque inammissibile, in quanto la doglianza sollevata dal ricorrente è sostanzialmente volta a censurare un vizio motivazionale ed a proporre una ricostruzione alternativa a quella riscontrata dal giudice di appello, in modo da sostituire alla valutazione sfavorevole effettuata dai giudici di merito una più consona alle proprie concrete aspirazioni.
Costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo cui non è consentito alla parte censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella decisione impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito e questo perché il controllo affidato alla Corte “non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice di merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità” (Cass. n. 20012 del 24/9/2014; n. 18074 del 20/8/2014; n. 25332 del 28/11/20149).
7. La C.T.R. si è pronunciata in merito all’accertamento operato dall’Ufficio e, operando un apprezzamento di fatto, ha ritenuto inadeguata e poco attendibile la percentuale della provvigione fissata in contratto dalle parti nella misura dello 0,25%, anche alla luce “del maggior reddito determinato con la metodologia del “redditometro”, avverso il quale il contribuente non aveva opposto circostanziate e documentate diverse risultanze”, ed ha, pertanto, rideterminato la pretesa tributaria, sulla base delle indicazioni dello studio di settore e di quelle specifiche evidenziate dal contribuente, attenendosi al risultato settoriale costituito dal “ricavo minimo ammissibile”.
Ne consegue che la richiesta di rivalutazione degli elementi probatori già sottoposti al giudizio della Commissione regionale, formulata dal ricorrente, concretandosi in una istanza di rinnovazione del giudizio afferente ad un accertamento di fatto che risulta congruamente motivato, non può essere accolta.
8. Conclusivamente, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente al rimborso, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 3.800,00, oltre alle eventuali spese prenotate a debito.
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