CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 giugno 2018, n.14993
Tributi – “Solve et repete” – Condono fiscale – Ammissibilità – Esclusione – Ragioni – Fattispecie
Fatti di causa
Rilevato che il contribuente, la F.E. società per azioni, presentava, in data 16 giugno 2003, la dichiarazione per la definizione dei ritardati od omessi versamenti ex art. 9 bis della legge 27 dicembre 2002, n. 289, cui il contribuente aveva aderito, per un complessivo importo di euro 2.050.037 optando per la ripartizione in quatto rate ma non versava una di queste rate;
che in data 27 maggio 2004 la contribuente presentava dichiarazione di definizione dei ritardati od omessi versamenti ex art. 9 bis della legge 27 dicembre 2002, n. 289 al fine di saldare la rata non pagata l’anno precedente e optava anche questa volta per il pagamento a rate commettendo degli errori di calcolo che ne determinavano il pagamento in misura inferiore al dovuto di euro 81.333; inoltre una rata veniva versata con un ritardo di tre mesi;
che l’Agenzia delle entrate, in data 5 dicembre 2006, notificava alla contribuente il diniego della definizione dei ritardati od omessi versamenti in quanto formalmente errata e conversamenti tardivi;
che la società contribuente impugnava davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino il diniego del condono notificato nel 2006 e la relativa cartella da esso scaturente;
che la Commissione Tributaria Provinciale di Torino con sentenza 67/22/07 respingeva il ricorso, ritenendo che nessuna norma prevede un termine entro cui notificare il diniego e che per poter beneficiare del condono occorre provvedere ai pagamenti entro i termini indicati;
che, a seguito di appello della contribuente, la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte confermava la sentenza di primo grado, affermando “che ogni condono deve definire situazioni debitorie che risultano ancora pendenti in forza di mancati pagamenti relativi a debiti d’esercizio e non a mancati pagamenti di rate di condono precedenti, pur se per tali condoni vengono successivamente riaperti i termini verificandosi, nel caso, un condono a cascata con moto perpetuo”;
che il contribuente proponeva ricorso affidato a due motivi e l’Agenzia delle entrate si costituiva chiedendo che il ricorso fosse dichiarato inammissibile o comunque infondato.
Ragioni della decisione
Considerato che con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 9 bis della legge n. 289 del 2002 in quanto tale norma sarebbe applicabile anche alle rate non pagate a seguito di definizione in virtù dello stesso art. 9 bis;
che con il secondo motivo, strettamente collegato al primo, in relazione all’art. 360 cod; proc. civ., comma 1, n. 4, la società contribuente denuncia l’assoluta insufficienza della sentenza impugnata in quanto non sarebbe sufficiente una motivazione fondata sull’impossibilità di proporre un condono di condono;
ritenuto che i motivi, che per la loro stretta connessione possono essere affrontati congiuntamente, sono entrambi infondati;
che infatti risulta che la contribuente, dopo non aver provveduto al pagamento di una rata del condono ex art. 9 bis cit. nel 2003, ha successivamente, l’anno successivo, posto in essere un “condono di condono” e peraltro neppure adempiendo a tutti gli obblighi, in quanto ha commesso un ritardo e ha effettuato un pagamento in misura insufficiente, in violazione del suddetto art. 9 bis;
considerato che, secondo questa Corte, le disposizioni in materia di condono fiscale sono derogatorie di quelle generali dell’ordinamento tributario ed integrano sistemi compiuti di natura eccezionale, ne consegue che anche ciascuna delle diverse ipotesi di definizione agevolata previste dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289, costituisce una propria specifica disciplina, di stretta interpretazione, non suscettibile di essere integrata in via ermeneutica né dalle norme generali dell’ordinamento tributario, né da quelle dettate per altre forme di definizione, persino se contemplate dalla medesima legge e che, con riferimento in particolare all’art. 9 bis citato, (condono cosiddetto demenziale) è necessaria, non venendo in discussione la sussistenza dei debiti tributari emergenti dalle dichiarazioni dello stesso contribuente, l’integrità e la tempestività di tutti i versamenti in sanatoria (Cass. 8 novembre 2013 n. 25238);
ritenuto che, ripercorrendo le argomentazioni di Cass. 19 gennaio 2018, n. 1317, presupposto necessario per l’adesione al condono di cui all’art. 9 bis della legge n. 289 del 2002 è infatti, come spiega la chiara lettera della norma, il ritardo o l’omissione di pagamenti risultanti dalle dichiarazioni annuali, non anche il ritardo o l’omissione di pagamenti relativi ad altro e diverso condono (nella specie quello di cui allo stesso art. 9 bis della legge n. 289 del 2002);
che l’art. 9 bis citato non può essere applicato in via analogica così da consentire la definizione dei ritardati od omessi pagamenti relativi ad altri e diversi condoni – in modo da permettere, come correttamente paventato dall’Agenzia delle entrate, un “condono di condono” – perché da un lato manca un vuoto normativo, presupposto indispensabile per l’applicazione in via analogica (in quanto l’ipotesi del ritardo nei pagamenti dovuti in seguito al condono di cui all’art. 9 è compiutamente disciplinata, come sottolineato dal ricorrente, dal comma 12 dell’art. 9 stesso) e dall’altro (e soprattutto) manca quella identità di ratio che sola consente l’esercizio del potere di applicazione analogica da parte del giudice;
che, infatti, il procedimento di applicazione in via analogica, pur astrattamente possibile qualora si ammettesse che le norme in tema di condono abbiano natura non eccezionale ma speciale in quanto si armonizzano pur sempre con il resto dell’ordinamento giuridico e trovano una legittimazione in quanto coerenti con le esigenze di cui agli art. 81 (pareggio del bilancio) e 111 Cost. (ragionevole durata del processo), non si giustifica in ogni caso nel caso concreto;
che ratio del condono fiscale è infatti, come sottolineato da Cass. 29 novembre 2013, n. 26767 (secondo cui la disciplina del condono risponde all’esigenza di conseguire risorse per lo Stato entro i termini perentori connessi alla redazione del bilancio statale) e da Cass., S.U., 6 luglio 2017, n. 16692, quella di recuperare risorse finanziarie e di ridurre il contenzioso (così assecondando appunto i principi di parità del bilancio di cui all’art. 81 Cost. e di ragionevole durata del processo di cui all’art. Ili Cost.), nel rispetto però delle previsioni costituzionali di cui agli art. 3 e 53, che conferiscono alle norme in tema di condono carattere di stretta interpretazione, in ragione della loro obiettiva deroga al principio di uguaglianza nel trattamento fiscale dei cittadini davanti al Fisco;
che qualora infatti si consentisse di applicare le norme in tema di condono anche per debiti nei confronti dell’Erario derivanti da precedenti condoni, si sacrificherebbero eccessivamente i principi di uguaglianza davanti al Fisco, di ragionevolezza (espressione del principio di uguaglianza), di certezza del diritto (parimenti espressione del principio di uguaglianza: in questo senso Corte cost. n. 219 del 2013) e del dovere di tutti di contribuire alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, perché il contribuente verrebbe irragionevolmente ad usufruire due volte, per la stessa imposta, di un atto demenziale dettato da contingenti ed eccezionali esigenze finanziarie e di carico giudiziario, che verrebbero ad assumere un peso eccessivo nel delicato bilanciamento di valori con i citati art. 3 e 53 Cost., oltretutto con un assai discutibile ed evanescente contributo proprio alle suddette esigenze finanziarie dello Stato (in ragione dell’esiguità della somma recuperata dal Fisco, falcidiata da un doppio condono) e della ragionevole durata dei processi (a causa del contenzioso relativo all’ammissibilità del “condono di condono”);
che ritenere dunque ammissibile, in via interpretativa, un “condono di condono”, determinerebbe l’introduzione, in via surrettizia e generalizzata, di nuova forma di condono, circostanza più volte stigmatizzata dalla Corte costituzionale (Corte cost. n. 229, e 232 del 2017; 233 del 2015), la quale, proprio per la delicatezza della materia e la difficoltà di trovare il giusto equilibrio tra i diversi principi costituzionali, ha anche costantemente affermato la competenza esclusiva dello Stato in tema di condoni, proprio a voler sottolineare la centralità e l’esclusività del Parlamento nella decisione circa l’opportunità degli stesso, escludendo così implicitamente da tale decisione gli altri poteri dello Stato (non solo le Regioni, ma anche la Magistratura); che, in particolare, in altre pronunce la Consulta ha altresì affermato che va dichiarata illegittima una norma regionale che abbia l’effetto di estendere l’area del condono, ledendo l’affidamento dei consociati nella natura definitiva della normativa in questione, e con esso, in ultima analisi, la stessa certezza del diritto, che la Corte costituzionale ha espressamente individuato come un valore potenzialmente suscettibile di essere compromesso da ogni condono, valore che così funge da criterio, unitamente ad altri, alla luce del quale valutare l’osservanza degli «stretti limiti» imposti al condono dal sistema costituzionale (sentenze n. 54 del 2009, 196 del 2004 e n. 369 del 1988);
che è evidente pertanto che una estensione dell’area del condono non può neppure avvenire in, via di una irragionevole e forzata interpretazione della norma da parte del giudice;
che del resto, in tema di condono tombale, la Corte costituzionale ha definito quest’ultimo disciplina eccezionale rispetto al principio dell’indisponibilità della pretesa erariale, con la conseguenza che «non costituisce fonte di discriminazione costituzionalmente rilevante il fatto che il legislatore abbia delimitato l’ambito di applicazione della norma, in quanto non è fonte di illegittimità costituzionale il limite alla estensione di norme che, come quella in esame, costituiscono deroghe a principi generali» (Corte cost. n. 49 e 112 del 2013 e 225 del 2014);
che quanto alla possibilità di sfruttare la proroga del condono di cui all’art. 1, comma 2, del D.L. n. 143 del 2003, convertito in legge n. 212 del 2003, per cercare di addivenire ad un “condono di condono”, in altra pronuncia la Consulta ha parimenti inteso in senso restrittivo le norme di cui alla legge n. 289 del 2002, affermando sia che la ratio della proroga di cui all’art. 10 della legge n. 289 del 2012 è diretta a consentire agli uffici tributari di procedere all’accertamento in un termine più ampio nei soli confronti dei contribuenti che non hanno portato all’attenzione degli uffici le loro posizioni tributarie attraverso la presentazione di precedenti istanze di condono) sia la natura eccezionale di ogni ampliamento temporale dei poteri accertativi, ampliamento di stretta interpretazione e, quindi, non estensibile ai contribuenti che abbiano presentato la richiesta di agevolazione e non abbiano, poi, di essa effettivamente goduto (Corte cost. n. 247 del 2011);
che non può poi non ricordarsi, in questa breve analisi dei precedenti più significativi in tema di condono, la sentenza C-132/06 del 17 luglio 2008 con la quale la Corte di Giustizia – a proposito degli art. 8 e 9 della legge n. 289 del 2002 in questione – ha accolto i rilievi della Commissione ritenendo che il sistema comune in materia di IVA impone ad ogni Stato membro di adottare tutte le misure più idonee affinché il tributo in esame venga integralmente riscosso: quale logico corollario di tale affermazione ne è derivata la dichiarazione di incompatibilità con la Direttiva citata di quelle norme che possano pregiudicare la riscossione effettiva dell’imposta o introdurre differenze significative nel trattamento dei soggetti passivi;
che secondo la Corte di Giustizia, effetti di tal tipo conseguono dalla normativa sul condono, avendo lo Stato italiano, con i citati art. 8 e 9 della legge n. 289 del 2002, di fatto rinunciato all’accertamento delle operazioni imponibili ed alla riscossione della relativa imposta, a fronte del pagamento da parte dei contribuenti, che decidono di aderire al condono, di una somma «non equivalente» all’imposta effettivamente dovuta;
che i giudici europei, dopo avere stigmatizzato il condono quale istituto che di fatto favorisce i contribuenti colpevoli di frode (in termini espliciti l’affermazione è contenuta nel par. 47), concludono dichiarando l’inadempimento dello Stato italiano agli obblighi imposti dagli art. 2 e 22 della sesta direttiva, nonché dall’art. 10 del Trattato CE;
che questa stessa Corte di Cassazione ha, in numerose occasioni, sia sottolineato la natura di stretta interpretazione delle norme in tema di condono (Cass. 28 luglio 2017, n. 18792; 17 luglio 2017, n. 18424; 8 novembre 2013, n. 25238; 30 novembre 2012, n. 21364), sia l’illegittimità del cd. “condono di condono” (da ultimo la già citata Cass. 19 gennaio 2018, n. 1317);
che sotto quest’ultimo profilo ha affermato Cass. 3 ottobre 2006, n. 21328, che il condono fiscale, essendo un accertamento straordinario o eccezionale, in deroga alle norme generali ed ordinarie, di un rapporto giuridico tributario, non è ammissibile, in mancanza di un’esplicita disposizione legislativa, relativamente ad un altro condono: consentire un ulteriore accertamento straordinario, derivante da una legge successiva, di un rapporto già accertato in via straordinaria, equivarrebbe infatti ad ammettere un’eccezione di secondo grado, con la conseguenza che se l’interpretazione letterale delle formule linguistiche impiegate dal legislatore lascia dei margini di incertezza, essa deve essere eliminata tenendo conto della natura eccezionale della norma di condono e deve orientare l’interprete a estrarre dalle disposizioni normative la norma strutturalmente di specie più bassa e ad applicabilità più ristretta (Cass. 19 gennaio 2018, n. 1317);
che, oltre a Cass. 19 gennaio 2018, n. 1317, sulla non ammissibilità del “condono di condono” si sono altresì espressamente pronunciate anche Cass. 28 dicembre 2011, n. 29217 e 24 settembre 2010, n. 20142; Cass., S.U., 25 luglio 2007, n. 16412;
che, ancora, ha affermato Cass. 24 ottobre 2011, n. 22065, che la definizione agevolata di cui all’art. 9 bis della legge27dicembre 2002, n. 289, non può avere ad oggetto le rate di una precedente istanza di definizione, presentata ai sensi della medesima norma, rimaste insolute, e quindi, si ritiene, a maggior ragione se presentata ai sensi di altra norma (nel caso di specie ai sensi dell’art. 9 della stessa legge);
ritenuto pertanto che, nel caso di specie, mancavano i presupposti per l’applicazione della definizione dei ritardati od omessi pagamenti di cui all’art. 9 bis della legge n. 289 del 2002 relativamente ad un debito con il Fisco maturato a seguito di condono in relazione allo stesso art. 9 bis e che pertanto legittimamente l’Agenzia delle entrate ha negato alla società contribuente tale possibilità attraverso il suo provvedimento di diniego;
ritenuto che pertanto il ricorso della società contribuente va rigettato e che la disciplina delle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 2.800, oltre a spese prenotate a debito.
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