CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 ottobre 2021, n. 27322
Licenziamento – Svolgimento durante il periodo di malattia di attività extra lavorative – Ritardo nella guarigione – Onere probatorio
Rilevato che
La Corte d’appello di Roma, in riforma della pronuncia del giudice di prima istanza, accoglieva la domanda proposta da P.P.U. nei confronti della s.p.a. B. volta a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 12/9/2016 per aver svolto durante il periodo di malattia protrattosi dal 27 luglio al 14 agosto 2016 (poi prolungato dal 15 al 19 agosto con sospensione del periodo feriale programmato), una attività ritenuta non compatibile con la patologia che lo affliggeva (lombosciatalgia sx) ed in ogni caso idonea a pregiudicarne o ritardarne la guarigione;
il Collegio del merito fondava il proprio convincimento, in estrema sintesi, sulle conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare medico-legale il quale aveva ritenuto che le attività extra lavorative svolte dall’attore nel periodo di malattia, così come emerse in sede istruttoria, non avessero aggravato la patologia da cui era affetto – patologia realmente esistente, non simulata – né ritardato la guarigione; la guida di autovettura, di motociclo per brevi spostamenti o la pulizia di qualche bottiglia, non avevano inciso, nella argomentata opinione espressa dal consulente, sul decorso della malattia;
la Corte osservava altresì che – come emerso dal complesso quadro delle acquisizioni probatorie – il lavoratore non aveva provveduto personalmente allo scarico di pannelli isolanti per la copertura del ricovero per cani alla quale si era in quel periodo dedicato, essendosi limitato alla assistenza di coloro che se ne erano occupati; il prolungamento della malattia era stato, poi, oggetto di certificazione sanitaria, dovendosi escludere una simulazione della gravità dello stato morboso al fine del prolungamento della assenza giustificata; dalla accertata insussistenza del fatto contestato discendeva, quindi, l’applicazione della tutela reintegratoria sancita dal comma quarto dell’art. 18 l. 300/1970 come novellato dall’art. 1 c.42 l. 92/2012 e la condanna della società al pagamento della indennità risarcitoria determinata nella misura di dodici mensilità;
la cassazione di tale decisione è domandata dalla B. s.p.a. sulla base di unico motivo successivamente illustrato da memoria ex art.380 bis c.p.c.;
la parte intimata ha opposto difese con controricorso;
Considerato che
1. con unico motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ai sensi dell’art.360 comma primo n.5 c.p.c.;
ci si duole che il giudice di seconda istanza abbia trascurato un fatto dedotto e provato in giudizio, relativo al peso ed alla movimentazione dei pannelli in PVC utilizzati per la copertura del tetto del manufatto cui si era dedicato il ricorrente nel corso del periodo di malattia, come desumibile dalle foto e dallo sviluppo dei dati tecnici allegati;
si critica l’interpretazione dei dati istruttori resa dalla Corte di merito laddove ha escluso che il lavoratore avesse provveduto personalmente allo scarico dei pannelli, perché in contrasto con gli esiti della prova testimoniale e della CTP, stigmatizzandosi altresì gli approdi ai quali era pervenuto il CTU per non aver associato “la ripresa della malattia alla prestazione lavorativa svolta dal ricorrente nella costruzione della tettoia”, quando appariva chiaro che non solo la mancanza del riposo ma anche il sovraccarico di sollecitazioni esterne sul rachide già compromesso, avessero comportato inevitabilmente la ripresa della sintomatologia dolorosa; .
si deduce che i dati acquisiti in sede istruttoria avevano evidenziato come il ricorrente avesse svolto nel corso del periodo di malattia, movimentazione in un fondo di proprietà, di pannelli in PVC la cui dimensione e peso erano facilmente riscontrabili dall’esame della relazione fotografica dai quali era desumibile che il peso di ogni pannello non fosse inferiore ai 25 kg; in tal senso le conclusioni rassegnate dall’ausiliare e recepite dai giudici del merito erano da ritenersi assolutamente incompatibili con le risultanze istruttorie.
2. il motivo è inammissibile;
anche prima della novella del 2012 del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con mod. in L. 7 agosto 2012, n. 134, costituiva consolidato insegnamento essere sempre vietato invocare in sede di legittimità un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché non ha la corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, essendo la valutazione degli elementi probatori attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (tra le molte, v. Cass. 17/11/2005, n. 23286, oppure Cass. 18/5/2006, Cass. 23/12/2009, n. 27162; Cass. sez. un., 21/12/2009, n. 26825; Cass. 16/12/2011, n. 27197);
non può, dunque, essere invocata una lettura delle risultanze probatorie difforme da quella operata dalla corte territoriale, essendo la valutazione di quelle – al pari della scelta di quelle, tra esse, ritenute più idonee a sorreggere la motivazione – un tipico apprezzamento di fatto, riservato in via esclusiva al giudice del merito: il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del . proprio convincimento, senza peraltro essere tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva (per tutte: Cass. 20/4/2012 n. 6260);
nel sistema l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta (Cass. Sez. Un., 7/4/2014, n. 8053) la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;
in tale contesto, il nuovo testo dell’art.360 c.p.c., n.5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
tanto comporta (Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. 19881) che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili; mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti;
anche con riferimento alle critiche formulate avverso la CTU deve rammentarsi che le conclusioni del consulente tecnico di ufficio sulle quali si fonda la sentenza impugnata possono essere contestate in sede di legittimità se le relative censure contengano la denuncia di una documentata devianza dai canoni fondamentali della scienza medico – legale o dai protocolli praticati per particolari assicurazioni sociali che, in quanto tale, costituisce un vero e proprio vizio della logica medico – legale e rientra tra i vizi deducibili con il ricorso per cassazione ex art.360 n.5, cod. proc. civ. (vedi ex plurimis, Cass. 3/2/2012 n.1652; Cass. 3/4/2008 n. 8654);
nello specifico il vizio, nei sensi denunciati, non rientra nel paradigma devolutivo e deduttivo della novellata disposizione;
i giudici di seconda istanza, come fatto cenno nello storico di lite, hanno recepito gli esiti degli accertamenti medico-legali dai quali era emerso che la malattia certificata e posta a giustificazione della assenza dal lavoro era realmente sussistente; che la modesta attività fisica compiuta dal ricorrente non aveva aggravato la patologia da cui era affetto il dipendente, per la cui remissione era ammissibile un arco temporale di trenta giorni dall’inizio della manifestazione dei sintomi; che il prolungamento dello stato di malattia non era stato simulato, e risultava accertato alla stregua delle certificazioni sanitarie versate in atti;
le critiche formulate dalla società avverso siffatti argomentati accertamenti, si atteggiano in termini di semplici difformità di valutazione circa l’incidenza della presumibile attività svolta dal dipendente, con lo stato patologico denunciato;
da ciò deriva, in definitiva, che i motivi in esame si traducono nell’invocata revisione dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova valutazione ed un diverso apprezzamento dei fatti, non concessa, perché estranea alla natura ed alla finalità del giudizio di legittimità;
discende dalle superiori argomentazioni, l’inammissibilità del ricorso;
il governo delle spese inerenti al presente giudizio, segue la soccombenza come, da dispositivo, con distrazione in favore dell’avv. P.P. dichiaratosi antistatario;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. P.P.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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