CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 dicembre 2018, n. 31706
Tributi – IVA – Utilizzo in compensazione del credito oltre il limite legale – Configurazione di omesso versamento
Rilevato che
1. con sentenza n. 85/16/09 del 10/11/2009 la CTR della Toscana rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 146/05/06 della CTP di Pistoia, che aveva accolto il ricorso della P. s.r.l. avverso l’atto di contestazione per irrogazione sanzioni a seguito di IVA non versata con riferimento all’anno d’imposta 2001;
1.1. il giudice di appello premetteva che: a) a seguito di rilievo da parte dell’Ufficio di eccesso di compensazione rispetto al limite di lire 1.000.000.000, la P. s.r.l. aveva provveduto a ravvedimento operoso, versando la sola sanzione di lire 22.940.000; b) l’Agenzia delle entrate riteneva la non validità del ravvedimento operoso perché non accompagnato dal versamento della somma indebitamente compensata e, conseguentemente, irrogava la sanzione pari al trenta per cento dell’eccedénza; b) la CTP accoglieva integralmente il ricorso proposto dalla P. s.r.I.; c) la sentenza della CTP era impugnata dalla Agenzia delle entrate;
1.2. su queste premesse, la CTR motivava il rigetto dell’appello evidenziando che: a) «la mancata applicazione del limite della detraibilità nel corso dell’anno non ha fatto venir meno il diritto alla detraibilità, ma ne ha determinato solo il rinvio al periodo impositivo successivo, come risulta pacifico in atti»; b) conseguentemente «l’infrazione non ha determinato alcun credito d’imposta indebito, ma semplicemente un ritardo nel versamento dell’imposta che il ravvedimento operoso ha definitivamente concluso, come pure l’estensibilità alla stessa degli effetti della sanatoria»; c) una diversa interpretazione «determinerebbe una gravità tale delle conseguenze sanzionatorie rispetto alla “pericolosità” intrinseca dell’infrazione ed alle sue concrete conseguenze per il fisco da generare consistenti dubbi sulla legittimità costituzionale della stessa normativa sotto il profilo della equità e della ragionevolezza»;
2. l’Agenzia delle entrate impugnava la sentenza della CTR con tempestivo ricorso per cassazione, affidato a due motivi;
3. la P. s.r.l. resisteva con controricorso e depositava memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 34 della I. 23 dicembre 2000, 388, 13 del 471 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 e 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., evidenziando che nel caso di errata utilizzazione del credito IVA oltre il limite previsto dall’art. 34 della I. n. 388 del 2000 si verifica un omesso versamento dell’imposta, con la conseguente applicazione della sanzione del trenta per cento prevista dall’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, salvo ravvedimento operoso, che consente il pagamento della sanzione in misura ridotta solo ove venga corrisposta anche l’imposta non versata;
2. il motivo è fondato;
2.1. deve, in primo luogo, evidenziarsi che «il superamento del limite massimo dei Crediti d’imposta compensabili equivale al mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste, che è sanzionato dall’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997, così come accade ogniqualvolta sia utilizzata la compensazione in assenza dei relativi presupposti » (Cass. n. 18369 del 26/10/2012; Cass. n. 18080 del 21/07/2017);
2.2. a ciò si aggiunge che l’errata utilizzazione della compensazione in assenza dei relativi presupposti, non integra una violazione meramente formale poiché comporta il mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste e determina il ritardato incasso erariale, con conseguente deficit di cassa, sia pure transitorio (cfr. Cass. n. 23755 del 20/11/2015; Cass. n. 15612 del 27/07/2016; Cass. n. 16504 del 05/08/2016; Cass. n. 4555 del 22/02/2017);
2.3. né può dirsi, che il sistema che prevede un limite massimo alla compensazione dei crediti sia in contrasto con la disciplina eurounitaria, atteso che sulla specifica questione è recentemente intervenuta la Corte di giustizia, la quale, con la decisione 16 marzo 2017, Bimotor s.p.a. c. Agenzia delle entrate, in causa C-211/16, ha affermato che «L’articolo 183, primo comma, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2010/45/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita la compensazione di taluni debiti tributari con crediti d’imposta sul valore aggiunto a un importo massimo determinato, per ogni periodo d’imposta, a condizione che l’ordinamento giuridico nazionale preveda comunque la possibilità per il soggetto passivo di recuperare tutto il credito d’imposta sul valore aggiunto entro un termine ragionevole»; e la disciplina attuale denota l’esistenza di spazi ordinamentali idonei a consentire un recupero del credito entro un termine ragionevole, potendo il credito essere riportato in compensazione nel successivo esercizio o chiesto a rimborso (cfr. amplius, in motivazione, la già citata Cass. n. 18080 del 2017);
2.4. ciò premesso, non è dubbio che, ricorrendo l’ipotesi di omesso versamento dell’imposta, l’infrazione poteva essere sanata dalla società contribuente, in sede di ravvedimento operoso, unicamente con il pagamento dell’IVA non versata e della sanzione in misura ridotta ex art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997 e non già con il pagamento unicamente della sanzione prevista da quest’ultima disposizione, dovendo altrimenti la definizione ritenersi incompleta e il comportamento del contribuente trovare diversa sanzione nella previsione dell’art. 13 del d.lgs. n. 471 del 1997;
2.5. va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: «in tema di IVA, il superamento del limite massimo dei crediti d’imposta compensabili equivale al mancato versamento di parte del tributo alle scadenze previste, con la conseguenza che, ove il contribuente voglia validamente beneficiare del ravvedimento operoso di cui all’art. 13 del d.lgs. n. 472 del 1997, deve necessariamente corrispondere, oltre alla sanzione indicata dalla predetta disposizione, anche l’eccedenza d’imposta non compensabile»;
3. con il secondo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della I. 27 dicembre 2002, n. 289, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., evidenziando che il condono cd. tombale, presentato dalla società contribuente, non trova applicazione con riferimento all’utilizzo di crediti d’imposta, commisurati a presupposti che non hanno alcuna relazione con la base imponibile;
4. il motivo, che censura una ulteriore ratio decidendi della sentenza impugnata, è fondato;
4.1. secondo il prevalente orientamento di questa Corte, fatto proprio dalle Sezioni Unite, «in tema di cd. “condono tombale”, l’Erario può accertare i crediti da agevolazione esposti dal contribuente nella dichiarazione, in quanto il condono – avendo come scopo il recupero di risorse finanziarie e la riduzione del contenzioso e non già l’accertamento dell’imponibile – elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa vantare nei confronti del fisco, che restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’Ufficio» (Cass. S.U. n. 16692 del 06/07/2017; conf. Cass. n. 22436 del 04/11/2016; Cass. n. 16157 del 03/08/2016; Cass. n. 6982 del 08/04/2015; contra Cass. n. 16186 del 03/08/2016; Cass. n. 3112 del 17/02/2016);
4.2. in ogni caso, il credito d’imposta di cui si discute concerne l’IVA ed è ormai assolutamente pacifico che va esclusa l’applicabilità della definizione agevolata in relazione a tale imposta;
4.3. invero, la Corte di giustizia, grande sezione, con la sentenza 17 luglio 2008, causa C-132/06, che specificamente investe il d.l. n. 289 del 2002, ha considerato che le somme dovute in forza di tale condono sono sproporzionate rispetto all’importo che il soggetto avrebbe dovuto versare sulla base del volume di affari risultante dalle operazioni da lui compiute, ma non dichiarate, di guisa che lo squilibrio significativo esistente tra gli importi effettivamente dovuti e quelli corrisposti dai contribuenti che intendono beneficiare della definizione agevolata in questione conduce ad una quasi-esenzione fiscale; sono in tal modo svuotate di contenuto, ha proseguito la Corte di giustizia, le disposizioni comunitarie (ossia gli articoli 2 e 22 della cosiddetta sesta direttiva Iva e l’art. 10 del Trattato CE), che fanno obbligo ad ogni Stato membro di adottare tutte le misure legislative ed amministrative, al fine di garantire che questa imposta sia interamente riscossa nel suo territorio;
la Corte di giustizia ha, quindi, rimarcato che la legislazione italiana produce, nella misura in cui i contribuenti colpevoli di frode risultano favoriti dal d.l. n. 289 del 2002, un effetto contrario alla lotta contro la frode, che rappresenta un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva (su quest’ultimo punto, vedi anche le sentenze della Corte di giustizia 21 febbraio 2006, causa C- 255/02, Halifax, e 22 maggio 2008, causa C-162/07, Ampliscientifica e Amplifin) (così, in motivazione, Cass. n. 2915 del 07/02/2013, con specifico riferimento all’art. 9 del d.l. n. 289 del 2002);
5. in conclusione il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va, quindi, cassata e rinviata alla CTR della Toscana, in diversa composizione, perché provveda anche sulle spese della presente controversia;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
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