CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 marzo 2019, n. 6515
Tributi – Immobili di interesse storico o artistico – Determinazione del reddito – Categorie catastali – Regime fiscale – Tariffe d’estimo
Rilevato che
1. La contribuente Agro Veneto s.r.l. , premesso di essere proprietaria di un palazzo di particolare interesse storico ed artistico, soggetto al vincolo di cui all’art. 3 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, ha richiesto all’Agenzia delle Entrate il rimborso delle maggiori imposte versate – a titolo di i.r.p.e.g. per gli anni 2003 e 2004 ed a titolo di i.r.e.s. per l’anno 2005- sulla base della determinazione del reddito derivante dalle unità del compendio immobiliare appartenenti alle categorie catastali A/1, A/2, A/10, C/1, C/2, e locate, assumendo che non fossero dovute, in quanto il reddito avrebbe dovuto essere rideterminato applicando il regime fiscale sostitutivo degli immobili storico-artistici introdotto dall’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, in vigore nel periodo 1991-2012, il quale disponeva che:« In ogni caso, il reddito degli immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi dell’articolo 3 della legge 1 giugno 1939, n. 1089, e successive modificazioni e integrazioni, è determinato mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato.».
2. Avverso il silenzio rifiuto formatosi sulle diverse istanze, la contribuente società ha proposto distinti ricorso dinanzi la Commissione tributaria provinciale di Padova che, dopo averli riuniti, li ha accolti.
3. Contro la decisione di primo grado, l’Ufficio ha proposto appello innanzi la Commissione tributaria regionale del Veneto, deducendo l’inapplicabilità dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991 quando l’immobile di interesse storico o artistico sia posseduto da un’impresa che , come nel caso di specie, abbia come oggetto della sua attività la locazione dello stesso bene, in quanto il reddito prodotto dall’immobile, in questo caso, viene determinato n.g.n. 22698/2014Finchéper contrapposizione tra costi e ricavi, e non con applicazione del metodo fondiario-catastale, al quale fa invece riferimento la norma de qua.
4. La Commissione tributaria regionale del Veneto, con la sentenza n. 48/25/2013, depositata il 2 luglio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente, assumendo che l’espressione testuale «In ogni caso», con la quale esordisce l’art. 11, comma 2, della I. n. 413 del 1991, non giustificasse, ai fini dell’applicazione o meno del regime fiscale da esso introdotto, la distinzione, all’interno della categoria degli immobili di interesse storico o artistico, fondata sulla circostanza che essi fossero locati o meno.
4.1. A sostegno della sua interpretazione, la C.T.R. citava Cass., S.U., 09/03/2011, n. 5518, secondo la quale « In tema tassazione ai fini ICI degli immobili di interesse storico o artistico, l’art. 2, comma 5, del d.l. 23 gennaio 1993, n. 16, convertito nella legge 24 marzo 1993, n. 75, come interpretato dall’art. 74, comma 6, della legge 21 novembre 2000, n. 342, prevede un regime di natura speciale – giustificato dai pesanti oneri manutentivi che il riconoscimento della specifica qualità comporta per tale tipologia di immobili – applicabile in via esclusiva anche se gli immobili stessi siano oggetto degli interventi edilizi indicati dalle lettere c), d) ed e) dell’art. 31, comma 1, della legge 5 agosto 1978, n. 457 (restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica), in quanto i criteri di determinazione della base imponibile ICI previsti per tali interventi dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, costituiscono un’eccezione (o agevolazione fiscale) interna al regime ordinario di tassazione degli immobili non altrimenti qualificati, che non può avere, per sua natura e collocazione, applicazione in altri regimi di tassazione caratterizzati da specialità propria, connessa ad una qualità specifica (e sostanzialmente intrinseca) dell’immobile oggetto dell’imposta.».
4.2. Inoltre, il giudice dell’appello richiamava Cass. 18/06/2009, n. 14149, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, l’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, nel fissare l’imponibile rispetto agli edifici di interesse storico o artistico, prevede che esso va determinato sempre con riferimento alla più bassa delle tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato. Ai fini dell’applicazione di tale regime impositivo, che deve ritenersi di carattere speciale e non meramente agevolativo, non rileva né la destinazione, abitativa o non abitativa, dell’immobile soggetto a vincolo, né la circostanza che il medesimo sia locato a terzi, né la categoria catastale nella quale lo stesso sia classificato.», pur dando atto che ad essa si contrapponeva Cass. 16/12/2009, n. 26343, per la quale « In tema di imposte sui redditi, i canoni prodotti dalla locazione di immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1089 del 1939 e successive modificazioni, che siano oggetto dell’impresa, ne rappresentano ricavi che concorrono alla determinazione del reddito di impresa, secondo le norme che lo disciplinano, senza che sia applicabile l’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, che riguarda la determinazione dei redditi fondiari.
(Principio affermato con riferimento ad una società che aveva come oggetto sociale la locazione di un unico immobile, riconosciuto di interesse storico o artistico).».
5. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, formulando un unico motivo.
6. La società contribuente ha notificato e depositato controricorso, chiedendo il rigetto del ricorso e, in via subordinata, di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per l’ipotizzata illegittimità costituzionale – per contrasto con gli artt. 3, 53 e 9 della Costituzione – dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, ove interpretato nel senso di escludere che l’agevolazione da esso prevista si applichi agli immobili storici o artistici «strumentali per natura», posseduti da società e locati a terzi.
7. La controricorrente ha depositato altresì memoria ex art. 380 bis, comma 1, cod. proc. civ.
Considerato che
1. Con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., l’Ufficio ricorrente censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413; dell’art. 3 della legge 1 giugno 1939, n. 1089; e degli artt. 34, 37, 40, 43, 81 e 90 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), per avere erroneamente il giudice a quo – anche in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità richiamato nel ricorso- ritenuto il regime fiscale di cui all’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, applicabile anche nell’ipotesi in cui gli immobili di interesse storico o artistico appartengano ad una società commerciale la cui attività d’impresa consista nella loro locazione.
2. Il motivo è fondato e va accolto. Infatti, nel caso di specie, è pacifico che l’immobile d’interesse storico-artistico in questione sia strumentale all’attività d’impresa della società contribuente proprietaria, la cui attività consiste nella sua locazione.
2.1. Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, «In tema di imposte sui redditi, i canoni prodotti dalla locazione di immobili riconosciuti di interesse storico o artistico, ai sensi dell’art. 3 della legge 1° giugno 1939, n. 1089, che siano oggetto dell’attività dell’impresa, rappresentano ricavi che concorrono alla determinazione del reddito di impresa, secondo le norme che lo disciplinano, senza che sia applicabile l’art. 11, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, il quale, nello stabilire che il reddito degli immobili in questione è determinato “mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato”, si riferisce al solo reddito fondiario e si giustifica nei costi di manutenzione degli immobili vincolati, superiori a quelli normalmente richiesti per altre tipologie di immobili, giustificazione, quest’ultima, che non avrebbe senso rispetto ai redditi di impresa, determinati sulla base dei ricavi conseguiti in contrapposizione ai correlativi costi che, invece, sono indeducibili rispetto ai redditi fondiari.» (Cass., 31/03/2011, n. 7542).
Nello stesso senso, è stato ribadito che « In tema di imposte sui redditi, il beneficio introdotto dall’art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, concerne la determinazione del solo reddito fondiario, sicché non si applica agli immobili d’interesse storico ed artistico strumentali all’esercizio di attività d’impresa in quanto la natura di tale agevolazione integra un risparmio d’imposta (e, dunque, un reddito per il contribuente) e si giustifica perché correlata ad un pregiudizio di analoga natura (ossia, un esborso), mentre nell’esercizio dell’attività d’impresa i costi relativi ai suddetti beni sono deducibili e, quindi, si traducono in un vantaggio.» (Cass., 02/04/2014, n. 7615. Conformi Cass. 16/12/2009, n. 26343, relativa ad una società che aveva come oggetto sociale la locazione di un unico immobile, riconosciuto di interesse storico o artistico; Cass. 31/03/2011, n. 7542; Cass. 24/09/2015, n. 18921);
2.2. Le argomentazioni sulle quali si fonda tale ricostruzione possono così riassumersi:
– le regole di determinazione del reddito fondiario sono distinte ed autonome rispetto a quelle che presidiano il reddito d’impresa;
– gli immobili relativi ad imprese commerciali, non producendo reddito fondiario, vanno considerati produttivi di reddito d’impresa;
– la norma di agevolazione introdotta dall’articolo 11, comma 2, della legge numero 413 del 1991, nello stabilire che il reddito degli immobili in questione è determinato «mediante l’applicazione della minore tra le tariffe d’estimo previste per le abitazioni della zona censuaria nella quale è collocato il fabbricato» si riferisce alla determinazione del solo reddito fondiario, e si giustifica nei costi di manutenzione degli immobili vincolati, superiori a quelli n.g.n. 22698/2014 6
normalmente richiesti per altre tipologie di immobili, giustificazione, quest’ultima, che non avrebbe senso rispetto ai redditi di impresa, determinati sulla base dei ricavi conseguiti in contrapposizione ai correlativi costi che, invece, sono indeducibili rispetto ai redditi fondiari;
– non ricorre infatti, per gli immobili d’interesse storico- artistico che siano strumentali all’esercizio dell’attività d’impresa, la ratio dell’ agevolazione fiscale in questione, individuata dalla stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 28 novembre 2003, n. 346, «nell’obiettiva difficoltà, evidenziata anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità, di ricavare per gli immobili di cui si tratta dal reddito locativo il reddito effettivo, per la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione di tali beni»;
– i costi di manutenzione e conservazione correlati alla natura del bene d’interesse storico o artistico non sono infatti deducibili, ai sensi dell’art. 57, comma 2, d.P.R. n. 917/1986, nel testo vigente ratione temporis, dal reddito del privato non imprenditore, che non è il risultato di una differenza analitica tra le entrate ed i costi sostenuti per conseguirlo, ma coincide col canone di locazione percepito. Pertanto, l’agevolazione stabilita dall’art. 11, comma 2, della I. n. 413 del 1991 ha la funzione, ritenuta costituzionalmente legittima dalla Consulta, di attenuare lo squilibrio tra i titolari di beni vincolati, sottoposti ad oneri che si traducono in costi non deducibili, e proprietari di immobili non vincolati;
– viceversa, gli immobili d’interesse storico ed artistico strumentali all’esercizio di attività d’impresa concorrono a produrre redditi determinati sulla base dei ricavi conseguiti, in contrapposizione ai correlativi costi, oggetto di deduzione. Pertanto, l’imprenditore non risente dei maggiori oneri conseguenti alla natura vincolata di tali beni, potendo dedurli dal reddito imponibile.
Non si configura, pertanto, relativamente ai maggiori costi sopportati dall’imprenditore proprietario di immobili di interesse storico artistico, un pregiudizio che debba essere compensato con ilFinchérisparmio d’imposta consentito dall’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, ed anzi la deducibilità dei relativi costi inerenti si traduce non già in un pregiudizio, ma in un vantaggio fiscale.
3. A differenza di quanto sostenuto dal giudice a quo, e dalla controricorrente, l’orientamento appena esposto non si pone in contrasto con la già citata Cass., S.U., 09/03/2011, n. 5518, peraltro pronunciata in materia di I.C.I.
E’ vero infatti che in tale pronuncia, a proposito dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, la Corte ha affermato che «limitare l’applicazione della disposizione di cui alla I. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, ai soli immobili di interesse storico-artistico destinati ad uso abitativo o a quelli classificati in una determinata categoria catastale (ad es. la categoria “A”), significherebbe introdurre nel sistema una distinzione non ragionevole – tenuto conto della ratio legis della norma speciale – e optare, di conseguenza, per un’interpretazione della stessa norma che non sarebbe costituzionalmente orientata». Tuttavia, tale conclusione va correlata alla contestuale considerazione, nella medesima pronuncia, che, attesa la forte incidenza dei costi di manutenzione e conservazione degli immobili di interesse storico-artistico, « […] la ratio legis della disposizione di cui alla L. n. 413 del 1991, art. 11, comma 2, è data dalla necessità di tenere conto del fatto che i proprietari degli immobili appartenenti alla tipologia considerata dalla norma in questione debbono affrontare, nell’interesse pubblico alla conservazione dei beni culturali, costi di manutenzione così rilevanti da rendere non sicuramente determinabile il reddito effettivo …] ».
3.1. Pertanto, l’orientamento giurisprudenziale già richiamato condivide con Cass., S.U., 09/03/2011, n. 5518 – e con Corte cost., sent. n. 345-346 del 2013 – l’individuazione della ratio dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991 nella necessità di compensare i maggiori costi che i proprietari degli immobili di interesse storico-artistico debbono sopportare. La conseguente esclusione dell’ applicazione della norma al reddito d’impresa viene poi affermata non in ragione della mera destinazione, ad uso abitativo o locatizio, o della categoria catastale di classificazione dell’immobile (ciò che effettivamente si porrebbe in contrasto con la formula «in ogni caso», con la quale la disposizione si apre), ma in considerazione della peculiare disciplina applicabile alla tassazione di tale categoria di reddito, che , consentendo all’imprenditore la deduzione dei predetti costi, si colloca al di fuori della ratio, e della portata, dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991.
3.2. Non appare in contrasto, con l’interpretazione giurisprudenziale consolidata, e ribadita in questa sede, dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991, Cass. 18/06/2009, n. 14149, citata dal giudice a quo, in quanto relativa alla tassazione del reddito fondiario. Neppure Cass. 25/5/2018, n. 13144, citata dalla controricorrente nella memoria, costituisce una soluzione di continuità rispetto al richiamato orientamento, atteso che essa ha per oggetto la determinazione della base imponibile ai fini I.C.I., rispetto alla quale l’affermazione dell’applicazione dell’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991 «ai fabbricati (anche strumentali) di interesse storico-artistico posseduti da imprese/società» non contraddice la rilevanza, nel caso qui sub iudice, delle distinte ed autonome regole di determinazione del reddito d’impresa.
3.3. Infine, l’orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidato sinora esposto, che interpreta l’art. 11, comma 2, della legge n. 413 del 1991 nel senso di escludere dall’applicazione del beneficio d’imposta gli immobili d’interesse storico ed artistico strumentali all’esercizio di attività d’impresa, non evidenzia i profili di illegittimità costituzionale paventati dalla controricorrente, in quanto, come già rilevato, la natura di tale agevolazione integra un risparmio d’imposta che si giustifica (come ha insegnato la citata Corte Costituzionale, sentenza 28 novembre 2003, n. 346) solo se correlato al parallelo pregiudizio fiscale, rappresentato dalla forte incidenza di costi di manutenzione e conservazione degli stessi beni, e non trova giustificazione quando tali costi possono invece essere dedotti dal reddito imponibile dell’imprenditore.
4. All’accoglimento del ricorso segue la cassazione della decisione impugnata e, non risultando necessari ulteriori accertamenti in fatto, la decisione nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo proposto dalla contribuente contro il silenzio rifiuto dell’Amministrazione sull’istanza di rimborso.
5. Le spese di questo giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta i ricorsi introduttivi della contribuente; compensa le spese dei giudizi di merito; condanna la controricorrente al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
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