CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 novembre 2018, n. 28400
Imposte dirette – IRPEF – Imposta di registro – Accertamento – Cessione terreno – Plusvalenza
Rilevato
che la contribuente reagiva avverso l’avviso di accertamento con cui era determinata maggiore imposta per € 34.264,00 – oltre accessori, in conseguenza della plusvalenza derivante da cessione di terreno e ricalcolata dall’Ufficio come conseguenza della rideterminazione dell’imposta di registro, oggetto di diverso avviso di accertamento, non impugnato dall’originaria ricorrente che, anzi, aveva provveduto a pagarlo;
che il collegio territoriale respingeva il ricorso, da un lato valorizzando la decadenza dall’azione per il primo accertamento, ormai definitivo e facente stato sulle caratteristiche del bene compravenduto, dall’altro argomentando in coerenza con l’orientamento pregresso di questa Corte in ordine alla consequenzialità fra liquidazione dell’imposta di registro e (presunzione qualificata di maggiore) Irpef;
che, per contro, il giudice d’appello riteneva apprezzabili le ragioni della contribuente, distinguendo i presupposti normativi ed economici fra imposta di registro ed imposte dirette;
che insorge l’Avvocatura dello Stato affidandosi a quattro motivi di ricorso;
che resiste la contribuente con puntuale controricorso.
Considerato
che con il primo motivo si lamenta violazione dell’art. 21 d.lgs. n. 546/1992 in parametro all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.;
che, nello specifico, la difesa erariale invoca la preclusione intervenuta sul precedente avviso di accertamento che ha fissato la natura edificabile del terreno compravenduto, con accertamenti non contestati dalla contribuente, che anzi vi ha fatto acquiescenza, sicché non possono essere introdotti in questo giudizio relativo ad altro – e conseguente – avviso di accertamento tutti gli argomenti che riguardano il precedente, pena la violazione del sistema delle preclusioni conseguente alla decadenza dall’azione;
che, preliminarmente, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità del motivo sollevata dalla difesa della contribuente, perché argomento sollevato per la prima volta in questa fase del giudizio e che non assolve l’onere dell’autosufficienza, perché non indica i passaggi degli atti ove sarebbe stato primieramente esposto;
che l’eccezione è infondata ed il motivo ammissibile, poiché trattasi di questione rilevabile d’ufficio (come riconosce la stessa difesa di parte privata: cfr. p. 8, in basso, del controricorso) non abbisognevole di ulteriori accertamenti in fatto, risultando in atti che il profilo dell’acquiescenza era già stato esaminato dal primo giudice (cfr. p.3, quarto allinea, sentenza impugnata) e denunziato dall’Ufficio (cfr. p. 11, terzo allinea, p. 14 in basso e p. 15 in alto del ricorso per cassazione);
che, pur ammissibile, il motivo è infondato perché la diversa natura dei tributi – registro ed imposte dirette – impedisce che gli accertamenti di fatto dell’uno si riflettano su quelli dell’altro, mantenendo quindi i due accertamenti autonomi apprezzamenti di fatto, slegati ed ininfluenti l’uno sull’altro, come si dirà funditus infra sub esame del terzo motivo di gravame;
che, con il secondo motivo, la difesa erariale lamenta insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio in parametro all’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ., perché il collegio d’appello non avrebbe motivato sulle ragioni che gli avrebbero consentito di discostarsi dall’accertamento ai fini Irpef rispetto al precedente (e ritenuto presupposto) accertamento ai fini dell’imposta di registro;
che il motivo è infondato e va disatteso, poiché da pag. 6, sesto allinea, fino alla conclusione della parte motiva, la sentenza qui gravata argomenta in ordine alla differenza sostanziale e normativa fra i due tributi, svolgendo ragionamento consequenziale e coerente con l’orientamento fatto proprio da questa Corte, come si dirà subito;
che con il terzo motivo si lamenta violazione dell’art. 67 d.P.R. n. 917/1986, dell’art. 38 d.P.R. n. 600/1973 e dell’art. 2697 in parametro all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.;
che, segnatamente, l’Ufficio richiama la coerenza logica interna che dovrebbe permeare gli accertamenti in fatto sui beni, sui cespiti, più in generale sugli indici di capacità contributiva, per cui le liquidazioni di tributi non impugnate (o, come in questo caso, addirittura adempiute) possono costituire presunzioni semplici su cui fondare i provvedimenti amministrativi impositivi e ribaltare sul contribuente l’onere di allegazione di prova contraria;
che, in questo senso, l’Ufficio prima, e la difesa erariale, dopo si sono attenuti all’orientamento di questa Corte, di cui richiamano i precedenti;
che, non di meno, il motivo di doglianza va disatteso; che, infatti, seppure questa Corte ha costantemente affermato come nella fase di accertamento di una plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a procedere in via presuntiva sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, restando a carico del contribuente l’onere di superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di aver in concreto venduto ad un prezzo inferiore (così Cass. n. 4057/2007, poi ribadita in Cass. n. 21020/2009, Cass. n. 18705/2010), non di meno, successivamente è intervenuta una norma di interpretazione autentica;
che, più precisamente, alla luce del principio secondo cui nell’accertamento delle imposte sui redditi, “l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 – che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – esclude che l’Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini di altra imposta commisurata al valore del bene, posto che la base imponibile ai fini IRPEF è data non già dal valore del bene, ma dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta e il prezzo di acquisto del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo;
che il riferimento contenuto nella detta norma all’imposta di registro ed alle imposte ipotecarie e catastali svolge una funzione esemplificativa, volta esclusivamente a rimarcare la ratio della norma incentrata sulla non assimilabilità della differente base impositiva (valore) rispetto a quella prevista per l’IRPEF (corrispettivo)” (Cfr. Cass. n. 19227/2017, Cass. n. 12265/2017);
che di questo principio ha fatto buon governo la sentenza impugnata, per cui non può accogliersi il terzo motivo di gravame proposto dalla difesa erariale;
che, con il quarto motivo, si (ri)propone la doglianza di insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio in parametro all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.;
che, nella sostanza, la difesa erariale ritiene non sia stata data ragione del convincimento per cui gli accertamenti in fatto relativi all’imposta di registro non possano fondare la liquidazione (anche) delle imposte dirette;
che il motivo è infondato e va disatteso, rinvenendosi da metà di pagina 6 della sentenza gravata il filo logico che conduce il giudice di secondo grado alle sue conclusioni, coerenti con la (sopravvenuta) norma di interpretazione autentica e recepite nell’orientamento più recente di questa Corte;
che, nello specifico, il giudice di secondo grado muove dalla diversa natura dei due tributi, dalla diversità di presupposti delle imposte dirette rispetto al registro e alle imposte ipotecarie e catastali, intesi come <<tributi autonomi dovuti per il compimento nei pubblici registri immobiliari delle formalità relative agli atti predetti e per le conseguenti volture negli atti del catasto>>, mentre esamina poi i presupposti per le plusvalenze, la regola – solo tendenziale – del intento speculativo e la necessità di un esame concreto sulla ricchezza (plusvalenza) effettivamente generata o meno dall’operazione ed al prezzo – in quel momento effettivamente lucrato, per poi svolgere un esame sulle perizie prodotte e sui documenti offerti, fra cui le certificazioni di destinazione urbanistica rilasciate dai competenti uffici tecnici comunali, fino ad esaminare lo stato di famiglia ed i tempi di corresponsione del prezzo, per concludere che ci sia prova della mancata plusvalenza, mentre l’Ufficio – confidando nella presunzione semplice – non ha offerto prova contraria convincente; che, in definitiva, il ricorso è infondato e va rigettato; che soccorrono giusti motivi per compensare le spese in ragione del momento di consolidamento del nuovo indirizzo giurisprudenziale di riferimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, compensa integralmente fra le parti le spese del presente grado di giudizio.
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