CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 giugno 2019, n. 15481
Tributi – TARSU – Aree di lavorazione pertinenziali ad uno stabilimento o spazi di manovra – Esclusione – Obbligo della denuncia, ex art. 70 del D.Lgs. n. 507 del 1993 – Omissione – Tassazione
Ritenuto che
– la controversia ha ad oggetto un diniego di rimborso riguardante somme ritenute versate in misura maggiore relative alla TARSU per gli anni dal 2008 al 2013 applicata su aree di lavorazione pertinenziali ad uno stabilimento o spazi di manovra, ritenuti non idonei a produrre rifiuti solidi urbani;
– per ciò che rileva ai fini della decisione, la C.T.R. dell’Abruzzo, riformando la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, ha accolto l’appello del comune sulle seguenti considerazioni: è stato dimostrato che si tratta di spazi aventi diverse destinazioni ed alcune superfici sono già state escluse dalla tassazione; è a carico del contribuente, che intende esimersi dall’assoggettamento al tributo, l’onere di indicare le circostanze nella denuncia originaria o di variazione e di rendere le stesse debitamente riscontrabili; la parte contribuente non ha assolto all’onere sulla stessa incombente di chiarire e dimostrare su quali superfici era applicabile lo sgravio; a tal fine i MUD prodotti sono inidonei a dimostrare in dettaglio le zone produttive di rifiuti esenti da tassazione;
– avverso la sentenza ricorre la parte contribuente che produce memoria, mentre il comune propone controricorso.
Considerato che
1. Con un unico motivo di ricorso la parte contribuente lamenta la violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., dell’art. 184, comma 3, lettera a) del d.lgs. n. 152 del 2006 e degli artt. 68 e 62 del d.lgs. n. 507 del 1993; in particolare, si duole che la sentenza impugnata non abbia considerato che i rifiuti prodotti dalle attività agricole e agro-industriali sono da considerarsi rifiuti speciali, ai sensi dell’art. 184 sopra richiamato; per tale qualità essi sono esclusi dalla tassazione ai sensi dell’art. 68 del d.lgs. 507 del 1993.
1.1. Il motivo è infondato per le ragioni di seguito esposte.
1.2. Ai sensi dell’art. 184, comma 1 , del d.lgs. n. 152 del 2006 , i “rifiuti sono classificati, secondo l’origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali” . Il comma 3, poi, dispone che sono rifiuti speciali quelli derivanti da attività agricole e agro- industriali.
In epoca più risalente sussisteva un’assimilazione ope legis ai rifiuti urbani di quelli provenienti dalle attività artigianali, commerciali e di servizi, purché aventi una composizione merceologica analoga a quella urbana, secondo i dettagli tecnici contenuti nella deliberazione CIPE del 27 luglio 1984, ai sensi dell’art. 39 della I. n. 146 del 1994.
L’art. 17, comma 3, della I. n. 128 del 1998, ha abrogato il predetto art. 39 e, a questo proposito, la S.C. ha chiarito che, venendo meno tale assimilazione ope legis, “risulta pienamente operativo l’art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 22 del 1997, attributivo ai Comuni della facoltà di assimilare o meno ai rifiuti urbani quelli derivanti dalle attività economiche, sicché, a partire dall’annualità d’imposta 1997, assumono decisivo rilievo le indicazioni proprie dei regolamenti comunali circa l’assimilazione dei rifiuti provenienti dalle attività economiche ai rifiuti urbani ordinari” (Cass. n. 22223 del 2016).
Nel caso in esame solo nel controricorso il comune ha dichiarato di avere fatto ricorso a delibere con cui sono stati assimilati i rifiuti speciali a quelli urbani. Non si ritiene di potere tenere conto di tale rilievo, di cui non vi è alcuna menzione, né nella sentenza impugnata, né nel ricorso. Il comune non ha chiarito, per un verso, il contenuto di tali delibere; non ha, per altro verso, specificato, se la circostanza sia stata dedotta in sede di costituzione nel giudizio; non ha indicato gli atti ove si è trattato della questione, né, infine, ha indicato gli atti da cui evincere l’esistenza di regolamenti di assimilazione di rifiuti speciali a quelli urbani.
La fattispecie va, pertanto, disciplinata come le ipotesi in cui è mancato l’esercizio del potere di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti solidi urbani da parte del Comune, ai sensi dell’art. 21, comma 2, lett. g), del d.lgs. n. 22 del 1997.
In tal caso i rifiuti speciali sono regolati dall’art. 62 del d.lgs. n. 507 del 1993, che fissa il presupposto impositivo nella “occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito o attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli articoli 58 e 59”.
Già da tempo la giurisprudenza di legittimità del tutto condivisa da questo collegio, ha chiarito che la norma ora richiamata “pone una presunzione soltanto relativa di tassabilità, giacché nel medesimo comma ed in quelli successivi elenca numerose ipotesi di edifici o aree esentate, totalmente o parzialmente, dal tributo”. Poiché tali esenzioni costituiscono un’eccezione alla regola generale di assoggettamento alla tassa di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale in cui il servizio di raccolta è istituito o attivato, grava su chi ritiene di avere diritto all’esenzione l’onere della prova circa l’esistenza e la delimitazione delle superfici per le quali il tributo non è dovuto (Cass. n. 15083 del 2004).
Tale principio è stato in diverse occasioni affermato anche in relazione al comma 3 dell’articolo 62 ora citato, secondo il quale: “nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti”. In particolare, non vi sono ragioni per potersi discostare dal principio per cui è onere della parte contribuente fornire all’amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza e alla delimitazione delle aree in cui vengono prodotti rifiuti speciali non assimilabili a quelli urbani, che pertanto non concorrono alla quantificazione della superficie imponibile, in applicazione dell’art. 62, comma 3, del d.lgs. n. 507 del 1993. Si ritiene che “Infatti, pur operando anche nella materia in esame – per quanto riguarda il presupposto della occupazione di aree nel territorio comunale – il principio secondo il quale l’onere della prova dei fatti costituenti fonte dell’obbligazione tributaria spetta all’amministrazione, per quanto attiene alla quantificazione della tassa è posto a carico dell’interessato (oltre all’obbligo della denuncia, ex art. 70 del citato D.Lgs. n. 507 del 1993) un onere di informazione, al fine di ottenere l’esclusione di alcune aree dalla superficie tassabile, ponendosi tale esclusione come eccezione alla regola generale secondo cui al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che occupano o detengono immobili nel territorio comunale” (In questo senso Cass. n. 4766 del 2004, n. 21250 del 2017, n. 10296 del 2019).
La sentenza impugnata ha fatto una corretta applicazione dei principi sopra esposti, laddove ha rilevato che la parte contribuente non ha contestato l’avviso di liquidazione, non ha presentato la denuncia di cui all’art. 70 del d.lgs. n. 507 del 1993, limitandosi solo alla produzione documentale dei MUD. In tale contesto, ai fini dell’esenzione delle superfici tassabili, tuttavia, detta produzione non è sufficiente per chiarire su quali specifiche superfici, per quali lavorazioni e per quali rifiuti di lavorazione competeva lo sgravio.
La produzione documentale effettuata dalla parte contribuente, come correttamente rilevato nella sentenza impugnata, era indispensabile, in quanto essa, in assenza della denuncia di cui all’art. 70 sopra richiamato, aveva già prestato acquiescenza all’atto ricognitivo delle superfici tassabili. Detta documentazione, tuttavia, era insufficiente ad individuare le specifiche superfici su cui vengono prodotti i rifiuti speciali che avrebbero potuto essere oggetto di sgravio.
2. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la parte contribuente a pagare in favore del comune le spese di lite del presente giudizio, che liquida nell’importo di € 4100,00 per compensi, oltre rimborso e spese forfettarie nella misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 — bis dello stesso articolo 13.
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