CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 giugno 2018, n. 14999
Tributi – Imposta di registro – Aumento di capitale – Conferimento mediante cessione d’azienda – Riqualificazione negoziale – Cessione di singoli beni – Imposta proporzionale – Circostanze concrete della sequenza di atti – Valutazione del giudice
Fatti di causa
Rilevato che veniva aumentato il capitale sociale della società B.L.S. s.r.l. per euro 89.950 mediante un conferimento, da parte della società L. s.r.l., che le due parti concordemente qualificavano come conferimento di ramo di azienda;
che il conferimento consisteva, secondo le parti, in una attività “relativa alla fase di collaudo del prodotto finito (veicoli, autoveicoli e accessori) che è un processo all’interno delle attività di produzione (preparazione dei materiali, stampaggio, assemblaggio, verniciatura, montaggio e collaudo)”, nonché: 1) in un complesso immobiliare, costituito da due separati corpi di fabbrica della superficie totale di cinquemila metri quadrati e del valore di euro 1.450.000, gravato da una ipoteca di euro 2.100.000 a fronte di un mutuo per la metà della cifra accollato alla società conferitaria: tale immobile veniva contestualmente locato alla società conferente; 2) in mobili e arredi d’ufficio per un valore di euro 10.000; 3) in due dipendenti svolgenti l’una funzioni direttive e l’altra amministrativo-contabili;
che l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate di Rimini riqualificava tale operazione come conferimento di beni mobili ed immobili, emettendo di conseguenza un avviso di liquidazione e di tassazione proporzionale dell’imposta di registro ipotecaria e catastale per 71.800 euro, relativa al suddetto atto;
che le due società proponevano ricorso avanti la Commissione Tributaria Provinciale di Rimini, la quale accoglieva il ricorso, annullando l’avviso di liquidazione, affermando che fosse precluso all’Ufficio l’utilizzo di elementi extratestuali nell’interpretazione dell’atto assoggettato a tassazione;
che l’Agenzia delle Entrate proponeva appello che veniva respinto dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna la quale, con sentenza n. 70/04/11 del 19 luglio 2011, affermava che “non è sufficiente sostenere che poiché il bene strumentale all’attività aziendale è stato subito locato alla società conferente, il bene conferito non poteva consistere in un ramo d’azienda, ma solamente in un fabbricato ed in vari beni mobili in esso contenuti, non essendo stato in alcun modo dimostrato che tale immobile, unitamente alle sue strutture mobiliari interne e con l’ausilio del personale dipendente che ivi ha prestato e continua a prestare la sua opera, non fosse idoneo a costituire un complesso di beni organizzati e dunque che il negozio stipulato non potesse avere ad oggetto un ramo aziendale. Ed invero … sarebbe stato necessario dimostrare, con onere in capo all’Agenzia delle entrate, che l’immobile ed i connessi beni mobili non avevano alcuna attinenza con il processo produttivo della conferente. Tale prova, che deve essere puntuale e riguardare la concerta funzione dei beni conferiti non è certo stata allegata ed idoneamente prospettata, essendo al contrario emerso dagli atti che la società L. s.n.c. svolgeva un’attività di studio, progettazione e costruzione di furgonature per veicoli commerciali ed industriali, cui l’immobile e le sue strutture appaiono (almeno potenzialmente) strumentali, per cui possono essere oggetto di negozio relativo ad una entità organizzata idonea al perseguimento dell’oggetto sociale che l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso affidato a due motivi e le società contribuenti si costituivano con un unico controricorso chiedendo che il ricorso fosse dichiarato inammissibile o comunque infondato;
Ragioni della decisione
Considerato e ritenuto quanto segue:
Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate denuncia falsa applicazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, nonché degli artt. 1 e 2 della Tariffa Parte I, prevista dal medesimo d.P.R. n. 131 del 1986, violazione dei principi in materia di abuso del diritto deducibili dall’ordinamento comunitario ed interno e dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., in quanto il conferimento di mobili ed arredi d’ufficio e di un immobile gravato da mutuo ipotecario, l’accollo dello stesso da parte della società conferitaria e la contestuale locazione dello stesso immobile alla società conferente maschera in realtà un conferimento di singoli beni, dal momento che l’immobile, in quanto locato alla società conferitaria, non potrebbe essere funzionale rispetto al ramo d’azienda.
Con il secondo motivo di ricorso, all’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate denuncia insufficienza della motivazione in relazione ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, e in particolare perché non sarebbe spiegato il perché i beni conferiti costituirebbero un complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa.
I due motivi così brevemente descritti possono essere congiuntamente esaminati, in quanto tra loro strettamente connessi, e sono fondati.
1. Deve premettersi che non trova applicazione al caso di specie il nuovo testo dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, come modificato dall’art. 1, comma 87, lett. a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) ed entrato in vigore il 1° gennaio 2018 (cfr. in questo senso, tra le altre, Cass. 28 febbraio 2018, n. 4590; Cass. 28 febbraio 2018, n. 4589; Cass. 23 febbraio 2018, n. 4407).
Tale norma infatti, nel testo novellato, prevede che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”, mentre il vecchio testo stabilisce che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”:
Non può condividersi la tesi della retroattività del nuovo testo dell’art. 20 cit. in quanto gli artt. 10 e 11 delle disposizioni sulla legge in generale prevedono che una norma non ha effetto retroattivo, salvo contraria espressa disposizione (Corte cost. 193 del 2017; nello stesso senso Corte cost. n. 257 del 2017; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23424; Cass. 30 maggio 2017, 13597), assente nel caso di specie.
Il principio di tendenziale irretroattività della legge civile è stato affermato anche dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, 6 settembre 2011, C-108/10, § 83) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo; quest’ultima ha ricondotto tale principio all’art. 6 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Raffineries greques Stran et Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 37-50; Papageorgiou c. Grecia, 22 ottobre 1997, §37; Agrati c. Italia, 8 novembre 2012, §11: quest’ultima sentenza sottolinea altresì che una norma retroattiva si giustifica solo se obbedisce a ragioni imperative di interesse generale).
La Corte costituzionale peraltro si è ripetutamente espressa nel senso che «va riconosciuto carattere interpretativo alle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata, allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo» (sentenze n. 132 del 2016 e n. 424 del 1993) ed ha altresì affermato che «il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore» (ex plurimis: sentenze n. 232 del 2016, n. 314 del 2013, n. 15 del 2012, n. 271 del 2011).
Tuttavia, la Consulta ha anche più volte affermato che il divieto di retroattività della legge, pur non essendo stato elevato a dignità costituzionale (salvo la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale), costituisce fondamentale valore di civiltà giuridica, per cui, allorquando «una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore», non è precluso al legislatore di emanare norme retroattive (sentenza n. 232 del 2016; n. 150 del 2015), che però, oltre a dover espressamente contenere come detto tale previsione di retroattività, deve altresì, al fine di superare indenni il vaglio di costituzionalità, trovare adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza ed essere sostenuta da adeguati motivi di interesse generale (ex multis, sentenze n. 232 del 2016, n. 69 del 2014 e n. 264 del 2012).
Ora, nel caso di specie, anche a voler prescindere da un lato come detto dall’assenza di un’espressa menzione della retroattività del nuovo art. 20 nel corpo della legge e dall’altro da un’indagine circa la ragionevolezza della norma, non si riscontrano quegli «adeguati motivi di interesse generale» richiamati dalla Consulta o quelle «ragioni imperative di interesse generale» citate dalla Corte di Strasburgo elementi ritenuti necessari per sostenere la retroattività della norma, trattandosi anzi di disciplina che, prima facie, non appare certo assecondare gli interessi del Fisco e quindi della collettività in generale.
Deve altresì evidenziarsi che del nuovo testo dell’art. 20 non può predicarsi né che sia portatore di «un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore» né che persegua lo scopo di superare un «dibattito giurisprudenziale irrisolto», così come richiesto dalla Consulta perché ad una norma possa assegnarsi natura interpretativa.
Quanto infatti alla «interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore» la norma introduce dei limiti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie che prima non erano previsti, fermo restando che l’amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’ art. 10 bis della legge n. 212 del 2000 (introdotto dal d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel solo ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica, per cui non può certo dirsi che la nuova versione dell’art. 20 porti un’interpretazione del vecchio testo che fosse in qualche modo desumibile da quest’ultimo.
Quanto poi ad un ipotetico «dibattito giurisprudenziale irrisolto» occorre considerare che l’orientamento giurisprudenziale nettamente prevalente ha escluso la natura antielusiva dell’art. 20 a beneficio di quella interpretativa, Ossia la norma è diretta a determinare la qualificazione giuridica della fattispecie (Cass. 21676 del 2017; n. 6758 del 2017; n. 1955 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 24594 del 2015; n. 1955 del 2015; contra n. 2054 del 2017; n. 6835 del 2013; n. 24452 del 2007; n. 2713 del 2002). Soprattutto, l’applicazione dell’articolo 20 previgente – in termini di rilevanza qualificatoria anche dei dati extratestuali e di collegamento negoziale riconducibili all’atto presentato alla registrazione – si fondava su un orientamento giurisprudenziale di legittimità che, per quanto effettivamente avversato da parte della dottrina e da talune pronunce di merito, poteva pur tuttavia definirsi, sul punto specifico, sostanzialmente consolidato.
Non varrebbe obiettare che la relazione illustrativa alla legge n. 205 del 2017 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione. Tale elemento può, infatti, agevolmente superarsi sulla base del tenore testuale infine adottato dallo stesso art. 1 comma 87 in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” all’art. 20 del d.P.R. 131 del 1986, palesandosi così quale disposizione prettamente innovativa del precedente assetto normativo. E ciò trova conferma, in accordo con il dato letterale del nuovo disposto, anche in ragione del fatto che tale modificazione ha determinato una rivisitazione strutturale profonda ed antitetica della fattispecie impositiva pregressa; là dove invece l’art. 20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono invece oggi espressamente esclusi; fatto salvo il loro ‘recuperò, come detto, nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto di cui all’art. 10 bis legge 212 del 2000 cit.
In definitiva, va dunque affermato che l’art. 1, comma 87, lett. a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 non avendo natura interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo; conseguentemente, gli atti antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018) continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art. 20 del d.P.R. 131 del 1986.
2. Secondo l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, vecchio testo (applicabile dunque come detto ratione temporis), la cui rubrica si intitola “Interpretazione degli atti”, «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione; anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».
Ebbene, secondo questa Corte (Cass. 28 febbraio 2018, n. 4590; Cass. 28 febbraio 2018, n. 4589; Cass. 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass. 15 marzo 2017, n. 6758; 8 giugno 2016, n. 11692), l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, nel dettare non una regola antielusiva ma una regola interpretativa, impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti e dei singoli motivi soggettivi. Tale norma dunque si riferisce agli atti nella loro oggettività ermeneutica, prescindendo da qualunque riferimento all’eventuale disegno o intento elusivo delle parti o di alcune di esse e pertanto non è possibile qualificare la disposizione della legge di registro come disposizione antielusiva senza forzarne la struttura normativa, introducendovi un elemento estraneo – appunto, l’elusività fiscale – che viceversa corrisponde solo a un’eventualità della fattispecie. L’interprete dunque è chiamato à valutare quale fosse il risultato concreto perseguito dalle parti e individuare quale sia l’imposta di registro prevista per quel risultato, a prescindere da un’indagine circa le eventuali intenzioni delle parti di eludere la normativa fiscale. In questa prospettiva dunque, non rileva neppure la buona o mala fede dei contraenti, in quanto, qualora per ipotesi le parti avessero raggiunto un risultato elusivo delle norme fiscali pur senza averlo voluto, dovrebbero comunque pagare l’imposta relativa a quel risultato concretamente ottenuto.
Come norma interpretativa, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 è dunque una norma di “qualificazione” degli atti, che non si sovrappone all’autonomia privata dei contribuenti, ma si limita a definirne l’esercizio insieme agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale, fra i quali naturalmente non può trascurarsi la comune intenzione delle parti prevista dall’art. 1362 cod. civ. Quest’ultimo elemento però rileva come elemento di qualificazione della complessa operazione economica solo dal punto di vista civilistico, mentre le conseguenze fiscali di quella qualificazione discendono direttamente dalla legge, prescindendo dunque, lo si ribadisce, dalle intenzioni delle parti, quand’anche fossero tutte d’accordo per ottenere un certo risultato dal punto di vista fiscale.
La qualificazione interpretativa prescritta dal d.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale, concreta e oggettiva: quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva, ossia la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica (Cass. 12 luglio 2005, n. 14611; 23 novembre 2001, n. 14900) e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni tra loro collegate e anche se non contestuali (Cass. 4 febbraio 2015, n. 1955).
In effetti i criteri indicati dall’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 non si discostano da quelli generali in tema di interpretazione dei contratti che impongono una interpretazione oggettiva dell’atto alla luce della comune intenzione delle parti, come prescritto dall’art. 1362 cod. civ. E’ l’operazione economica complessivamente posta in essere che deve, “parlando da sola”, rivelare l’oggettiva, concreta e comune intenzione delle parti. In tal modo l’interpretazione aderente ai canoni legali ermeneutici restituisce dunque l’operazione negoziale nella sua realtà, scongiurando il rischio di un’alterazione della volontà privata (Cass. 28 febbraio 2018, n. 4590; Cass. 28 febbraio 2018, n. 4589; Cass. 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass. 15 marzo 2017, n. 6758, tutte già citate).
L’imposta di registro va dunque correlata alla causa concreta dell’operazione, in ossequio al principio costituzionale di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non è in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela invece soltanto nella dimensione complessiva dell’affare. In questa prospettiva, il giudice può e deve verificare la qualificazione negoziale operata dall’ufficio finanziario circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione, i quali vanno riferiti alle circostanze concrete della sequenza di atti.
3. Ora, se è vero che l’accertamento della natura, dell’entità, delle modalità e delle conseguenze dell’operazione economica complessivamente realizzata dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione ragionevole, congrua ed immune da vizi logici e giuridici (ex multis, Cass. 23 febbraio 2018, n. 4407; Cass. 22 settembre 2016, n. 18585; Cass. 28 marzo 2006, n. 7074; Cass. 12 luglio 2005, n. 14611), nel caso in esame tale sindacato si impone in quanto la Commissione Tributaria Regionale non solo ha trascurato l’efficacia interpretativa e probatoria di tutti gli elementi fattuali e logici dedotti dall’Agenzia delle entrate a fondamento della non plausibilità di qualificare il conferimento in questione come avente ad oggetto un ramo di azienda ma ha palesemente e irragionevolmente disatteso i principi di diritto in precedenza ricordati, per cui la sentenza merita conseguentemente di essere cassata.
4. Non sembra infatti che la sentenza impugnata abbia tenuto in benché minimo conto del significato dell’espressione “ramo d’azienda”: secondo la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 13 dicembre 1991, in causa C – 164/90, Muwi Bouwgroep BV contro SLaatssecretaris van Financien, ripresa e citata da Cass. 26 aprile 2001, n. 6079, per ramo di azienda può intendersi un insieme di beni in grado di funzionare in maniera autonoma” (cfr. punto 22 della motivazione:”when a company transfers to another various items which form an entity capable of operating independently”). Tale concetto di autonomia funzionale del complesso oggetto di trasferimento, ai fini dell’applicabilità dell’art. 7, n. 1, lett. b), è stato ribadito dalla Corte di Giustizia nella sentenza 13 ottobre 1992 in causa C – 50/91, Commerz – Credit – Bank, nella quale si definisce come ramo di attività “un insieme di beni e di persone capaci di concorrere alla realizzazione di un’attività determinata”.
Pertanto, il concetto di “ramo di azienda” non si discosta nella sostanza da quello, più generale di azienda di cui all’art. 2555 cod. civ., che definisce infatti l’azienda come il complesso dei beni organizzato per l’esercizio dell’impresa.
La Cassazione a sezioni unite (Cass., SU, 5 marzo 2014, n. 5087) riconobbe l’usucapibilità dell’azienda in ragione della possibilità di individuarla e riconoscerla come un quid unitario, osservando che nella definizione dell’art. 2555 cod. civ. l’elemento unificatore della pluralità dei beni – indicato nell’organizzazione per l’esercizio dell’impresa – è ancorato ad un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’impresa). Occorre dunque, perché possa parlarsi di azienda, che i beni in essa compresi siano funzionalmente e concordemente diretti e organizzati verso un fine imprenditoriale, elemento che invece non emerge dalla motivazione della sentenza impugnata.
Del resto è contrario a ragionevolezza ritenere che un qualche processo imprenditoriale possa avvenire attraverso un immobile locato ad altri: manca cioè la possibilità di individuare i tipici elementi dell’azienda rappresentata dai due principali fattori della produzione, ossia il capitale (l’immobile è locato ad altri) e il lavoro (i due impiegati lavorano all’interno dell’immobile locato ad altri).
Inoltre, secondo la Cassazione l’azienda consiste in una universitas rerum ed ha carattere unitario: «il conferimento, ai sensi degli artt. 1 e 16 del d.lgs. n. 356 del 1990 di un’azienda bancaria (nella specie una Cassa di Risparmio) in una società per azioni determina la successione a titolo particolare della totalità dei crediti dell’azienda trasferita da parte della società conferitaria senza esclusione di quelli derivanti dal diritto al risarcimento dei danni provocato al patrimonio aziendale dalla “mata gestio” degli organi amministrativi e di controllo dell’ente conferente, in quanto componenti della “universitas” aziendale» (Cass. 12 giugno 2007, n. 13765); «la locazione di immobile con pertinenze si differenzia dall’affitto di azienda perché la relativa convenzione negoziale ha per oggetto un bene – l’immobile concesso in godimento – che viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali assumono, comunque, carattere di accessorietà, rimanendo ad esso collegati sul piano funzionale in una posizione di coordinazione- subordinazione. Per contro, nell’affitto di azienda, lo stesso immobile è considerato non nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni (mobili ed immobili) legati tra loro da un vincolo di interdipendenza e complementarità per il conseguimento di un determinato fine produttivo» (Cass. 15 marzo 2007, n. 5989).
Manca, nella sentenza impugnata, qualsiasi tentativo di descrivere un’unitarietà aziendale, che sarebbero stati tanto più necessari in ragione dell’istintiva in configurabilità di un’azienda per il solo fatto di una proprietà di un immobile con arredi e mobili d’ufficio locato ad altri con gli unici due impiegati che lavorano all’interno di quell’immobile.
Infine, l’idoneità del complesso aziendale a creare, attraverso la produzione o lo scambio di beni o servizi, nuova ricchezza, fa sì che l’insieme dei beni abbia un valore diverso e superiore rispetto alla somma dei singoli elementi che compongono l’azienda, valore misurabile in termini monetari e definito valore di avviamento: secondo la Cassazione infatti l’avviamento è una qualità immateriale dell’azienda stessa (Cass. 5 marzo 2013, n. 5845), di cui però pure non si fa menzione nella sentenza impugnata.
Manca dunque un qualsiasi accenno a quegli elementi che – di una serie di beni distinti e autonomi fra loro – fanno un’azienda, ossia l’organizzazione di essi ad un uno scopo unitario, la loro funzionalità ad un fine imprenditoriale potenzialmente idoneo a produrre degli utili, la possibilità di considerarli unitariamente da un punto di visto economico- funzionale, la presenza dell’avviamento.
Sembra dunque che, aldilà del nomen iuris scelto dalle parti, non vi siano altri indizi significativi che possono condurre l’interprete a qualificare il conferimento in questione come avente ad oggetto un ramo d’azienda: ha del resto affermato la Cassazione che «ai fini della qualificazione come cessione di azienda – assoggettabile ad imposta di registro, anziché ad I.V.A. – del trasferimento solo di alcuni dei beni in essa rientranti, non è decisiva la volontà delle parti, peraltro desunta, nella specie, esclusivamente dal “nomen iuris” attribuito all’atto posto in essere, occorrendo invece verificare se, in base agli elementi probatori disponibili, i beni complessivamente ceduti abbiano, o meno, mantenuto carattere autonomo idoneo a consentire l’esercizio dell’impresa, seppure con le integrazioni che il cessionario abbia dovuto eventualmente effettuare» (Cass. 8 maggio 2013, n. 10740).
5. Pertanto, alla luce di suddetti principi, dovendosi tenere conto anche di circostanze extratestuali rispetto al singolo atto, non ostando che l’imposta di registro sia formalmente un’imposta d’atto, e interpretando la complessiva normativa fiscale alla luce di una lettura costituzionalmente orientata al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., nonché dei principi comunitari in materia fiscale (Corte di Giustizia, sentenza 21 febbraio 2006 C-255/02, Halifax; 10 novembre 2011 C-126/10, Foggia, sentenze secondo le quali le operazioni realizzate al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale senza un autonomo obiettivo economico, ancorché eseguite in forma apparentemente corretta quale una cessione di beni o una prestazione di servizi nell’esercizio di un’attività economica – rivestono connotati sostanzialmente elusivi) e quindi tenendo conto che l’imposta deve essere commisurata alla complessiva operazione economica realizzata dal contribuente, il giudice di merito dovrà valutare se elementi logici e fattuali, quali la locazione dell’unico immobile facente parte del conferimento ad altra società con all’interno arredi e mobili d’ufficio, nonché la circostanza che tale immobile costituisca il luogo di lavoro degli impiegati, possano o meno portare a qualificare la complessiva operazione economica come cessione di un ramo d’azienda.
Sembra infatti che la sentenza appellata non abbia fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte secondo i quali: «In ambito tributario, a fini della determinazione dell’imposta applicabile, la qualificazione di un negozio come cessione d’azienda postula una valutazione complessiva dell’operazione economica realizzata, assumendo rilievo preminente la causa reale di essa, alla luce dell’obiettivo economico perseguito e dell’interesse delle parti alle prestazioni» (Cass. 20 settembre 2017, n. 21767); «In tema di imposta di registro, l’applicazione dell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, che detta una regola interpretativa e non antielusiva, non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’utilizzazione delle disposizioni antielusive (art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, oggi art. 10-bis della I. n. 212 del 2000), traducendosi nella qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti, sicché il conferimento societario di un’azienda e la successiva cessione dal conferente a terzi delle quote della società devono essere qualificati come cessione di azienda se il Fisco riconosca nell’operazione complessiva – in base alle circostanze obiettive del caso concreto – la causa unitaria della cessione aziendale, senza la necessità di dimostrare un disegno elusivo del contribuente» (Cass. 15 marzo 2017, n. 6758).
Dovrà dunque valutarsi se la complessiva operazione economica, avrebbe dovuto essere giuridicamente qualificata – così come fatto dall’Ufficio delle entrate di Rimini nel suo provvedimento iniziale – come conferimento di singoli beni, con i conseguenti doveri fiscali in capo ai contribuenti discendenti per legge.
6. E’ pertanto irragionevole e palesemente in contrasto con l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 – per non aver adeguatamente vagliato soluzioni alternative al nomen iuris attribuito dalle parti all’operazione economica – la motivazione della sentenza di appello secondo la quale nel caso di specie vi sarebbe stato il conferimento di un ramo d’azienda.
7. Parimenti irragionevole è la motivazione della sentenza di appello nella parte in cui in maniera apodittica attribuisce rilevanza alla circostanza che la società conferente svolgeva un’attività di studio, progettazione e costruzione di furgonature per veicoli commerciali ed industriali, cui l’immobile e le sue strutture appaiono (almeno potenzialmente) strumentali, per cui possono essere oggetto di negozio relativo ad una entità organizzata idonea al perseguimento dell’oggetto sociale”. Tale circostanza avrebbe potuto avere infatti rilievo solo se non vi fosse stata la locazione dell’immobile alla conferente stessa da parte della società conferitaria, perché invece, stando così le cose, nessuna attività imprenditoriale risulta effettivamente trasferita, dato che l’immobile ove eventualmente si svolge l’attività è rimasto nella disponibilità della società conferente.
8. I motivi di doglianza dell’Agenzia delle entrate vanno dunque accolti e la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, e dovendosi procedere al discernimento di una tipica quaestio facti, si impone il rinvio alla Commissione Tributaria Regionale competente, in diversa composizione, la quale rivaluterà la fattispecie, alla luce dei principi di diritto sopra riportati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia-Romagna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
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