CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 febbraio 2019, n. 3458
Tributi diretti – IRPEF – Istanza di rimborso – Acquisto di azioni – Diritto di opzione – Prezzo stimato – Rivalutazione
Rilevato che
1. G. A., dipendente dell’A. Spa, nel 2004, riceveva i diritti di opzione per l’acquisto di azioni dell’A. I. 1 Sa (società non quotata in borsa), controllante di A. Spa, al prezzo di euro 148.750,00, che il contribuente, nel 2005, provvedeva a rivalutare, ad un prezzo stimato di euro 202.692,00, versando l’imposta sostitutiva;
il 15/12/2006 il contribuente esercitava il diritto d’opzione, rivendendo, contestualmente, i titoli al prezzo complessivo di euro 864.568,77;
ai sensi dell’art. 51, comma 2, lettera g-bis del d.l. 262/2006, convertito nella legge n. 286/2006, il datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, assoggettava a ritenuta IRPEF la differenza (euro 715.818,78) tra il prezzo di vendita delle azioni (euro 864.568,78) ed il prezzo di esercizio dei diritti di opzione, secondo il valore del 2004 (euro 148.750,00), con una ritenuta complessiva di euro 256.546,45;
nel 2010 il contribuente presentava all’Agenzia delle entrate un’istanza di rimborso, assumendo l’erronea applicazione, da parte del datore di lavoro, della disciplina fiscale, meno favorevole, vigente all’epoca dell’assegnazione delle azioni (anno 2006), in luogo di quella, più favorevole, vigente all’epoca dell’assegnazione” delle “stock options” (anno 2004); in particolare, secondo il contribuente, gli sarebbe spettato un rimborso pari alla differenza tra l’IRPEF e le addizionali pagate (da un lato) e l’imposta sostitutiva del 12,50% prevista per i capitai gains (dall’altro);
2. con ricorso alla CTP di Torino, il contribuente impugnava il silenzio- rifiuto dell’Amministrazione finanziaria ed il giudice di primo grado, con sentenza n. 52/2011, rigettava la domanda;
avverso tale decisione, il contribuente ha proposto appello innanzi alla CTR del Piemonte che, con la sentenza indicata in epigrafe, ha accolto il gravame;
la Commissione tributaria regionale, in sintesi, ha affermato che: a) con i piani di stock options la società offre ai dipendenti il diritto ad acquistare o a sottoscrivere un pacchetto delle sue azioni (o di altra società del medesimo gruppo), in un lasso di tempo prestabilito e determinato, nella prospettiva di legare alcuni componenti della retribuzione all’andamento dei titoli, per incentivare i dipendenti a migliorare le proprie prestazioni professionali o per fidelizzarli; b) sul piano civilistico, le stock options integrano una fattispecie complessa, a formazione progressiva, che conferisce al titolare un’aspettativa, suscettibile di trasformarsi in un vero e proprio diritto solo se il rapporto di lavoro non si interrompe nel c.d. vesting period (periodo di maturazione intercorrente tra l’offerta e il termine iniziale per l’esercizio del diritto d’opzione); c) in assenza di una disciplina transitoria dei “piani di opzione in corso” (ossia deliberati, ma non ancora attuati), alla data di entrata in vigore del d.l. n. 262/2006 (3/10/2006) – che ha modificato il regime fiscale delle stock options, con applicazione della (più favorevole) aliquota del 12,5%, subordinata al verificarsi di alcune condizioni, in precedenza non richieste, con decorrenza dal 1°/01/2007 -, per individuare il regime fiscale applicabile, nel rispetto dell’art. 3, comma 1, della I. n. 212/2000, per il quale, di regola, le disposizioni tributarie non hanno effetti retroattivi, occorre fare riferimento a quello (più favorevole) vigente all’avvio dell’operazione (anno 2004), anziché a quello (meno favorevole) vigente al momento dell’esercizio del diritto d’opzione (anno 2006); d) trattandosi di agevolazione, è condivisibile la distinzione, prospettata dal contribuente, tra presupposto impositivo e presupposto generatore del diritto all’agevolazione; pertanto, è corretto affermare che è il secondo presupposto (risalente al 2004) e non il primo presupposto (verificatosi nel 2006), testualmente “a determinare il diritto a fruire del beneficio” (cfr. pag. 4 della sentenza); e) del pari, è corretto il richiamo del contribuente all’art. 3, comma 1, della I. n. 212/2000, laddove è stabilito che: “Relativamente ai tributi periodici le modificazioni introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono.”, trattandosi nella specie – appunto – di un tributo periodico; f) occorre anche riconoscere il “valore fiscale” derivante dalla rivalutazione delle azioni in quanto, prima del d.l. n. 262/2006, l’incremento del valore delle azioni, tra il momento di attribuzione del diritto di opzione e il momento di esercizio di tale diritto, era escluso dal reddito di lavoro dipendente ed era sottoposto alla tassazione dei redditi diversi, ai sensi dell’art. 81, primo comma, lett. c), TUIR (temporalmente vigente);
3. l’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza della CTR, sulla base di tre motivi; il contribuente resiste con controricorso, illustrato con una memoria ex art. 380-bis 1. cod. proc. civ.;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso, denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), in relazione all’art. 51, comma 2, lett. g-bis e comma 2-bis, TUIR (allora vigente), l’Ufficio premette che la questione controversa riguarda il regime di tassazione applicabile alla plusvalenza data dalla differenza tra il prezzo di vendita delle azioni (dicembre 2006) e il prezzo d’esercizio dei diritti di opzione al momento dell’assegnazione dei titoli (anno 2004); censura, quindi, la sentenza impugnata per avere affermato l’applicabilità del detto art. 51, comma 2, lett. g-bis TUIR, nella formulazione vigente nel 2004 – che, con una disciplina di favore per il contribuente, prevedeva la tassabilità della plusvalenza solo all’atto di vendita delle azioni, per le quali era stato esercitato il diritto d’opzione, coll’applicazione dell’aliquota del 12,5% dei capitai gains, in presenza di due condizioni (che il contribuente era in grado di soddisfare) -, in luogo della disciplina, meno favorevole, introdotta nel 2006, da ultimo con il succitato d.l. n. 262/2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 286/2006 -, che subordinava il regime fiscale di favore al concorso di ulteriori condizioni che il contribuente non era in grado di rispettare;
l’Ufficio critica i presupposti giuridici del ragionamento della CTR, secondo cui osterebbero all’applicabilità della disciplina meno favorevole del 2006, per un verso, il divieto di retroattività delle norme tributarie, per altro verso, la prescrizione secondo cui, per i tributi periodici, le modifiche normative valgono solo a partire dall’esercizio successivo a quello in cui è entrata in vigore la nuova norma;
con riguardo al primo aspetto (mentre la doglianza relativa alla nozione di tributo periodico, è oggetto del secondo motivo di ricorso), l’Ufficio rimarca che solo quando il dipendente esercita il diritto d’opzione (il che, nella specie, è avvenuto il 15/12/2006) le azioni gli sono assegnate e, quindi, concorrono a formare il suo reddito, sicché, nel caso in esame, senza alcuna violazione del divieto di retroattività delle norme fiscali, è stata applicata la disciplina dell’art. 51, comma 2, lett. g-bis, TUIR, come modificato dal d.l. n. 262/2006, entrato in vigore il 4/07/2006;
2. con il secondo motivo, denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), in relazione all’art. 51, comma 2, lett. g-bis e comma 2-bis, TUIR (temporalmente vigente), l’Ufficio censura la CTR per avere ricondotto l’obbligazione oggetto del giudizio alla categoria dei “tributi periodici” (come, a titolo d’esempio, l’IRPEF, che hanno quale presupposto una fattispecie che si prolunga nel tempo), per i quali vige il principio d’ultrattività della norma tributaria (ex art. 3, comma 1, dello Statuto del contribuente), laddove, invece, il presupposto impositivo delle stock options viene ad esistenza nel momento in cui il dipendente esercita il diritto d’opzione sulle azioni che gli furono offerte, ed è a quel momento che occorre fare riferimento per individuare il regime fiscale applicabile;
assume, pertanto, che quando, in data 15/12/2006, il contribuente ha esercitato il diritto d’opzione ed ha poi contestualmente venduto le azioni, vigente la disciplina del d.l. n. 262/2006 (entrato in vigore il 4/07/2006), egli era carente delle condizioni per fruire del regime fiscale agevolato, ragione per cui, correttamente, il datore di lavoro aveva considerato la plusvalenza come reddito di lavoro dipendente;
2.1. i primi due motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono fondati;
2.1.1. questa Corte, anche di recente (Cass. 20/06/2018, n. 16227; 17/07/2018, n. 18917), ha avuto modo di affermare che, per effetto del d.l. n. 262/2006, la disciplina impositiva delle stock options è stata radicalmente modificata, con l’inserimento di ulteriori tre condizioni (in aggiunta alle due condizioni previste in precedenza);
l’art. 51, comma 2, lett. g-bis, TUIR (rubricato “Determinazione del reddito di lavoro dipendente”), prevede, dal 2/10/2006, che “[Non concorrono a formare il reddito] la differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente, a condizione che il predetto ammontare sia almeno pari al valore delle azioni stesse alla data dell’offerta; se le partecipazioni, i titoli o i diritti posseduti dal dipendente rappresentano una percentuale di diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento, la predetta differenza concorre in ogni caso a formare il reddito;”;
l’art. 51, comma 2-bis (vigente ratione temporis), inoltre, stabilisce che: “[…] La disposizione di cui alla lettera g-bis del comma 2 si rende applicabile esclusivamente quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: a) che l’opzione sia esercitarle non prima che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; b) che, al momento in cui l’opzione è esercitabile, la società risulti quotata in mercati regolamentati; c) che il beneficiario mantenga per almeno i cinque anni successivi all’esercizio dell’opzione un investimento nei titoli oggetto di opzione non inferiore alla differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente.”;
questa Corte di legittimità ha stabilito che, in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente, la disciplina di tassazione applicabile “ratione temporis” alle cosiddette “stock options” va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del dipendente, a prescindere dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato (Cass. 12/04/2017, n. 9465; in senso conforme: Cass. 20/05/2011, n. 11214; n. 13088/2012; n. 11413/2015);
tornando alla presente vicenda tributaria, il diritto di opzione, con l’acquisto delle azioni, è stato esercitato il 15/12/2006, quando era già in vigore il d.l. n. 262/2006;
a ciò si aggiunga che il riferimento alla disciplina del d.l. n. 262/2006 non comporta alcuna applicazione retroattiva della norma tributaria, poiché, per quanto si è appena detto, l’operazione alla quale consegue la tassazione non va individuata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio del diritto di opzione mediante l’acquisto delle azioni, che è rimesso alla libera scelta del beneficiato, il quale può esercitarlo o meno secondo le modalità ed i tempi che riterrà opportuni, alla stregua delle proprie insindacabili valutazioni (Cass. 12/04/2017, n. 9465);
inoltre, le disposizioni dello Statuto del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse (Cass. 6/09/2017, n. 20812);
2.1.2. con riferimento alla seconda doglianza dell’Ufficio – ossia che la CTR avrebbe errato nel ricondurre la tassazione della plusvalenza nell’alveo dei “tributi periodici”, per i quali vige il principio d’ultrattività della norme fiscali (art. 3, comma 1, della legge n. 212/2000) -, è il caso di richiamare il condivisibile indirizzo della Corte che, in passato, ha stabilito che: “quand’anche il principio possa riguardare modifiche normative introdotte in materia di esenzione da imposta, resta fermo che il presupposto applicativo sia la periodicità. Nel caso che ci occupa all’oggetto della disciplina – la regolamentazione fiscale delle stock options – è del tutto estraneo il carattere della periodicità, non potendosi neppure configurare una tipologia di agevolazione con carattere pluriennale.” (Cass. 17/07/2018, n. 18917);
2.1.3. in definitiva, la CTR ha erroneamente riconosciuto il diritto del contribuente all’agevolazione fiscale, disattendendo i principi di diritto appena enunciati, ragione per cui entrambi i motivi d’impugnazione si appalesano fondati;
3. con il terzo motivo, denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 5, della legge n. 448/2001, cui rinvia l’art. 11-quaterdecies, comma 4, del d.l. n. 203/2005 (convertito dalla legge n. 248/2005) e la conseguente erronea applicazione dell’art. 81 (ora art. 67), comma 1, lett. c, c-bis TUIR, l’Ufficio censura la CTR per avere riconosciuto la correttezza della rivalutazione delle stock options che, invece, secondo la tesi erariale, non generano plusvalenze perché sono prive di un prezzo di acquisto e di vendita, non sono cedibili a titolo oneroso e non rientrano nemmeno nei “redditi diversi”, il cui valore può essere rivalutato ai fini fiscali, essendo, invece, inquadrabili nei “redditi di lavoro dipendente”;
3.1. il motivo è fondato;
ai sensi dell’art. 81, comma 1, lett. c), c-bis), TUIR (vigente ratione temporis), sono imponibili, come “redditi diversi”, le plusvalenze realizzate mediante la cessione, a titolo oneroso, di titoli, quote o diritti non negoziati nei mercati regolamentati, rappresentativi di una partecipazione qualificata (come definita dall’art. 81, comma 1, lett. c, cit.) o di una partecipazione non qualificata (ai sensi della successiva lettera c-bis) nonché di diritti o titoli attraverso cui possono essere acquisite queste ultime partecipazioni;
l’art. 5, della legge n. 448/2001, cui rinvia l’art. 11 -quaterdecies, comma 4, del d.l. n. 203/2005, prevede la rivalutazione fiscale dei titoli, delle quote o dei diritti, sulla base di una perizia giurata di stima, assoggettabile al pagamento di un’imposta sostitutiva, che, detto in breve, costituisce un costo fiscalmente riconosciuto (dei medesimi titoli, quote o diritti);
il contenuto di questa norma è stato illustrato dall’Agenzia delle entrate, con la circolare n. 12/E del 31/01/2002, in tema di “Rideterminazione dei valori di acquisto di partecipazioni in società non quotate. Articolo 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002);
ciò precisato, ritiene la Corte che la disciplina della rivalutazione dei valori di acquisto di partecipazioni in società non quotate non si estenda ai piani di stock options di cui si discute, per le loro peculiarità, rispetto alla generale categoria dei diritti di opzione sui titoli, riconducibili al fatto che (come suaccennato) l’operazione cui consegue la tassazione non è data dall’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma dall’effettivo esercizio di tale diritto, da parte del dipendente, mediante l’acquisto delle azioni;
d’altro canto, l’attribuzione al dipendente delle stock options (c.d. granting) avviene a titolo gratuito e il beneficiario non può “cedere a titolo oneroso” i diritti di opzione ricevuti, ma ha solo la facoltà di esercitare il diritto, sottoscrivendo, entro una certa data, un determinato numero di azioni, ad un prezzo predeterminato (c.d. strike price);
sicché l’operazione assume rilevanza, sul piano fiscale, se e quando il dipendente, decorso un certo arco di tempo (c.d. vesting), esercitando il diritto di opzione, acquista le azioni al prezzo originario (c.d. exercising), sempre che, com’è ovvio, il prezzo sia minore del valore dei titoli al momento dell’acquisto, il che determina un guadagno che concorre a formare il reddito imponibile del lavoratore dipendente;
in altre parole: la differenza tra il valore dei titoli al momento dell’acquisto, da parte del contribuente, ed il prezzo (originario) che egli paga non genera una plusvalenza, quale “reddito diverso”, ex art. 81 (ora 67), TUIR, ma un reddito di lavoro dipendente, ragione per cui nessuna rivalutazione è possibile;
poste queste premesse concettuali e tornando al caso in esame, è indubitabile che la CTR ha errato nell’affermare la legittimità del comportamento del contribuente che, nel 2005, prima di esercitare il diritto di opzione sui titoli che gli erano stati offerti, aveva rivalutato le azioni e versato l’imposta sostitutiva (prevista nella misura del 2%);
per completezza, infine, si rileva che esula dal thema decidendum stabilire quali siano le conseguenze, sul piano giuridico, del versamento di tale imposta sostitutiva;
4. alla stregua di queste considerazioni, il ricorso va accolto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata; non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ., con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente;
5. per il consolidarsi dell’orientamento della giurisprudenza dopo l’instaurazione della causa, le spese dei gradi di merito vanno compensate, tra le parti, mentre le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza; decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; compensa, tra le parti, le spese dei gradi di merito; condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 9.500,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
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