CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 giugno 2019, n. 15439
Tributi locali – ICI – Accertamento – Agevolazioni tributarie per l’abitazione principale – Ricorso per Cassazione
Rilevato che
1. Con ricorso proposto alla Commissione tributaria provinciale di Brescia L.P. impugnava gli avvisi di accertamento ICI per gli anni 2007 e 2008, con i quali il Comune di Padenghe sul Garda le aveva addebitato la maggiore imposta conseguente al mancato riconoscimento delle agevolazioni tributarie per l’abitazione principale, in quanto risultava che il marito, non separato, della contribuente dimorava altrove.
La ricorrente contrastava tale assunto assumendo di essere separato di fatto dal proprio marito, con la conseguenza che, essendosi verificata la frattura del rapporto coniugale, il fatto che il coniuge risiedesse altrove non faceva venir meno il carattere di abitazione principale della sede ove la ricorrente aveva la propria residenza unitamente ai figlio ed alla nuora.
Il Comune di Padenghe sul Garda si costituiva insistendo nel rilevare la assenza di dimora abituale dei familiari della contribuente, stante l’assenza del marito, non separato né divorziato.
2. Con sentenza n. 58/1/13 la Commissione Provinciale di Brescia rigettava la domanda proposta in via principale ritenendo che ai fini dell’applicazione dell’agevolazione ICI sull’abitazione principale occorreva la prova della convivenza dell’intero nucleo familiare, prova che nella specie era carente, non essendovi separazione giudiziale né divorzio, ed avendo la ricorrente omesso anche di produrre un’autocertificazione sottoscritta da ambedue i coniugi ai sensi di legge; in parziale accoglimento del ricorso, riteneva comunque non dovute le sanzioni e gli interessi e compensava le spese.
3. Avverso tale pronuncia proponeva appello la contribuente, insistendo nel sostenere l’intervenuta frattura del rapporto di convivenza dei coniugi, dei quali offriva prova producendo dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa da sé e dal proprio marito, osservando altresì che, anche qualora si accedesse alla tesi del Comune, il beneficio avrebbe dovuto essere negato all’immobile abitato dal marito e non al proprio, adibito ad abitazione della rimanente parte del nucleo familiare.
Il Comune appellato si costituiva deducendo l’infondatezza del gravame.
4. Con sentenza n. 7225/64/14, depositata il 23/12/2014 e notificata il 26/1/2015, la Commissione tributaria regionale di Milano — Sezione distaccata di Brescia, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva l’impugnazione della contribuente ritenendo provato che il coniuge della stessa non risiedeva né dimorava nell’immobile de quo e che, pertanto, era cessata la convivenza tra i coniugi, sicché il nucleo familiare si era ridotto di consistenza, essendone uscita la persona del marito, senza che ne derivasse il venir meno all’agevolazione fiscale.
5. Avverso tale pronuncia il Comune di Padenghe sul Garda ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la contribuente.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso il Comune di Padenghe sul Garda censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 8 del dlgs n. 504 del 1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, sostenendo che, contrariamente a quanto affermato dalla CTR, non è il venir meno della convivenza tra i coniugi a consentire l’accesso al trattamento di favore, bensì la necessaria dimostrazione della frattura del rapporto coniugale, di cui la cessazione della convivenza ne rappresenta l’effetto, e non già la causa. In definitiva, si assume, la differente dimora/residenza dei coniugi non implica automaticamente che detto distacco sia stato causato dalla rottura del rapporto familiare, ben potendo derivare da altre cause.
1.1. Il primo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
Come è noto, l’art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 accorda un beneficio fiscale in relazione all’unità immobiliare adibita ad abitazione principale dal soggetto passivo dell’imposta.
L’ultimo inciso dell’art. 8, comma 2, del d.lgs. citato chiarisce che “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”.
E’ insegnamento di questa Corte che, ai fini della spettanza della detrazione e dell’applicazione dell’aliquota ridotta prevista per le “abitazioni principali”, un’unità immobiliare può essere riconosciuta abitazione principale solo se costituisca la dimora abituale non solo del ricorrente, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione nell’ipotesi in cui tale requisito sia riscontrabile solo nel ricorrente ed invece difetti nei familiari (Cass., sez. 6-5, 21/06/2017, n. 15444, Rv. 645041 —01; Cass., sez. 5, 15/06/2010, n. 14389, Rv. 613715 – 01).
La stessa giurisprudenza di legittimità ha tuttavia ulteriormente chiarito che tale interpretazione dell’art. 8 cit., caratterizzata dal rigore richiesto per le norme di agevolazione fiscale in ragione della loro natura “eccezionale”, deve tuttavia tener conto che il concetto di “abitazione principale” richiama quello tradizionale di “residenza della famiglia”, desumibile dall’art. 144, comma 1, c.c., come inteso nell’elaborazione giurisprudenziale e, dunque, quale luogo di ubicazione della casa coniugale, perché tale luogo individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famiglia, “salvo che (si aggiunge opportunamente) tale presunzione sia superata dalla prova che lo spostamento della propria dimora abituale sia stato causato dal verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza” (V. Cass. sez. 5, 15/06/2010, n. 14389, cit., in motivazione; significativa anche la fattispecie esaminata da tale sentenza, che riguarda un immobile in cui uno dei coniugi assumeva di avere la sua dimora abituale ma, osserva la Corte al fine di negare il diritto all’agevolazione in relazione a tale immobile sito in un Comune diverso da quello di residenza dei suoi familiari, “la incontestata convivenza del contribuente – che non ha neppure addotto il verificarsi di una frattura di quel rapporto – con la moglie e con i figli in Bolzano attribuisce solo all’unità immobiliare sita in questo Comune la qualità, voluta dalla norma, di abitazione principale).
Ne deriva che occorre distinguere l’ipotesi in cui il presupposto di fatto, in relazione al quale deve valutarsi l’applicabilità del beneficio per la casa principale, sia costituito dalla mera circostanza che due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, da quella, ben diversa, in cui risulti accertato che il trasferimento della dimora abituale di uno dei coniugi sia avvenuto “per la frattura del rapporto di convivenza, cioè di una situazione di fatto consistente nella inconciliabilità della prosecuzione della coesistenza, sotto lo stesso tetto, delle persone legate dal rapporto coniugale, con conseguente superamento della presunzione di coincidenza tra casa coniugale e abitazione principale” (v. Cass., sez. 6-5, 17/5/2018, n. 12050, non massimata).
Nel primo caso, infatti, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed automa rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale” ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare.
Ciò in applicazione della lettera e della ratio della norma, che, come correttamente osservato dalla CTR, è quella di impedire che la fittizia assunzione della dimora o della residenza in altro luogo da parte di uno dei coniugi crei la possibilità per il medesimo nucleo familiare di godere due volte dei benefici per la abitazione principale.
Nel secondo caso, invece, la frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi, intesa quale separazione di fatto, comporta una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale” non potrà essere più identificata con la casa coniugale.
Tali principi sono stati correttamente applicati dalla sentenza impugnata, la quale ha ritenuto che il mutamento di residenza del coniuge della ricorrente non è stato fittizio, ma corrispondeva ad un effettivo distacco dal nucleo familiare, per effetto di una rottura del rapporto di convivenza, ciò desumendo dalle stesse dichiarazioni rese dal Comune sia in primo che in secondo grado, secondo le quali era “circostanza pacifica, non contestata né contestabile, che il marito della signora P. non abbia, nell’immobile in questione né la dimora né la residenza”. Ad avviso della CTR, infatti, “ciò è quanto basta perché si possa affermare che, venuta meno la convivenza tra i coniugi, il nucleo familiare della P. — tuttora dimorante nell’immobile della cui tassazione si controverte — si è ridotto di consistenza, essendone uscita la persona di G.Z., senza che ne derivasse, per quanto dianzi annotato, il venir meno del diritto all’agevolazione”.
Accertato tale presupposto di fatto, la CTR ha quindi esattamente sussunto la fattispecie concreta nella norma di riferimento. Sotto il profilo della lamentata violazione dell’art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 il motivo è pertanto infondato.
Tuttavia, il Comune ricorrente, invero, non ha proposto una interpretazione dell’art. 8 del d.lgs n. 504/1992 diversa da quella ricostruita da questo Collegio ed applicata dalla CTR, ma ha lamentato che la sentenza impugnata violerebbe la norma in quanto le dichiarazioni dalla stesso Comune, sulle quali si fonda la motivazione, attesterebbero solo la diversa dimora dei coniugi, e non già l’effettiva causa del distacco, ossia la frattura del rapporto coniugale, ed ha aggiunto che lo stesso giudice di merito non avrebbe ravvisato la frattura del rapporto familiare allorquando, nella motivazione, ha affermato che “la prova dell’effettivo distacco dal nucleo familiare per effetto di una rottura del rapporto di convivenza non può essere data da una dichiarazione unilaterale dei soggetti interessati, ancorché formalizzata in una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (come quella prodotta in questa sede)… trattandosi di documenti efficacemente utilizzabili in un procedimento amministrativo, ma non in sede giudiziale”.
In proposito va premesso che la sentenza impugnata, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, accerta non solo la diversa dimora dei coniugi, ma specificamente proprio la intervenuta “frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi (espressione già utilizzata dalla citata Cass. n. 14389 del 2010 e da intendersi equipollente alla “frattura del rapporto coniugale”, come può evincersi dalla motivazione della CTR complessivamente considerata, che premette la necessità di ricercare la prova di “un effettivo distacco dal nucleo familiare” e che, infine, ritiene raggiunta la prova della “veridicità della cessazione del rapporto di convivenza tra i coniugi).
Né il passaggio motivazionale relativo al valore probatorio di una dichiarazione unilaterale dei soggetti interessati può essere inteso nel senso, prospettato dal ricorrente, che la stessa CTR avrebbe nella specie escluso il raggiungimento della prova circa l’avvenuta frattura del rapporto di convivenza, costituendo tale parte della motivazione all’evidenza solo una precisazione sull’inadeguatezza probatoria di quel documento, pur prodotto dalla parte, che tuttavia non esclude la possibilità di accertare il medesimo fatto in base ad altri elementi probatori, come nella specie in effetti avvenuto.
Tale essendo l’accertamento di fatto compiuto dalla sentenza impugnata, la doglianza relativa all’inadeguatezza delle dichiarazioni del Comune al fine di ritenere provata la frattura del rapporto di convivenza è inammissibile, atteso che con essa il ricorrente, pur deducendo, apparentemente, la violazione di una norma di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. sez. 6-3, 4/04/2017, n. 8758, Rv. 643690 – 01).
In proposito, vale richiamare il principio già espresso da questa Corte, secondo il quale “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultane di causa (Cass. 16/7/2010, n. 16698, Rv. 614588 – 01; Cass. 12/10/2017 n. 24054, Rv. 646811 -01).
Dunque il motivo, nella parte in cui lamenta una assenza di prova in ordine alla frattura del rapporto coniugale, ritenuta invece sussistente dalla CTR, non prospetta una violazione di legge, ma ripropone evidentemente ed inammissibilmente il merito della causa e sollecita la (ri)valutazione del materiale probatorio su un presupposto di fatto di applicabilità della norma, risolvendosi altresì nelle prospettazione di un vizio motivazionale al di fuori dei limiti consentiti dall’attuale formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (peraltro neppure invocato dal ricorrente).
2. Con il secondo motivo il Comune ricorrente deduce “la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, per non essere stata provata dalla contribuente, come era suo onere, la frattura del rapporto coniugale; ad avviso del ricorrente, infatti, erroneamente la CTR avrebbe apprezzato quale prova della separazione per via della crisi coniugale (che si assume essere rimasta invece indimostrata), il fatto della differente dimora dei coniugi evidenziato dal Comune, che invece è proprio la causa del venir meno del rapporto agevolato.
2.1. il motivo è inammissibile
Il ricorrente, pur deducendo, apparentemente, la violazione di una norma di legge (art. 2697 c.c.), mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito.
Infatti la censura, siccome illustrata in ricorso, investe l’esistenza e la valutazione della prova della frattura del rapporto di convivenza, ossia dell’effettivo distacco del marito dal nucleo familiare (questione di fatto, deducibile solo ai sensi e nei limiti di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.,) e non già la violazione del riparto degli oneri probatori previsti dalla norma citata, che sola avrebbe potuto integrare l’ipotesi di impugnazione di cui all’art. 360, n. 3 c.p.c. prospettata dal ricorrente (Cass., sez. 3, 17/06/2013, n. 15107, Rv. 626907 – 01).
Invero, la CTR non ha affatto affermato che l’onere probatorio circa l’avvenuta frattura del rapporto coniugale non gravasse sulla contribuente, né tantomeno ha attribuito siffatto onere in capo al Comune, ma si è limitata a ritenere provate la circostanza di cui si discorre in base alle dichiarazioni provenienti dallo stesso Comune, a mente delle quali il marito della contribuente non dimorava né risiedeva nell’immobile, e da queste ha tratto il convincimento dell’intervenuta effettiva frattura del rapporto di convivenza.
La sentenza impugnata, dunque, non ha alterato il riparto degli oneri probatori siccome previsto dall’art. 2697 c..c., ma ha ritenuto assolto tali oneri in applicazione del principio di non contestazione, al quale consegue la “relevatio” della parte dall’onere probatorio su di essa gravante.
Alla luce della motivazione esplicitata nella sentenza impugnata, deve conseguentemente escludersi che la CTR sia incorsa nella violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., denunciabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., atteso che tale vizio si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., e dunque nei limiti consentiti da tale norma, come riformulata dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 (V. Cass., sez. 3, 17/6/2013, n. 15107, Rv. 626907 — 01; Cass., sez. 3, 5/9/2006, n. 19054, Rv. 592634 – 01).
3. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. La novità della questione trattata giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
– Rigetta il ricorso;
– Compensa interamente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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