CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 07 ottobre 2022, n. 29229
Licenziamento – Simulazione fraudolenta della malattia preordinata allo svolgimento di attività extralavorative – Proporzionalità della sanzione espulsiva
Fatti di causa
1. Con ricorso al Tribunale di S.M. Capua Vetere, B.S. premetteva di essere dipendente della C.V.d.S. s.p.a., con qualifica di ausiliario sin dall’11.3.2005 e di essere stato licenziato con nota del 3.2.2015; lamentava l’illegittimità di tale licenziamento per insussistenza del fatto contestato, ovverossia la simulazione di uno stato di malattia nei giorni 26 e 27 novembre 2014 e 2 gennaio 2015 e, in ogni caso, per assenza di giusta causa, eccependo l’insussistenza del requisito di proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto ai fatti addebitati, anche alla luce delle ipotesi di giusta causa di licenziamento tipizzate dalla contrattazione collettiva di categoria. Chiedeva, quindi, ordinarsi alla società convenuta il ripristino del rapporto di lavoro con conseguente risarcimento del danno.
2. Nel costituirsi in giudizio, la resistente deduceva la legittimità del recesso, richiamando gli esiti degli accertamenti investigativi condotti a carico del B., i quali avevano consentito di appurare che nei giorni di dichiarata malattia, il predetto era intento a lavorare presso il bar “O.B.” di sua proprietà; in diritto, riconduceva la fattispecie concreta alla nozione di giusta causa, evidenziando la gravità dei fatti contestati, integranti gli estremi della simulazione fraudolenta della malattia, preordinata allo svolgimento di attività extralavorative; concludeva per la proporzionalità del licenziamento, con conseguente rigetto della domanda.
3. Ammesse ed espletate le prove, il giudice adito, con ordinanza del 5.12.2016, rigettava la domanda del ricorrente.
4. A seguito di opposizione di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1, comma 51, L. 28.6.2012, n. 92, e costituitasi la società resistente, il Tribunale emetteva sentenza del 2.4.2019, con la quale rigettava la domanda e condannava il B. al pagamento delle spese processuali, liquidate in C 2.309,00, di cui C 301,00 per spese forfetarie, e distratte in favore dei difensori della resistente, dichiaratisi anticipatari.
5. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Napoli rigettava il reclamo proposto dal B. contro la sentenza di primo grado, e condannava il reclamante al pagamento delle spese dell’ulteriore grado, liquidate in C 2.500,00, oltre IVA e CPA e rimborso spese generali come per legge.
8. Avverso tale decisione il B. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo. Ha resistito l’intimata con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico motivo, il ricorrente denuncia, ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., violazione e falsa applicazione di norme di diritto, e, specificamente, degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 c.c.
2. Secondo il ricorrente, “la Corte d’Appello ha erroneamente interpretato la disposizione normativa nella parte in cui ha ritenuto sussistente la simulazione di malattia da parte del Sig. B., nonché correttamente motivata sul punto la pronuncia emessa in sede di giudizio di opposizione Fornero a ciò in palese contrasto con la giurisprudenza di codesta Suprema Corte, peraltro espressamente richiamata nel corso del reclamo”. Sempre per il ricorrente, “la motivazione dei giudici di appello risulta essere in palese violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in quanto frutto di un’evidente errata interpretazione degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2015 c.c., atteso che, a differenza di quanto indicato in motivazione, la condotta del Sig. B., di aver svolto attività lavorativa durante il suo stato di malattia, non integra in alcun modo né un caso di simulazione dello stato morboso né una violazione dei canoni di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale”. Evidenzia <come la Corte d’Appello con una carente motivazione, ed in palese violazione di legge, ha ritenuto legittima la sentenza resa in primo grado, nonostante le peculiari eccezioni sollevate in ordine alla lesione del diritto di difesa ed il mancato accoglimento delle istanze istruttorie del ricorrente, idonee a dimostrare la sussistenza dello stato di malattia (in alcun modo simulato), e ciò in base al pretestuoso rilievo che “il B. neanche si è premurato di allegare le mansioni specifiche alle quali era addetto”>. Sempre a detta del ricorrente, “tale motivazione appare del tutto errata atteso che le mansioni disimpegnate dal Sig. B., sono state espressamente indicate nel corpo della memoria difensiva, della fase sommaria del giudizio, da parte della C.V.d.S. con la conseguenza che, in alcun modo, non risultava possibile alla Corte effettuare la, dovuta, valutazione in merito all’incompatibilità dello stato di malattia con l’attività lavorativa dallo stesso prestata in favore della società resistente. Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni appare evidente che la mancata escussione, in qualità di testimone del medico certificatore Dott. B.S., determina l’assoluta illegittimità ed erroneità della Sentenza resa in appello, emessa in violazione di legge”. Assume ancora il ricorrente che “del tutto cassabile appare l’impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto correttamente motivata la sentenza della fase di opposizione in ordine alla valutazione del comportamento del lavoratore, tale da desumere che lo stesso non era impossibilitato a svolgere la sua prestazione lavorativa”. Indi, dopo aver richiamato taluni precedenti di legittimità, che assume essere espressivi di un consolidato orientamento di questa Corte, l’impugnante asserisce “che nulla ha dedotto o rilevato il datore di lavoro, fondandosi pertanto la decisione sulla base di semplici prove indiziarie, non suffragate da alcun sostegno documentale di tipo medico/scientifico”.
Ribadisce, allora, il ricorrente che la Corte di merito avrebbe “violato falsamente applicato la disciplina di cu agli art. 1175, 1375, 2104 e 2015 c.c. rilevandosi come lo stato di malattia del lavoratore, in alcun modo simulato e risultante da idonea certificazione medica, non risulta essere in contrasto con lo svolgimento di attività extra lavorativa né la propria condotta contraria ai canoni di correttezza e buona fede”.
3. Ritiene il Collegio che tale censura debba essere reputata inammissibile per molteplici ragioni.
4. Come ben risulta anche dallo svolgimento dell’unico motivo di ricorso, sub § 2 che precede di questa decisione pressoché testualmente ed integralmente riportato, il ricorrente, pur facendo riferimento al mezzo di cui all’art. 360, comma primo n. 3), c.p.c. in chiave di dedotta violazione di norme di diritto sostanziale, in realtà fa valere anche, per giunta in termini prevalentemente assertivi e ripetitivi, pretesi vizi motivazionali della sentenza di secondo grado, in ipotesi ora deducibili piuttosto ex art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c., ove si prospetti almeno una motivazione che non giunga al c.d. “minimo costituzionale”, oppure ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., ma alle strette condizioni ivi ora delineate, ossia, quando sia dedotto l’ “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
5. Come si è visto, inoltre, lamenta il ricorrente altresì la mancata escussione, quale testimone, del medico certificatore Dott. B.S. Ma, in disparte la considerazione che tale aspetto ovviamente non ha nulla a che vedere con le previsioni di cui agli artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 c.c. che si assumono violate o falsamente applicate, che sono tutte norme di diritto sostanziale, è praticamente ignorata la parte di motivazione che la Corte distrettuale aveva dedicato a questo profilo, che rientrava tra le censure formulate in appello dal lavoratore (cfr. facciate 4 e segg. della sentenza impugnata); di talché l’unico motivo di ricorso difetta altresì di specificità in termini di pertinenza rispetto a quanto considerato dai giudici di secondo grado.
6. Più in generale sempre carente di specificità sotto lo stesso punto di vista è il motivo in esame, non tenendosi conto, cioè, che la Corte, come ben risulta da un’attenta lettura della sua decisione, non ha reputato “sussistente la simulazione di malattia da parte del Sig. B.”, come opina il ricorrente, bensì ha ritenuto “assolutamente contrario agli obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione il comportamento del lavoratore che durante la malattia ponga in essere attività – quali quelle espletate dal B. – che lascino presumere una simulazione della patologia” (così all’ultima facciata della sua sentenza). La stessa Corte di merito aveva, infatti, concluso che “del tutto irrilevante, nel caso in esame, è il fatto che non vi sia stato un aggravamento della malattia (ciò che il giudice ha escluso in radice) o che la patologia fosse esistente (laddove per la sua non particolare gravità, essa avrebbe consentito al lavoratore di prestare la propria attività lavorativa)” (così ibidem).
In precedenza, e nello stesso senso, la Corte distrettuale aveva rilevato che giustamente il giudice di prime cure “ha valorizzato il comportamento tenuto dal lavoratore, per desumerne, correttamente, che egli non era impossibilitato a svolgere la sua prestazione lavorativa” (così all’inizio della penultima facciata). Come già rilevato, infatti, tale effettiva ratio decidendi della sentenza gravata, la quale s’incentra, non già su un’affermata simulazione della malattia, bensì sull’assunto che la condotta tenuta in costanza di malattia fosse tale da lasciare presumere tale simulazione e comunque tale da far concludere che le sue condizioni non rendessero impossibile lo svolgimento della prestazione lavorativa, è attaccata dal ricorrente in termini del tutto apodittici.
7. L’unico punto dei motivi dell’impugnata sentenza che è direttamente preso in considerazione dal ricorrente, come si è visto, è quello in cui viene giudicato pretestuoso il rilievo della Corte di merito che “il B. neanche si è premurato di allegare le mansioni specifiche alle quali era addetto”. Sennonché, in disparte la considerazione che tale osservazione afferisce al terreno probatorio, in realtà la stessa Corte aveva scritto: “… va rilevato che il B. neanche si è premurato di allegare le mansioni specifiche alle qual era addetto limitandosi ad affermare di essere un “operatore sanitario”. Il che impedisce qualsivoglia valutazione in merito alla incompatibilità dello stato di malattia (che deve ritenersi sussistente sulla base della certificazione medica allegata dalla parte e per altro non contestata dalla società) con l’attività lavorativa da prestarsi in favore della reclamata”. E’ perciò chiaro che i giudici di secondo grado avevano voluto significare che l’incompleta allegazione dell’attore circa le mansioni “specifiche” disimpegnate, intese in termini di compiti concretamente svolti a livello di impegno psico-fisico, non consentiva di valutare l’incompatibilità dello stato di malattia (stato di per sé non contestato) con l’attività lavorativa che avrebbe dovuto svolgere il B. per la datrice di lavoro. Per altro verso, poi, come pure si è già visto, la Corte distrettuale ha confermato che il comportamento tenuto dal lavoratore, consistente in attività di lavoro per proprio conto presso il bar di sua proprietà per l’appunto nei tre giorni in cui era risultato assente per malattia, deponesse nel senso che “egli non era impossibilitato a svolgere la sua prestazione lavorativa”. Del resto, il dato che le mansioni disimpegnate dal ricorrente fossero “state espressamente indicate nel corpo della memoria difensiva, della fase sommaria del giudizio”, appare ininfluente, non avendo neppure allegato il ricorrente che quella indicazione fosse idonea a far emergere che il particolare impegno richiesto al lavoratore nell’espletamento delle sue mansioni facesse sì che la dichiarata malattia fosse ostativa all’attività lavorativa quale lavoratore subordinato, ma non a quella in proprio svolta durante la malattia presso il suo bar.
Trattasi comunque di apprezzamenti delle risultanze probatorie delle quali non è consentita una rivisitazione in questa sede di legittimità, e che il ricorrente non ha ammissibilmente censurato con pertinente mezzo di ricorso, diverso da quello di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.
8. Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore del difensore della controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge, e distrae in favore del difensore della controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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