CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 luglio 2022, n. 21465
valutazione delle prove – Licenziamento – Natura ritorsiva – Esclusione – Prosecuzione del rapporto di lavoro dopo la maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia – Comportamento concludente del datore di lavoro
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Genova, con la sentenza impugnata, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha respinto il reclamo proposto da A.G. nei confronti di C.C. Spa avverso la decisione di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato al dipendente della società il 19 marzo 2018, con condanna alle spese;
2. la Corte – per quanto qui ancora rileva – ha innanzitutto condiviso “la conclusione cui è pervenuto il primo giudice circa l’insussistenza di un licenziamento di natura ritorsiva”, non avendo fornito il lavoratore prova sufficiente circa l’esistenza di un intento ritorsivo da parte della società;
3. la Corte di Appello ha, inoltre, considerato pacifico che il G. avesse maturato il diritto alla pensione di vecchiaia il 1° settembre 2017 e che la continuazione del rapporto di lavoro per sette mesi non fosse elemento di per sé solo sufficiente a far ritenere che la parte datoriale avesse dato il suo assenso inequivoco e definitivo alla prosecuzione del rapporto;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con due motivi, cui ha resistito la società con controricorso; entrambe le parti hanno comunicato memorie;
Considerato che
1. il primo motivo di ricorso denuncia: “Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. Violazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. Violazione dell’art. 2697 c.c. Violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966. Violazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970. Violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c.(art. 360 n. 3 c.p.c.).
Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.)”; si critica diffusamente la sentenza impugnata che non avrebbe “fatto buon governo dei principi che regolamentano l’onere della prova in ordine al licenziamento per ragioni ritorsive, non tenendo conto di fatti rilevanti e attribuendo valore decisivo a fatti erroneamente ritenuti provati”;
il motivo, così come formulato nelle sue plurime censure, è inammissibile; secondo questa Corte, per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816 del 2005; Cass. n. 3986 del 2015; Cass. n. 9468 del 2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555 del 2011);
dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966; esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 23583 del 2019), con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza il motivo ritorsivo, il quale deve aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro (Cass. n. 18283 del 2010; Cass. n. 20742 del 2018);
non è dubbio che il valutare nella concretezza della vicenda storica se il licenziamento sia stato o meno intimato per motivo di ritorsione costituisca una quaestio facti, come tale devoluta all’apprezzamento dei giudici del merito; tale accertamento di fatto non è suscettibile di riesame innanzi a questa Corte di legittimità, tanto più in una ipotesi di cd. “doppia conforme”, con formali denunce di errori di diritto che, nella sostanza, mascherano la contestazione circa la valutazione di merito operata dai giudici ai quali è riservata, nonché mediante l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., senza il rispetto degli enunciati posti, nell’interpretazione rigorosa di tale disposizione, dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014);
conclama l’inammissibile pretesa di un nuovo esame del caso concreto l’improprio riferimento alla violazione sia degli artt. 115 e 116 c.p.c., sia dell’art. 2697 c.c.; come di recente ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre);
parimenti la pronuncia rammenta che la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 già citate;
per l’altro aspetto, la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica, nella sostanza, l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la mancanza di un intento ritorsivo, opponendo una diversa valutazione;
né, tanto meno, può criticarsi, in questa sede, la sentenza impugnata per non avere adeguatamente valutato elementi di fatto che, in via indiziaria, avrebbero dovuto indurre a ritenere provata la ritorsione, perché spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti certi da porre a fondamento del relativo processo logico, apprezzarne la rilevanza, l’attendibilità e la concludenza al fine di saggiarne l’attitudine, anche solo parziale o potenziale, a consentire inferenze logiche (cfr. Cass. n. 10847 del 2007; Cass. n. 24028 del 2009; Cass. n. 21961 del 2010);
va escluso che chi ricorre in cassazione in questi casi possa limitarsi a lamentare che il singolo elemento indiziante sia stato male apprezzato dal giudice o che sia privo di per sé solo di valenza inferenziale o che comunque la valutazione complessiva avrebbe dovuto condurre ad un esito interpretativo diverso da quello raggiunto nei gradi inferiori (v., per tutte, Cass. n. 29781 del 2017), spettando al giudice del merito l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell’íd quod plerumque accidit (v. Cass. n. 16831 del 2003; Cass. n. 26022 del 2011; Cass. n. 12002 del 2017);
2. il secondo motivo di ricorso denuncia: “Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. Violazione degli artt. 414 e 416 c.p.c. Violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966; violazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970; violazione dell’art. 24 del D.L. 6.12.2011 n. 201 convertito con legge 22.12.2011 n. 214; violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. – art. 360 n. 3 c.p.c.”; si sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere inapplicabile il disposto di cui all’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, convertito con l. n. 214 del 2011, basando tale decisione “su un presupposto di fatto insussistente”;
si deduce poi che, “sulla scorta dell’interpretazione letterale della disposizione”, “il solo verificarsi della prosecuzione del rapporto di lavoro, dopo la maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia, dà diritto al dipendente di conservare il posto e impedisce alla società datrice di lavoro di recedere facendo riferimento all’intervenuta maturazione del diritto a pensione”;
in ogni caso si argomenta che, ove “la norma non attribuisca al lavoratore tale diritto potestativo di proseguire il lavoro fino a settant’anni”, “la regolare prosecuzione del rapporto dopo tale maturazione, per un periodo di tempo apprezzabile, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, costituirebbe, comunque, per la C.C. spa, un comportamento implicante rinuncia ad avvalersi della facoltà di recesso”; il motivo non merita accoglimento; esso è infondato in diritto in quanto la sentenza impugnata è conforme al principio secondo cui: “In materia di trattamenti pensionistici, la disposizione dell’art. 24, comma 4, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino ai settanta anni di età” (Cass. SS.UU. n. 17589 del 2015);
è poi inammissibile nella parte in cui contesta un accertamento di fatto compiuto dai giudici del merito in ordine al preteso assenso del datore di lavoro rispetto ad una “proposta” del lavoratore circa la prosecuzione del rapporto di lavoro; invero, questa Corte (Cass. n. 20458 del 2018), dopo aver ribadito che, in materia di trattamenti pensionistici, la disposizione dell’art. 24, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, conv. con modif. nella l. n. 214 del 2011, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo, sulla cui base le parti possano consensualmente stabilire la prosecuzione dello stesso rapporto, ha affermato che, “qualora tuttavia ricorrano dette condizioni e il lavoratore abbia chiesto la prosecuzione, l’assenso del datore di lavoro a tale proposta non deve necessariamente esprimersi in forma scritta, ma può trarsi anche dal comportamento concludente tenuto nella fase successiva al raggiungimento dell’età pensionabile, interpretato alla luce dei criteri di buona fede oggettiva e correttezza contrattuale”;
ha, quindi, rilevato che la Corte distrettuale della sentenza in quell’occasione impugnata aveva indagato sul significato del comportamento assunto da parte aziendale tradotto non solo “nel prolungato mantenimento in servizio del dipendente” ma anche “su di una pluralità di elementi quali la puntualità e completezza della proposta formulata dal lavoratore, il quale manifestava il proprio interesse alla prosecuzione del rapporto;
il silenzio della società in relazione a tale proposta, cui ha fatto riscontro il protratto esercizio dei poteri datoriali per un periodo superiore ai sedici mesi;
l’avvio di una trattativa per l’ulteriore protrazione del rapporto per tre mesi, che lasciava presupporre l’avvenuto prolungamento del rapporto di lavoro inter partes”;
ha conclusivamente affermato che “l’apprezzamento circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze, rientra nei compiti affidati al giudice del fatto, senza che il convincimento espresso in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale e non con riferimento singolare a ciascuno di essi, possa essere suscettibile di un diverso o rinnovato apprezzamento in sede di legittimità, se non in base alle rigorose regole imposte dalla disciplina del vizio secondo i dettami dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c.”;
pertanto, anche nella fattispecie sottoposta all’attenzione del Collegio la sussistenza o meno di un comportamento concludente del datore di lavoro volto ad aderire alla richiesta del lavoratore di prosecuzione del rapporto fino al settantesimo anno di età attiene al merito (cfr. Cass. n. 29781 del 2017; tra le altre conf. v. Cass. n. 13660 del 2018; Cass. n. 13958 del 2018) e non è suscettibile di riesame in questa sede di legittimità;
3. conclusivamente il ricorso, nel suo complesso, deve essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.