CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 gennaio 2020, n. 118
Licenziamento collettivo – Illegittimità – Corresponsione di venti mensilità a titolo di indennizzo – Soppressione del reparto – Professionalità analoghe ai lavoratori addetti agli altri reparti non soppressi – ldoneità fisica del lavoratore
Rilevato che
1. Con la sentenza n. 963 del 2017 la Corte di appello di Venezia ha confermato la pronuncia del Tribunale di Padova n. 272 del 2017 che, in parziale riforma della ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva affermato l’illegittimità del licenziamento collettivo intimato nei confronti di E.G.R. e dichiarato risolto il rapporto; aveva condannato, conseguentemente il Fallimento di F.A. alla corresponsione di venti mensilità a titolo di indennizzo, oltre alla rifusione delle spese legali.
2. I giudici di seconde cure, a fondamento della decisione, hanno rilevato che: a) l’accordo sindacale del 20.7.2015 (non impugnato da alcuna delle parti) consentiva di ritenere esistenti le ragioni addotte dalla datrice di lavoro, a giustificazione della soppressione del reparto protezione anticementante, cui era addotto il solo R.; b) la società avrebbe dovuto, però, effettuare la comparazione del R., che aveva allegato di possedere molteplici professionalità analoghe ai lavoratori addetti agli altri reparti non soppressi, con questi ultimi dipendenti; c) vi era stata violazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 e non era sostenibile la tesi che l’accordo citato fosse sufficiente a superare l’obbligo di non limitare l’ambito di scelta al reparto soppresso; d) dai documenti in atti emergeva l’idoneità fisica del R. per essere comparato con i lavoratori addetti ad altri reparti non soppressi per cui risultava corretta la statuizione del primo giudice che aveva ritenuto di non dare ingrasso ad ulteriori istanze istruttorie; e) l’indennità risarcitoria, di cui al novellato art. 18 della legge n. 300 del 1970, disposta a seguito della declaratoria di risoluzione del rapporto, non imponeva la detrazione né dell’aliunde perceptum né dell’aliunde percipiendum.
3. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il Fallimento di F.A. affidato ad un unico motivo, illustrato con memoria, cui ha resistito con controricorso E.G.R. con controricorso.
4. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.
Considerato che
1. Con l’unico articolato motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991, in relazione all’art. 360 n. 3 cpc, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale necessaria la comparazione del R. con i lavoratori addetti agli altri reparti aziendali dotati di professionalità equivalente, pur in presenza di un accordo sindacale del 20.7.2015 che aveva considerato l’appartenenza al reparto oggetto di soppressione quale unico e assorbente criterio di valutazione. Al riguardo si deduce che: a) la regola del repechage non si applicava al licenziamento collettivo; b) la necessità della comparazione al di là del reparto da sopprimere cui i singoli lavoratori sono adibiti riguarda esclusivamente la ipotesi in cui non venga raggiunto un accordo sindacale nel corso della procedura di licenziamento collettivo; c) in presenza, quindi, di un accordo sindacale veniva meno la necessità di qualunque comparazione da parte del datore di lavoro.
2. Il motivo non è fondato.
3. In primo luogo, deve osservarsi che la gravata sentenza è conforme al consolidato orientamento di legittimità (tra le altre Cass. 3.5.2011 n. 9711; Cass. 12.1.2015 n. 203), cui si intende dare seguito, secondo il quale, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed è onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata; con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.
4. Nel caso in esame, avendo il R. allegato di possedere molteplici professionalità (autista, addetto al magazzino con specifica professionalità per utilizzo di carrello elevatore, operaio addetto a composizione cariche e tempre spina, come risultante dal libretto di lavoro in atti) era obbligo della società effettuare la comparazione del lavoratore con gli addetti agli altri reparti rimasti in funzione.
5. In secondo luogo, va precisato che correttamente la Corte territoriale non ha ritenuto valido l’accordo del 20.7.2015 con il quale era stato indicato, tra i profili eccedentari, il R. quale unico addetto al reparto anticementante che la società aveva deciso di sopprimere.
6. Infatti, in materia di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto indicato dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991, un accordo inteso a disciplinare l’esercizio del poter di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità, proprio perché l’accordo adempie ad una funzione regolamentare delegata dalla legge (Cass. n. 4186 del 2013; Cass. n. 9866 del 2007; Corte Cost. sent. n. 268 del 1994).
7. Nella fattispecie, invece, l’accordo raggiunto non ha rispettato i principi di razionalità e di non discriminazione perché non ha tenuto conto, nel prevedere il licenziamento del R. quale addetto al reparto da sopprimere, delle professionalità documentate del dipendente e delle posizioni lavorative che questi avrebbe potuto occupare proprio in ragione di detta professionalità acquisita nel corso del rapporto. Non è, quindi, condivisibile l’argomentazione di parte ricorrente né sull’istituto del repechage, che non è venuto in rilievo nel caso de quo, né sul fatto che l’accordo raggiunto comunque avrebbe fatto venire meno ogni necessità di comparazione tra i lavoratori da parte del datore di lavoro dovendo, invece, quest’ultimo comunque osservare i principi sopra enunciati.
8. Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
9. Al rigetto segue la condanna di parte ricorrente, secondo il principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità.
10. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.