CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 06 settembre 2021, n. 24060
Tributi – Accertamento – Società di comodo – Test di operatività – Mancata presentazione dell’interpello disapplicativo
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Avellino (n.282/2/12), che aveva accolto il ricorso presentato dalla società P. s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dalla Agenzia delle Entrate, quale società di comodo, per l’anno 2006, non avendo superato il test di operatività di cui all’art. 30, Legge n. 724 del 1997. Nell’avviso di accertamento si evidenziava che la società non aveva presentato alcun interpello alla Direzione Regionale (interpello disapplicativo), unico rimedio previsto dalla norma per dimostrare le ragioni della non applicabilità della disciplina sulle società di comodo. Il giudice di prime cure, accogliendo il ricorso della società, evidenziava che la stessa non era operativa, in quanto non “produceva”, mancando le necessarie autorizzazioni, regolarmente richieste, in relazione alla peculiare attività svolta di produzione di farmaci o di prodotti farmaceutici, necessitante di autorizzazioni e di sperimentazione. La società non era quindi in una fase di normale svolgimento dell’attività produttiva, escludendosi trattarsi di società di comodo, ossia finalizzata alla interposizione o alla fittizia intestazione dei beni. Il giudice d’appello, invece, accogliendo il gravame articolato dall’Agenzia delle entrate, da un lato, affermava che l’unica iniziativa utile per dimostrare l’impossibilità di conseguire i ricavi ed il reddito minimi, era costituita dalla presentazione dell’istanza preventiva di interpello, adempimento “non adempiuto” dalla società, e, dall’altro, sottolineava l’inesistenza di circostanze oggettive impeditive dell’avvio dell’attività. La società si era limitata a produrre due verbali di convocazione del consiglio di amministrazione, dai quali desumere che la stessa aveva incrementato una nuova linea di produzione che si collocava nell’ambito della ordinaria attività già svolta sin dal 1998 in Flumeri, sicché la vicenda della mancanza delle autorizzazioni non assurgeva al rango di prova per attestare la non operatività della società. Quest’ultima era già esistente e non era stata costituita ex novo per la realizzazione del programma di cui al progetto PIA. Infatti, la scelta imprenditoriale di ampliare la produzione, aderendo al finanziamento agevolato di cui al progetto Pia, rientrava nell’ambito della propria attività, sicché non poteva costituire una causa oggettiva di non operatività, trattandosi di una fase di un nuovo progetto specifico che non costituiva l’oggetto esclusivo, né esauriva l’attività del preesistente complesso aziendale.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.
3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione dell’art. 112 c.p.c. – art. 111 Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.”. Il giudice d’appello avrebbe completamente omesso di pronunciarsi sulle eccezioni formulate in sede di gravame da parte della società. In particolare, la società avrebbe dedotto che la struttura societaria e patrimoniale della stessa, in ragione anche del particolare settore in cui operava, escludeva qualsiasi ipotesi che essa fosse intestataria di beni con finalità evasive e/o elusive. Di tutto ciò “il giudice dell’appello ha paradossalmente ed illegittimamente omesso ogni statuizione”.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 30 legge n. 724 del 1994 e successive modificazioni-violazione e/o falsa applicazione dell’art. 37-bis d.P.R. n. 600 del 1973 – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 53 della Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.”. Per la ricorrente è illegittima la statuizione del giudice d’appello, laddove ha ritenuto che l’unica iniziativa utile per dimostrare l’impossibilità di conseguire i ricavi ed il reddito minimi, fosse la presentazione dell’istanza preventiva, adempimento “non adempiuto” dalla società. La presentazione dell’istanza di interpello, di cui all’art. 37-bis, ottavo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, costituisce, invece, una mera facoltà per il contribuente che consente di conseguire, in caso di risposta positiva dell’Ufficio, una certezza nei rapporti con l’amministrazione. Tale strumento non costituisce però in alcun modo una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente stesso dalle disposizioni antielusive, essendo sempre consentito al contribuente di fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo carico. Il giudice d’appello avrebbe dovuto ritenere provata la presenza di oggettive situazioni che avevano reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994.
3. Il ricorso è complessivamente infondato.
3.1. Invero, il giudice d’appello ha accolto il gravame della Agenzia delle entrate con due diverse rationes decidendi. Infatti, ha in primo luogo evidenziato che la società non aveva presentato istanza di interpello antielusivo ai sensi dell’art. 37-bis, comma, del d.P.R. n. 600 del 73, come richiamato dall’art. 30, comma 4-bis, legge n. 724 del 1994. Sul punto ha ritenuto di escludere che la prova contraria potesse essere fornita dalla società nel corso del giudizio, stabilendo che l’unica iniziativa utile per dimostrare l’impossibilità di conseguire i ricavi ed il reddito minimo, era costituita dalla presentazione dell’istanza di interpello preventivo. La società, però, non aveva provveduto a tale incombente. Con la seconda ratio decidendi il giudice d’appello ha ritenuto indimostrate le oggettive situazioni che avevano reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della legge n. 724 del 1994. La Commissione regionale ha rilevato che, come argomentato dall’Ufficio, dal fascicolo processuale non risultavano le autorizzazioni richieste e poi non concesse, né circostanze oggettive impeditive dell’avvio dell’attività. Ha ribadito che agli atti la parte aveva prodotto solo due verbali di convocazione del consiglio di amministrazione della società, dai quali si desumeva che la stessa aveva incrementato una nuova linea di produzione, che si collocava nell’ambito della ordinaria attività svolta sin dal 1998. L’azienda, dunque, era già esistente e non era stata costituita ex novo. Nell’ambito della propria attività doveva collocarsi la scelta imprenditoriale di ampliare la produzione aderendo al finanziamento agevolato di cui al progetto Pia, sicché da ciò non poteva desumersi una causa oggettiva di non operatività, in quanto la società non aveva realizzato le fasi di un progetto specifico che non costituiva l’oggetto esclusivo né esauriva l’attività del preesistente complesso aziendale.
La prima ratio decidendi è stata superata con il secondo motivo di ricorso per cassazione, in quanto per questa Corte, in tema di società di comodo, in caso di mancato superamento del test di operatività, anche in seguito alle modifiche apportate all’art. 30 della l. n. 724 del 1994 dalla l. n. 296 del 2006, permane la possibilità per il contribuente di vincere la presunzione legale della finalità elusiva delle società non operative attraverso la prova contraria qualificata dalla ricorrenza di una situazione oggettiva a sé non imputabile che ha reso impossibile il conseguimento di ricavi e la produzione di reddito entro la soglia minima stabilita “ex lege”, non essendo a tal fine necessario esperire preventivamente il rimedio precontenzioso dell’interpello disapplicativo (Cass., sez. 5, 24 febbraio 2021, n. 4946).
Con riferimento però alla seconda ratio decidendi (insussistenza di situazioni oggettive di mancato superamento del test di operatività), di cui al primo motivo di ricorso per cassazione, il giudice d’appello ha pronunciato in modo espresso e motivato sulla questione (che non risulta neppure specificamente riproposta in sede di controdeduzioni del giudizio di appello, avendo il giudice di primo grado accolto il ricorso della contribuente), relativa alla insussistenza di oggettive situazioni che avevano reso impossibile il superamento della soglia di cui al test di operatività.
Non v’è stato, dunque, alcun vizio di omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.. Tra l’altro, la ricorrente non ha dedotto, neppure nel corpo della motivazione, fatti specifici decisivi, il cui esame sarebbe stato omesso dal giudice del gravame ex art. 360, primo comma, n.5, c.p.c., in quanto la sentenza è stata depositata l’8 ottobre 2014, sicché era applicabile la disciplina del vizio della motivazione, come modulato dopo il decreto-legge n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012. Il primo motivo di impugnazione è, dunque, infondato, con conseguente rigetto del ricorso per cassazione nella sua interezza.
Pertanto, per questa Corte, a sezioni unite, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perché il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass., sez.un., 18 agosto 2005, n. 16602).
4. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della società ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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