CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 giugno 2019, n. 15367

Consorzio – Trattamento di fine rapporto – Contributi previdenziali omessi

Rilevato

che con sentenza in data 4 luglio 2013 la Corte d’appello dell’Aquila respinge l’appello di E. Di D. avverso la sentenza n. 527/2011 del locale Tribunale, che a sua volta ha rigettato il ricorso proposto dal Di D. nei confronti della Provincia e del Comune dell’Aquila onde ottenere il pagamento del trattamento di fine rapporto e dei contributi previdenziali omessi con riferimento all’attività di Direttore della S. S. di S. Sociale dell’Aquila – per il cui finanziamento i due suddetti enti locali avevano costituito un Consorzio – attività svolta per trentadue anni (cioè dalla costituzione alla scioglimento del Consorzio).

che la Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il ricorrente deduce l’erroneità della statuizione del primo giudice secondo cui egli era stato dipendente di ruolo del Consorzio, situazione configgente con la qualifica ricoperta, nel periodo controverso, di insegnante di ruolo della scuola pubblica;

b) il Di D. precisa di aver dedotto di avere svolto ininterrottamente l’incarico di Direttore della Scuola suindicata e che, essendo considerato tra il personale fisso della stessa, aveva prestato un rapporto di lavoro di natura subordinata e che quindi dovevano essergli riconosciuti tutti i correlati diritti;

c) il Regolamento organico del Consorzio stabilisce che quello di Direttore della Scuola era un incarico precario che non dava luogo ad un rapporto di impiego con il Consorzio stesso e che era pagato con un compenso stabilito dal Consiglio di Amministrazione;

d) diversamente da quel che sostiene l’interessato il Direttore non era incluso nel personale fisso della Scuola;

e) né il Di D. ha contestato l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado secondo cui anche dalla prova testimoniale non sono emersi gli indici che possano giustificare la sussistenza di una rapporto di lavoro subordinato, anche solo di fatto;

f) pertanto la pretesa qui azionata non può avere ingresso;

che avverso tale sentenza E. Di D. propone ricorso affidato a cinque motivi, al quale oppone difese l’Amministrazione provinciale dell’Aquila, che, dopo aver depositato tempestivamente atto di costituzione in giudizio, ha successivamente, nei termini di rito, depositato una memoria ex art.380-bis.l cod. proc. civ. in ossequio alle indicazioni contenute nel Protocollo d’intesa sottoscritto il 15 dicembre 2016 tra la Corte di Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense, valevoli per i ricorsi già pendenti alla data di entrata in vigore del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 convertito con modificazioni dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, che ha previsto la generale trattazione dei detti ricorsi, non più in pubblica udienza – con facoltà per la parte intimata di partecipare comunque alla relativa discussione – bensì in adunanza camerale non partecipata dai difensori (vedi, per tutte: Cass. 21 febbraio 2018, n. 4201).

Considerato

che il ricorso è articolato in cinque motivi;

che con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., elusione del giudicato esterno; violazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., sostenendosi che la Corte d’appello al fine di accogliere le domande del ricorrente perché basate su un rapporto di tipo subordinato avrebbe dovuto tenere conto dei decreti ingiuntivi divenuti cosa giudicata i ottenuti dal ricorrente per il pagamento da parte del Consorzio Volontario per ( la S. S. di S. Sociale dell’Aquila dei compensi mensili arretrati . e delle tredicesime, dai quali risultava che egli come Direttore della Scuola A aveva prestato “servizio ininterrotto e continuativo” “alle dipendenze” del li Consorzio stesso;

che con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione del principio di valutazione delle ! prove documentali ex art. 116 cod. proc. civ. Si afferma che la Corte d’appello non avrebbe esaminato correttamente la documentazione ritualmente prodotta, con particolare riferimento alla delibera 27 gennaio 1974, n. 12 del Commissario Prefettizio del Consorzio con la quale il Direttore della Scuola veniva collocato tra il “personale fisso” – che non significa “di ruolo” – della Scuola stessa (richiamandosi la precedente deliberazione n. 4 del 17 novembre 1973). Si aggiunge che la Corte territoriale avrebbe dato, invece, rilevanza sul punto all’art. 4 del Regolamento del Consorzio ove il Direttore della Scuola è collocato tra il “personale precario”, ma tale rilevanza sarebbe “illegittima e incongrua” visto che il Regolamento è successivo alle anzidette delibere vistate all’epoca dal CORECO e divenute definitive e inoltre il Regolamento ponendo norme generali e astratte non può automaticamente vanificare provvedimenti puntuali adottati in precedenza. Si rileva, infine, che proprio per le anzidette ragioni le delibere de quibus non avrebbero potuto essere disapplicate sia perché erano conformi a legge – come si desume dal vaglio positivo del CORECO – sia perché, in base alla giurisprudenza di legittimità, il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo da parte del giudice ordinario non può essere esercitato nei giudizi in cui sia parte la P.A. e men che meno a istanza dell’Amministrazione laddove, come nella specie, sulla base degli atti disapplicati sia sorto per i destinatari un legittimo affidamento sul loro contenuto e sul conseguente operato della P.A.;

che con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza ex art. 112 cod. proc. civ. per mancata pronuncia sullo specifico motivo di appello concernente la omessa applicazione dell’art. 2126 cod. civ., il cui esame, si sottolinea, aveva carattere decisivo, visto che la Corte d’appello ha comunque riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro tra le parti “seppure di fatto”.

che con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – Omesso accertamento dell’esistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 e ss. cod. civ.

che in primo luogo il ricorrente precisa che non ricorre l’ipotesi della c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ. perché la Corte d’appello non ha confermato la sentenza di primo grado, ma ha rigettato le pretese del ricorrente per altre ragioni;

che, quanto al merito delle censure, si ribadisce che, anche sulla base dei decreti ingiuntivi divenuti cosa giudicata, il rapporto di lavoro del Di D. non poteva che essere considerato pubblico e subordinato (anche se contraddistinto da una “subordinazione attenuata” godendo il Direttore di ampi margini di autonomia). Anche per il periodo dall’1 luglio 2003 al 16 maggio 2005 le Amministrazioni resistenti non hanno contestato il permanere del rapporto (da considerare fatto notorio). In questa situazione dovevano essere ritenute meritevoli di accoglimento la domande del ricorrente di pagamento dell’indennità di buonuscita e/o di trattamento di fine rapporto per la somma originariamente richiesta nonché del risarcimento del danno per omesso versamento dei contributi previdenziali e assistenziali nella misura di legge;

che con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., illegittima e ingiusta liquidazione delle spese di lite; violazione delle norme e dei principi in materia di condanna alle spese e violazione del Regolamento approvato con d.m. n. 140/2012, contestandosi il metodo e l’entità della disposta condanna alle spese che si assume essere sproporzionata rispetto al valore della controversia;

che il ricorso va dichiarato inammissibile, per le ragioni di seguito esposte;

che, il primo motivo è inammissibile perché le censure con esso proposte sono prospettate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti (o atti processuali) è tenuto ad assolvere il duplice onere di cui all’art. 366, n. 6, cod. proc. civ. (a pena di inammissibilità) e all’art. 369, n. 4, cod. proc. civ. (a pena di improcedibilità del ricorso), indicando nel ricorso specificamente il contenuto del documento trascurato od erroneamente interpretato dal giudice del merito (trascrivendone il contenuto essenziale) e fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, onde porre il Giudice di legittimità in condizione di verificare la ritualità dell’allegazione del documento stesso e la sussistenza del vizio denunciato senza compiere generali verifiche degli atti (vedi, per tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726; Cass. 14 settembre 2012, n. 15477; Cass. 8 aprile 2013, n. 8569);

che, in particolare, si rileva il mancato rispetto del suddetto principio con riguardo ai decreti ingiuntivi richiamati nonché alla sentenza definitiva n. 120/2011, che non risultano allegati al fascicolo del giudizio di cassazione e neppure risulta adeguatamente sintetizzato il relativo contenuto nel corpo del ricorso, visto che ci si limita a riportare la sola parte iniziale del primo decreto ingiuntivo, che è di provenienza dal ricorrente, tanto più che i crediti considerati sono differenti;

che il secondo motivo è inammissibile per due concorrenti ragioni:

a) anche in questo caso, le censure sono formulate senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in particolare con riguardo alle richiamate delibere e al Regolamento che non risultano né allegati al ricorso né in esso sintetizzati nel loro contenuto essenziale per l’esame delle censure;

b) peraltro, per costante indirizzo di questa Corte in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla legge n. 134 del 2012;

che il medesimo inconveniente (mancato rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione) – in particolare con riguardo all’atto di appello e alla memoria autorizzata, che vengono richiamati – porta all’inammissibilità del terzo motivo, salvo restando che le censure con esso proposte non considerano che l’invocazione dell’art. 2126 cod. civ. è logicamente incompatibile con l’esclusione della configurazione del rapporto di lavoro come subordinato, su cui si basa la sentenza impugnata;

che il quarto motivo è inammissibile perché – a prescindere dall’inapplicabilità nella specie dell’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ., che trova applicazione per gli atti d’appello successivi all’1 settembre 2012 – le censure con esso proposte si risolvono nella denuncia di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti;

che si tratta, quindi, di censure che finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dal Giudice del merito, che come tale è di per sé inammissibile. A ciò va aggiunto che in base all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. – nel testo successivo alla modifica ad opera dell’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano;

che anche il quinto motivo è inammissibile perché in base ad un indirizzo consolidato e condiviso di questa Corte, in tema di spese processuali, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che si limiti alla generica denuncia della illegittimità della liquidazione delle spese processuali contenuta nella sentenza impugnata senza deduzioni sui concreti pregiudizi subiti dalla mancata applicazione e senza neppure il rispetto del principio di del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione (vedi, tra le tante: Cass. 26 luglio 2016, n. 15363; Cass. 20 maggio 2016, n. 10409 Cass. 7 ottobre 2015, n. 20128);

che, in sintesi, il ricorso va dichiarato inammissibile, per le esposte ragioni;

che le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre spese forfetarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.